Un nuovo libro di Paolo Flores d’Arcais è sempre un evento. Un rito per quanti, come chi scrive, hanno imparato ad apprezzare la sua sana ossessione per la laicità e il disincanto, supremo principio filosofico della modernità. Ancora una volta, questo testo non cede a compromessi di sorta; la parola chiave per intenderne il senso è una sola: radicalità, termine che si snoda su una trama letteraria lucida e purpurea con toni che richiamano esplicitamente il Lee Harris de Il suicidio della ragione.
Radicalità dunque, dove tesi e antitesi si affrontano nell’agone della dialettica prima e della convivenza poi, ma anche dove è sempre più difficile distinguere tra moderati e fondamentalisti, tra cultura della tolleranza e mero sonnambulismo collaborazionista, figlio dell’omertà e di anacronistici mondialismi.
Perché, nella visione floresdarcasiana, il sonno della ragione non produce solo fanatismo ma ne decreta la boria e la sua imperiosa ed intollerabile prosperità. L’assalto a Charlie Hebdo di quel tragico 7 gennaio 2015 segna lo spartiacque e il punto di non ritorno: la guerra dichiarata contro cinque secoli di civiltà occidentale, contro la cultura della libertà, contro il diritto all’irrisione e all’eresia, conquiste irrinunciabili che il cristianesimo ha tentato di arginare e l’islam oggi tenta di distruggere. Gli attori di questa guerra non sono allora Nord o (versus) Sud, ma Sacro contro Laicità, nelle forma della democrazia libertaria, che esige anch’essa radicalità e la stessa determinazione dei terroristi che ormai uccidono non solo chi, presumono, offende Allah o Maometto, come Wolinski e i suoi compagni, ma anche (solo cinque mesi dopo a Copenaghen) quanti solo parlano di quello che è successo.
C’è una sottile ipocrisia, forse condita da pusillanime conformistica paura, che porta a minimizzare e ridimensionare la portata di questi eventi. C’è una alleanza trasversale de facto tra le grandi religioni del Libro, che con toni più o meno articolati pretendono leggi che puniscano la blasfemia e ogni critica ai loro articoli di fede. Eppure, si chiede d’Arcais, perché mai sia pacifico che un ateo o un agnostico non si senta offeso nella sua razionalità per i riti che si praticano nelle chiese, nelle sinagoghe o nelle moschee e non chieda che vengano rase al suolo, mentre i rappresentanti del Sacro debbano trovare normale impedire la libera espressione del dissenso o solo pensare ai miscredenti come a delle persone “sbagliate” da combattere e contenere?
Non solo ISIS o Al Qaeda e i loro tristi emuli organizzati o solitari (comunque lupi) rappresentano una minaccia per le nostre acquisizioni di civiltà e la nostra laicità. Altrettanto pericolosa è l’esistenza di quelle “repubbliche parallele” che si insinuano nei nostri ordinamenti, figlie della dissennata accondiscendenza multiculturale che produce obbrobri come i tribunali islamici in Inghilterra e in Germania, che applicano sharìe che sono sottratte alla normale giurisdizione e che producono lo stesso familismo amorale che conosciamo con la Mafia in molte enclave delle città dell’Italia meridionale. La piaga dei matrimoni forzati in Germania, altro esempio plastico, che coinvolge almeno il 70% di donne immigrate turche, spesso minorenni poco più che bambine, isolate dalla società e tenute in casa come schiave, che in migliaia hanno trovato riparo nei centri rifugio ma più frequentemente subiscono abusi e in caso di ribellione vanno incontro alla morte. Nel libro viene riportato, tra i tanti, il caso di una ragazza di nome Gṻlbahar la quale, sul punto di essere data in sposa a un cugino, confessa alla madre che il padre aveva abusato di lei. Reazione della madre: il matrimonio ormai è deciso e lei deve sposarsi da vergine altrimenti il suo futuro marito (o lo stesso padre) la ucciderebbero. Per timore di “perdere la faccia” alla fine i genitori decidono di condannarla a morte. Il padre incarica uno dei fratelli di Gṻlbahar di ammazzarla, ma le viene concessa una settimana di tempo per suicidarsi. Gṻlbahar riesce a fuggire e ancora oggi soffre di anoressia e deve nascondersi, mentre il padre circola da uomo libero. La Germania (e l’Occidente) che si occupa dei diritti delle donne in Afghanistan piuttosto che in Pakistan, finge di non vedere quello che succede dentro ai suoi confini o relega i molti omicidi “d’onore” o la violenza domestica a danno delle donne come questioni etnico- religiose. Le pene sono simboliche e non rappresentano un deterrente. In nome del multiculturalismo.
La seconda parte del libro, scostandosi dalla cogente attualità, individua un percorso obbligato per rifondare la democrazia, humus imprescindibile dell’Occidente, “luogo del disincanto tradito che non ha visto trionfare l’autos-nomos”, offrendo utili e acute riflessioni di vera filosofia politica. Anche qui, la parola d’ordine è radicalità o, detta in altro modo, la consapevolezza che nessuna conquista può essere duratura finché non si bandisce Dio e le religioni dal consesso pubblico. Chi pensa ancora che il terrorismo (di qualsiasi matrice) nulla c’entri con la religione, ribadisce Flores, ha rimosso ciò che la religione è e quanto pesi il suo basto sui destini dei popoli. La guerra (ci) è stata dichiarata: e, come la storia insegna, ammette un solo vincitore.
Stefano Marullo
marzo 2016