Questo libro è stato dedicato «ai popoli del subcontinente indiano. Affinché la religione si chiami umanesimo». È stato scritto da una donna nata in Bangladesh; è stato vietato dal governo perché accusato di «fomentare sommosse» e ha costretto all’esilio la sua autrice inseguita da una fatwa con tanto di taglia emessa dalle autorità integraliste islamiche. Come racconta lei stessa nella premessa, «nelle strade di Dacca si sono svolte marce in cui veniva invocata la mia morte».
Il romanzo è ambientato nei tredici giorni successivi al 6 dicembre 1992, data in cui un gruppo di fanatici indù distrusse la moschea di Babri Masjid ad Ayodhya, in India, causando spaventosi ritorsioni in Bangladesh, dove la popolazione islamica è maggioritaria. Protagonista del libro è la famiglia Dutta, di origine indù, ma aliena da pratiche religiose e impegnata politicamente. Ciononostante si trova inevitabilmente sopraffatta dalla logica del fondamentalismo, che non prescrive né il rispetto reciproco né la possibilità di mutare un’appartenenza non voluta: «un gatto non ha identità etnica. Solo gli esseri umani si dividono in comunità e razze diverse, solo gli uomini hanno templi e moschee».
Il giovane Suranjan ripete instancabilmente di essere innanzitutto un essere umano, l’anziano Sudhamoy rifiuta di abbandonare la propria patria ai fondamentalisti, ma alla fine la logica impazzita degli opposti integralismi schianta irreparabilmente anche quelle vite improntate ai migliori principî: la violenza fanatica non risparmia alcuna famiglia, il veleno del fondamentalismo trova sempre nuova linfa, e il testo si chiude con la mesta decisione di partire profughi per l’India, sulle tracce dei milioni indù che li avevano preceduti nella fuga.
«Se solo si potesse cancellare la religione dall’agenda politica dei due Paesi! La religione è penetrata così a fondo nel tessuto sociale che è praticamente impossibile per i derelitti affamati e perseguitati del Terzo mondo sottrarsi alla sua morsa di ferro»: è questo accorato, ma assolutamente disincantato appello contenuto nelle sue pagine. Perché, come ricorda l’autrice nella premessa, «l’unico modo di arginare il fondamentalismo e la sua perversa influenza è l’unione di tutti noi che crediamo nei valori dell’umanesimo e del laicismo. Per quanto mi riguarda, nessuno riuscirà a zittirmi».
La storia di Taslima Nasreen è narrata da sé medesima in un articolo pubblicato sul sito dell’IHEU.
Ottobre 2006