Addentrarsi nella geometrica filosofia spinoziana impressa nell’Etica — la maggiore opera del filosofo di origine ebraica — è compito arduo anche per lo specialista. Steven Nadler, filosofo americano e studioso del pensiero del Seicento, di cui Spinoza è tra le massime espressioni, ha l’indubbio pregio di cercare di renderla accessibile e di contestualizzarla senza banalizzarla, come ha già dimostrato in precedenti occasioni a partire da Baruch Spinoza e l’Olanda del Seicento (Einaudi, 2002). Il libretto su cui ci soffermiamo contiene la trascrizione di tre lezioni tenute a Venezia nel 2013 e focalizza l’attenzione su un tema — curiosamente troppo trascurato dalla critica per un autore la cui opera più importante si chiama Etica (rinvio all’edizione curata da Emilia Giancotti per gli Editori Riuniti, 1988) — come il comportamento morale.
Cosa ha da dirci ancora oggi Spinoza con il suo rigoroso sistema di classificazioni e rimandi tra affetti attivi e passivi senza l’appoggio di alcuna trascendenza nella definizione di ciò che è “bene” e ciò che è “male”? E se bene e male non esistono di per sé, essendo nient’altro che “enti di ragione” (come Spinoza già affermava nel Breve trattato su Dio, l’uomo e il suo bene) relativi al nostro punto di vista, alla nostra esperienza, e se ciò che in prima istanza contraddistingue ogni essere vivente — non l’uomo, mettendo con un colpo solo al bando ogni antropocentrismo — è il conatus, cioè la capacità di perseverare nel proprio essere, di potenziarlo, come si può configurare una qualsiasi azione morale, dunque volta almeno a non danneggiare gli altri? Per quanto possa sembrare paradossale alla sensibilità comune (la corrispettiva conoscenza di primo grado secondo Spinoza, inadeguata ma insopprimibile) in cui rimane impressa, più o meno consapevolmente, una matrice religiosa, è proprio il fondamento edonistico, sottolinea Nadler, ad alimentare un’azione etica se è vero che per Spinoza Dio è la Natura, ovvero l’unica sostanza (pertanto impersonale, immanente, dotata d’infiniti attributi di cui pensiero ed estensione sono gli unici a noi conoscibili tramite l’unità di mente e corpo), ed «ogni cosa individuale è l’espressione parziale e limitata di un’unica e medesima potenza infinita».
La spinta all’autoconservazione, come ricorda Nadler, in un individuo che ne è cosciente a livello mentale e corporeo, diventa desiderio. Da qui la spinta verso tutto ciò che accresce il suo benessere (e la fuga da ciò che lo deprime), e da qui la relativizzazione di ciò che è bene e di ciò che è male, considerando «che ciò che è, semplicemente è». Tale relativizzazione non è tuttavia assoluta, ma orientata verso ciò che con certezza sappiamo avvicinarci alla natura propriamente umana, che dunque è ritenuto buono, e che rifugge da ciò che da essa ci allontana, che pertanto diventa cattivo. È l’individuo dotato della massima potenza che indica un’umanità esemplare e che può essere raggiunta solo attraverso una percezione razionale — dunque non reggendosi sulle passioni — di ciò che ci è utile. È dunque il prodotto di idee adeguate, non di una mera esperienza casuale. Se sono le idee adeguate — ma la mente è sempre “idea del corpo”, aspetto che Nadler a volte sembra un po’ sottacere — che ci rendono attivi e non passivi, dunque non dipendenti dall’esterno, esse, a loro volta, non sono altro che «una specie di lucida espressione di quell’impulso naturale», cioè del conatus. Da ciò deriva che la ragione, i cui dettami sono universali (anche se Spinoza in contrasto con il suo pensiero crederà in una sorta d’inferiorità naturale delle donne), rende consapevole l’uomo della necessità di tutte le cose — senza una volontà superiore che seleziona e sovraintende — e del posto che occupa nella Natura. Da questa consapevolezza «la mente […] ha una maggiore potenza sugli affetti, ossia patisce meno da essi» (Etica V, prop. 6). La virtù, in ultima istanza, consiste proprio nel perseguire la propria natura, nel ricercare consapevolmente gli incontri che ne accrescono il benessere, i quali sono connotati da gioia (il cui effetto contrapposto è la tristezza). E la virtù, che è un’esperienza espressamente terrena — non c’è alcuna anima immortale, tanto più inconcepibile per chi non scinde e contrappone mente e corpo — andrà ricercata per se stessa, al di fuori di ogni premio o castigo che inducono a «vivere schiavi delle passioni di speranza e paura». Diversamente sarebbero negate le identificazioni stesse della virtù: «la felicità, la libertà, l’autonomia e la potenza in questa vita».
Pertanto, se alla base di un’azione morale vi è una consapevolezza della gioia che verrà cercata ed arrecata, che è l’opposto della dipendenza da una passione irrazionale che potrebbe indurre a compiere la medesima azione ma generando tristezza e diminuzione della potenza, ciò che chiamiamo “altruismo” altro non è che un effetto della tendenza alla propria autoconservazione. In questi termini, la persona virtuosa sa quanto sarà più utile che esistano persone dedite alla ricerca della gioia, tese dunque ad autoconservarsi, ad autoconservare la natura comune, potenziandola.
Ed agirà — sottolinea Nadler — in modo socratico, cercando di migliorare gli altri. È dunque la condivisione della stessa natura — di cui conoscenza e comprensione sono i tratti indivisibili — a rendere possibile un’etica attiva che non sia il risultato di affetti passivi come odio, compassione e amore, anche se quest’ultimo, come ha osservato Paolo Cristofolini, in quanto espressione più completa della gioia, è sempre attivo. Rimangono le differenze generate da idee inadeguate nel modo di percepire il mondo, così come quelle indotte dalle cose esterne che non sono equamente condivisibili. Ciò può appannare la comune natura. Tuttavia, anche se Nadler non lo dice, si tratta di aspetti, che, storicamente, almeno in parte, possono subire trasformazioni nella direzione di un potenziamento della gioia comune. Ma questa è un’altra storia…
Andrea Girometti
da L’Ateo n. 107