L’ateismo

Félix Le Dantec
Edizioni Immanenza
2014
ISBN: 
9788898926374

Félix Le Dantec (1869-1917) fu medico, biologo e filosofo. In Francia il suo testo L’ateismo è molto conosciuto, non così in Italia: benvenuta perciò questa edizione delle Edizioni Immanenza curata da Fabrizio Carlino.

Le Dantec è un pensatore radicale, che non teme di sviluppare le proprie idee fino alle conseguenze più estreme, più scomode e – diremmo oggi – politicamente scorrette: non certo per atteggiamento polemico, tanto meno per accanimento anticlericale. Perché è metodico, coerente e conseguente come pochi. Pochi, del resto, sono per Le Dantec i «veri atei», vale a dire quelli «che vanno, con la logica di atei, fino in fondo alle conclusioni inseparabili dall’ateismo». E in ogni caso atei si nasce: «io sono ateo, come sono bretone, come si è bruni o biondi, senza averlo voluto». L’ateismo, per Le Dantec, non è che una particolare organizzazione del cervello, un peculiare «meccanismo» innato del suo funzionamento, dunque una predisposizione naturale.

Il che ha subito una conseguenza spiacevole o quanto meno – come dicevo – politicamente scorretta. Non c’è possibile dialogo tra atei e credenti. «Dovrebbe essere che i credenti, per discutere con gli atei, potessero dimenticare di essere credenti, e che gli atei rinunciassero al loro ateismo per discutere il valore della fede. Ora questo è non solo difficile, questo è impossibile, poiché negli uni e negli altri la credenza e l’incredulità fanno parte del meccanismo pensante». La distanza tra un cervello naturalmente predisposto alla fede e uno naturalmente predisposto all’incredulità è tale che addirittura difficile per un ateo ammettere l’esistenza di un vero credente e viceversa: ciascuno pensa che l’altro menta, «reciti la commedia» per ipocrisia o per orgoglio. Nessun dialogo, dunque, nessuna reale comprensione; diciamola tutta: nessun reciproco rispetto, con buona pace dei buonisti di tutte le sponde. Soltanto, da parte degli atei, una profonda umana pietà per chi non è riuscito a venire a patti con l’idea della morte e la teme in modo irrazionale, superstizioso, doloroso.

Una delle «conseguenze personali» dell’ateismo indagate nella seconda parte del libro, infatti, è la serena – anzi, «indifferente» – accettazione della morte. L’indifferenza – un’indifferenza «da fachiro» – ai fini e agli interessi che muovono e assillano la gran parte dell’umanità è del resto l’atteggiamento spontaneo dell’ateo: un atteggiamento che lo disarma rispetto ai suoi simili.

Le Dantec indaga la questione della religione in chiave evoluzionista. «L’uomo è un animale sociale; quel che si chiama virtù in un animale sociale sono i caratteri che lo rendono atto a vivere in società. Le idee di bene, di male, di giustizia, di dovere, di responsabilità, ecc. sono idee sociali». Le religioni hanno svolto la funzione di imporre la “virtù” come comportamento socializzante. Ma i principi morali si sono a un certo punto svincolati dalle idee religiose, diventando caratteri acquisiti autonomamente trasmissibili. Provo a suggerire una riformulazione “aggiornata” del ragionamento di Le Dantec attraverso un’analogia. In homo sapiens, come sappiamo, l’andatura eretta ha avuto un significato adattativo primario legato principalmente al cambiamento climatico che ha sostituito la savana alla foresta – minore esposizione corporea al calore, più efficiente uso della vista per individuare prede e predatori, ecc. Questo adattamento primario ha molti effetti secondari, tra i quali il rilevante “sottoprodotto”, inizialmente privo di funzionalità adattative dirette, della liberazione della mano dalla funzione di deambulazione, rendendola disponibile a una exaptation – come dicono gli evoluzionisti contemporanei – foriera di inedite possibilità. Analogamente, le religioni hanno inizialmente favorito la coesione di gruppi umani prescrivendo – comminando premi e castighi – comportamenti socializzanti. Questi ultimi sono diventati poi largamente autonomi, principi morali indipendenti dalle originarie credenze, in quanto tali capaci di dare vita – con una sorta di exaptation – a un’etica inedita, quella che persegue il bene per il bene o, kantianamente, segue imperativi categorici e non ipotetici.

La terza e ultima parte del testo è dedicata allo scontro tra il dualismo – vecchio quanto il mondo «per ragioni che dipendono dalla pigrizia intellettuale» – e il monismo che, nella sua versione scientifica, è recente e non va confuso con il «materialismo degli antichi». La difesa del monismo è svolta accuratamente, considerando numerose obiezioni provenienti dalla parte avversa ma anche – in un paragrafo molto interessante – le difficoltà di un linguaggio ancora imbrigliato in espressioni finalistiche, metafisiche, “sentimentali” (vedremo meglio che cosa Le Dantec designa con questo termine). Il linguaggio scientifico acquista progressivamente precisione, ma il linguaggio corrente rimane schiavo delle ambiguità, preso in trappola da influenze ancestrali dualistiche. Il dualismo rappresenta in certo senso un atavismo, il retaggio di un pensiero antecedente e primitivo che viene trasmesso «con il linguaggio che apprendiamo da bambini, e che contiene, fin nella sua stessa sintassi, il deposito intangibile degli errori ancestrali».

Il dualismo è in ultima analisi, per Le Dantec, una contraddizione o meglio un conflitto tra logica pura e logica di sentimento, ma il Le Dantec che combatte la “logica di sentimento” e che espone e difende le ragioni del monismo, è tutt’altro che algido. Abbandona la sua «indifferenza da fachiro» per rivelarsi simpatetico, simpatico, acuto, brillante, appassionato, ironico e autoironico. E tuttavia sempre e comunque inesorabilmente disincantato. Ha senso questa discussione filosofica? È utile? No, non illudiamoci: «la sua inutilità è evidente», ma «è molto piacevole; bisogna pur far funzionare il nostro meccanismo, e c’è della metafisica nel nostro meccanismo, come vi sono le zampe per un cavallo; noi ci divertiamo con essa, come un giovane puledro si diverte con le sue zampe scorrazzando in un campo». Dietro al Le Dantec disincantato e pessimista della seconda parte del libro scopiamo dunque un Le Dantec allegro come un puledro, polemico solo perché «sarebbe noioso fare filosofia senza contraddittorio, non si può giocare da soli agli scacchi!».

Maria Turchetto

febbraio 2015