Il Pentateuco, ovvero l’insieme dei primi cinque libri della Bibbia, dovrebbe costituire il fondamento razionale della metafisica e dell’antropologia ebraica e poi cristiana. In realtà sembra espressione, oltre che dei pregiudizi diffusi all’epoca della sua compilazione (ben più tardiva di quanto ha sempre sostenuto la Chiesa cattolica), della insipienza, della creduloneria (ed in certi casi della vera e propria imbecillità), ma anche della disumanità dei suoi autori. Tutto questo lo si può sostenere accademicamente, sulla base di una lettura critico-esegetica neutrale, ma anche con immediatezza di giudizio e con un taglio leggero ed accattivante, per quanto rigoroso.
Cosa cambia, infatti, se invece che da paludati commentatori o da condiscendenti credenti, gli sproloqui pseudo-mosaici sono letti da una intelligenza pratica, dalle buone capacità logiche e matematiche? In tal caso la mitologia biblica si mostra nella sua intima essenza: non solo favola, ma narrazione assurda ed illogica. Ne rende adeguata testimonianza il capitolo cui fa riferimento il titolo del volume. In molti, lo sappiamo, si sono chiesti da dove provenisse e soprattutto dove sarà poi finita l’immensa quantità di acqua usata per il diluvio; ma chi si è cimentato a ragionare sullo stupefacente numero di quaglie cui fa rifermento il libro dei Numeri, che pure sembra scritto da un pedante ragioniere?
In tutta la prima parte del volume si respira lo stesso clima ironicamente dissacratorio, che prende di mira le mirabolanti imprese procreative dei più che vegliardi patriarchi, l’improbabile zootecnia, le incongruenze in tema di sessualità, il confuso racconto della genesi. Ma il Pentateuco è anche un libro crudele, anzi spietato, dove gli uomini sono innanzitutto servi del Dio padrone, ed a propria volta riversano tutta la negatività di quello sui propri consimili. Non occorre molta intelligenza per capirlo, ma i credenti, irrimediabilmente ammaestrati al più a leggere quel che hanno di fronte, hanno perso la capacità di “vedere oltre”.
Francesco D’Alpa, da L’Ateo n. 6/2009