Intervento integrale di Adele Orioli, responsabile iniziative legali Uaar, al seminario «Libertà di coscienza e di religione. Ragioni e proposte per un intervento legislativo» organizzato dalla fondazione Astrid.
Innanzitutto un doveroso ringraziamento alla fondazione Astrid, al professor Zaccaria, ai professori Ferrari e Mazzola, alla professoressa Floris e alla professoressa Domianello. Ma un ringraziamento va in generale a tutti coloro con i quali per mio modesto tramite l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti ha potuto partecipare in questi due anni al percorso che ha portato alla presentazione odierna di questo progetto per una proposta di legge.
Ringraziamento doppiamente dovuto e sentito poiché, in Italia quantomeno, non è purtroppo frequente o scontato che nel considerare il fenomeno della libertà religiosa, giuridicamente antropologicamente o sociologicamente inteso che sia, si ponga la dovuta attenzione a uno dei possibili atteggiarsi della coscienza, a una delle possibili facce della libertà di religione. La libertà dalla religione, la libertà di non averne alcuna, la libertà di non credere.
Nonché la libertà di organizzarsi e aggregarsi nell’esercizio collettivo di questa libertà.
In Italia è raro e prezioso questo coinvolgimento. Altrove non solo nella realtà fattuale ma anche in quella giuridico-prescrittiva, il dialogo con i non credenti e con le associazioni esponenziali della loro visione del mondo si può al contrario definire la norma. Per utilizzare un’abusata espressione, è (anche) l’Europa che ce lo chiede. Non solo l’art. 17 del Trattato di Lisbona al quale corre immediato il pensiero, ma numerose sentenze della Corte Edu su libertà di religione e divieto di non discriminazione o la stessa Carta di Nizza che ha opportunamente abbandonato la dizione di credenze per sostituirla con quella di convinzioni. Così allo stesso modo auspichiamo succeda nell’art. 3 e ss del presente progetto, nei dettagli del quale entrerò però brevemente in seguito.
Ed è anche, ma non solo, per questo necessità di omogeneità sovranazionale, che sempre più si fa sentire la necessità di superare l’attuale frammentato sistema, fermo alla legislazione dei culti ammessi, da un lato, e in continua evoluzione anche giuridico-culturale dall’altro. Sempre tenendo come filo conduttore le insopprimibili libertà e gli altrettanto insopprimibili valori costituzionali e sovra costituzionali. Prima fra tutti la considerazione di come la nostra Carta muova dalle premesse, di cui all’art. 3 2°, di come non sia possibile una libertà uguale in condizioni materiali della libertà che siano, al contrario, diverse. E in tal senso dovrebbe sentirsi rassicurato il professor Amato, così perplesso dalla previsione in questo progetto della possibilità di luoghi per celebrazioni specifici delle associazioni filosofiche e non confessionali.
Così come nel legiferare andrebbero tenuti a criterio guida due fondamentali corollari di quella stessa definizione di laicità alla quale si rifà questo progetto, in particolare all’art. 2 secondo comma. La laicità come salvaguardia della libertà di coscienza e di religione in regime di pluralismo religioso e confessionali. Due corollari, dicevo, necessari e necessitati.
Da un lato, quello della equidistanza e imparzialità verso tutte le confessioni. Dall’altro, quello di distinzione dell’ordine civile dall’ordine religioso, con il conseguente divieto per il potere pubblico di strumentalizzare il fenomeno religioso a fini secolari.
Perché, non nascondiamolo, il rischio molto meno paradossale di quanto sembri, quando si tenta, seppur coraggiosamente e con le migliori intenzioni, di disciplinare e regolamentare la libertà religiosa è di configurare un sistema per contro illiberale. E qui mi rifaccio alla diade evocata a più riprese dal Ministro Minniti: libertà e sicurezza.
Un sistema illiberale, si diceva. Un sistema in base al quale diritti costituzionalmente garantiti all’individuo in quanto tale, senza bisogno di intermediazioni di sorta, vengano al contrario subordinati a riconoscimenti, iscrizioni, certificazioni da parte dell’autorità statale. Un sistema che, nel normare la dimensione collettiva della libertà religiosa, finisce inevitabilmente per incidere, quando non direttamente per delimitare altrettanto pesantemente, anche la dimensione soggettiva e individuale di quella libertà.
Non vorremmo, in tal senso e per entrare nello specifico del progetto, che ad esempio l’istituzione del registro delle confessioni presso il Ministero dell’Interno, piuttosto che presso la Presidenza del Consiglio, esprimesse volontà di controllo piuttosto che efficienza amministrativa. Non vorremmo insomma che dai culti ammessi si passasse a quelli “simpatici” come parrebbero venir delineati dalla recente sentenza della Consulta n. 52/2016 e sulla quale è pendente ricorso in Corte EDU. E che da quelli simpatici si arrivasse, di fatto, ai culti guardati a vista.
Così come potrebbe rivelarsi pericoloso in tema di parità di trattamento che tale stessa registrazione di cui sopra diventi condizione necessaria e imprescindibile per godere della eguale libertà. Pensiamo allo studio del fatto religioso con l’ausilio di rappresentanti della confessione religiosa (art. 7, comma 3); all’assistenza spirituale nelle strutture segreganti (art. 9, comma 2); alla assegnazione di luoghi o edifici per servizi rituali, di preghiera o cerimoniali (art. 12, comma 1) Pensiamo anche l’elenco di cui all’art. 17, che sembra riservare diverse ulteriori capacità (anche negoziali) alle sole associazioni iscritte.
Vero che qui non sembra esserci discrezionalità nel provvedimento di iscrizione, ma una confessione o una associazione religiosa potrebbe non avere interesse (per i motivi più vari) ad iscriversi. La stessa Professoressa Floris, nell’elencare la sostanziale sovrapposizione dei diritti e facoltà delle associazioni filosofiche non confessionali della proposta di legge con quelli che già sono ottenibili ex 383/2000, lascia intuire la facile possibilità di coesistenza di molteplici binari regolamentativi.
Sarebbe opportuno al contrario riconsiderare quanto sia e/o possa essere penalizzante per un soggetto confessionale questa scelta, che è al contrario coperta dalla libertà di auto-organizzazione della confessione stessa (art. 8, secondo comma, Cost.).
Così come poco opportuno continua a sembrarci, e la cosa ci riguarda ovviamente da molto vicino, la separazione che il progetto opera fra la sfera del religioso e quella filosofico non confessionale, relegando in tale senso associazioni esponenziali di una cosmogonia completa e complessa in una disciplina confluente in quella di enti minori con finalità parziali, come le confraternite o gli ordini monastici. Né può convincere, alla luce ad esempio della recente Intesa stipulata dal nostro governo con l’Istituto di filosofia buddista Soka Gakkai, una differenziazione basata sulla struttura ecclesiastico gerarchica della confessione di tradizionale memoria.
Quando si parla di diritti fondamentali, i numeri hanno poca importanza. Ne basta uno. Basta una persona. Anzi, basta il principio. Ma, proprio a volere fare la conta, il professor Naso ha parlato prima di un 10% della popolazione appartenente alle confessioni di minoranza. Uno su dieci. I non credenti in Italia sono all’incirca dieci milioni, uno su sei. Più di tutti gli appartenenti a tutte le confessioni di minoranza. E, si dice, in tendenziale aumento. Differenziare ab origine la tutela giuridica tra religioso e filosofico non confessionale, oltre alla persistente incerta delimitazione ontologica, si potrebbe persino porre in contrasto non solo con la prevedibile evoluzione socio-normativa e non solo nazionale, ma persino con l’art. 19 Cost., che ha volutamente disciplinato il fenomeno in maniera unitaria.
E questo, sia detto, a prescindere dallo strumento, prettamente pattizio, o al contrario etero diretto o ancora di mera presa d’atto che si decide di utilizzare in fase normativa.
Alcuno spazio, e questo davvero dispiace, alcuna specificità sono concessi alla materia matrimoniale. Si rimanda, senza alcuna innovazione, alla già operante e non censurabile discrezionalità della delega di funzioni nel matrimonio civile, la cosiddetta procedura del miglior amico. Mi permetto una nota strettamente personale. Io stessa sono, ormai da molti anni, una celebrante umanista. E davvero mi dolgo di come queste cerimonie, in altri paesi così diffuse, siano qui ancora poco note. Non ci sarebbe forse il bisogno di evidenziarne la valenza specifica, strettamente connessa all’espressione di libertà religiosa. La precisa volontà di a-religiosità, che è cosa ben diversa dal passivo utilizzo di preesistenti procedure burocratiche. Procedure burocratiche di stato laico e quindi come tali giocoforza neutre e non orientate né orientabili ad alcuna preferenza fra le opzioni di coscienza. A meno che non si voglia sostenere lo Stato sia ateo, e non laico nel senso qui ampiamente sottolineato, con questa non-regolamentazione tautologica si opera la negazione della specifica identità atea e agnostica. Si è molto parlato oggi di mimetismo: ecco, a conti fatti un mimetismo forzoso di una opzione precisa della coscienza.
Così come alcun diritto o facoltà in più rispetto a quelli già esistenti per tutti i privati cittadini si vengono ad aggiungere per i riti funebri e le cerimonie di commiato. E qui, urge sottolinearlo, si va sempre più evidenziando il profilo strettamente censuario del godimento dei diritti di libertà religiosa. Facile per un Carlo Aymonino, un Dario Fo o un Umberto Eco ottenere spazi consoni alle loro volontà per celebrarne la scomparsa. Impossibile per la maggior parte di quei dieci milioni di cittadini dei quali si diceva poc’anzi.
Comunque dispiace anche perché questa che a noi pare occasione mancata sembrerebbe sottendere una concezione negativa, a sottrazione, delle filosofie atee e agnostiche, fin quasi a negare loro la specifica positività propria di una fattispecie al pari di altre dell’esercizio della libertà religiosa.
Ma da qui il discorso, me ne rendo conto, finirebbe con l’esulare dall’oggetto, dalle finalità e dallo scopo, certo più ristretto ma non per questo meno dirimente, che si prefigge il seminario odierno.
Pertanto, e concludo, sono qui ancora una volta a ringraziare per questo coraggioso e brillante punto di partenza, perché punto di partenza mi auguro sia il progetto del quale stiamo discutendo e del quale mi sono appena concessa di sottolineare quelle che, a nostro avviso, sono tra le possibili criticità. Punto di partenza al quale forse manca qualcosa. Non ricorre mai, nemmeno una volta, il termine eguaglianza. Il nostro auspicio è che il cammino, e la discussione, riprendano da qui. Grazie.
Adele Orioli
aprile 2017