Da quando la Conferenza Episcopale Italiana ha avviato il suo Progetto culturale, i mass media della Penisola assecondano senza particolari problemi di coscienza (ammesso e non concesso che ne abbiano una) il tentativo delle gerarchie ecclesiastiche di riscrivere la storia della Chiesa cattolica affinché appaia più accettabile dall’opinione pubblica contemporanea. Obbiettivo non facile da conseguire, avendo un passato gonfio di vicende che stridono palesemente con lo zeitgeist dell’età dei diritti. L’obbiettivo diventa ancora più arduo se dalla storia ci si sposta alla dottrina: si può anche addebitare la responsabilità di tante efferatezze del passato agli esecutori materiali, ma non è così semplice riuscirci quando le autorevoli affermazioni del passato di papi, santi e dottori della Chiesa sono reputate Magistero, «deposito della Tradizione». Un lascito considerato di pari valore delle Sacre Scritture.
Non stupisce, dunque, che tali sforzi ottengano scarsa considerazione fuori dagli italici confini. Diversamente accade dalle nostre parti, e su non poche questioni aperte: una per tutte, la retorica collegata alla «sana laicità». Discorso analogo per la pena di morte: televisione e stampa hanno enfatizzato oltre ogni limite di dignità l’influenza vaticana sull’approvazione, da parte dell’assemblea generale dell’ONU, di una moratoria della pena di morte (nonché l’importanza della moratoria stessa). Ma è tutto oro quello che luccica?
È quanto si è domandato Francesco D’Alpa, che in questo libro ha scandagliato due millenni di magistero cattolico sulla pena di morte, non rinunciando a compiere escursioni sulla sua trattazione in ambito manualistico ed educativo. La risposta è che di oro ce n’è poco. Il nascente cristianesimo cominciò la propria elaborazione dottrinale facendo proprio il testo sacro ebraico, intriso di violenze commesse in nome di (e talvolta da) un dio arcaico e vendicatore: e a poco vale ricordare il comandamento di «Non uccidere», applicabile – in base alle stesse disposizioni divine – solo a un numero limitato di casi. Meglio, ma di poco, va con il Nuovo Testamento, dove le condanne violente sono posposte sul piano escatologico e dove manca un’esplicita condanna del supplizio capitale.
Patristica e Scolastica non si discostano mai da questa impostazione iniziale: il passaggio dei secoli si caratterizza solo per la monotona riaffermazione della liceità della pena di morte, giustificata da Tommaso con l’asserzione che «non è la società che priva il reo del diritto alla propria vita: la società si limita a prendere atto che lo stesso reo se ne è privato». Concetto a dir poco contorto che, ciononostante, è stato fatto proprio dai pontefici romani fino a pochi decenni fa.
La Chiesa non ha dunque mai criticato le esecuzioni capitali, praticandole peraltro frequentemente all’interno del proprio Stato: si è sempre limitata ad offrire il conforto spirituale al condannato, onde facilitargli il transito nell’aldilà. Certo, negli ultimi anni abbiamo potuto assistere alla svolta «modernista» di Giovanni Paolo II, e la sala stampa del Vaticano ha cominciato, con ritmo crescente, a promuovere documenti ufficiali di condanna delle sentenze capitali. Ma encicliche, discorsi e omelie, una volta esaminati criticamente, evidenziano più che abbondantemente quanto la condanna della pena di morte sia ancora ben lungi dall’essere assoluta: come opportunamente ricorda l’autore, «la dottrina non si evolve, si chiarisce». Non diversamente gli atti pratici: lo Stato della Città del Vaticano ha espunto la previsione della condanna capitale dalla propria “costituzione” soltanto nel 2001.
È dunque evidente che qualsivoglia posizione teologica non potrà mai essere «nuova», perché dovrà necessariamente far proprio anche il Magistero dei millenni precedenti, pena il crollo dell’intera costruzione dogmatica della Chiesa e della pretesa di essere depositaria dell’unica Verità. Proprio da questa esigenza è nata la brillante intuizione ruiniana: se si è costretti a continuare a far proprio un passato non immacolato, l’unica chance di riuscita sta nel presentarlo diversamente.
Ma c’è anche un altro aspetto su cui D’Alpa si sofferma ripetutamente, e a ragion veduta: il supporto vaticano al movimento abolizionista appare sempre strumentalmente funzionale a un’altra battaglia, quella condotta contro le legislazioni che non sanzionano le interruzioni di gravidanza, e ultimamente anche l’eutanasia: l’enfasi posta sul «diritto alla vita» è legata in particolar modo a tali tematiche, queste sì esplicitamente considerate «valori non negoziabili».
L’opera di D’Alpa conferma una volta di più come lo studio della religione debba necessariamente basarsi sullo scavo scientifico e approfondito sulle fonti, piuttosto che sulla distratta rimasticatura della pubblicistica anticlericale ottocentesca. Solo così, infatti, diventa possibile portare a galla le plateali contraddizioni in cui cade chi pur ama dichiararsi infallibile. E soltanto documentando analiticamente le proprie argomentazioni si può avanzare la tesi che «il Cristianesimo non possiede risorse autonome sulle quali costruire un mondo più umano; solo l’innesto nel suo impianto teorico degli ideali illuministici ha potuto allontanarlo dalle sue arcaiche radici».
Raffaele Carcano,
Circolo UAAR di Roma,
luglio 2008
Appendice
Per gentile concessione dell’Autore, pubblichiamo sul nostro sito, liberamente scaricabile, il capitolo «Benedetto XVI e la pena di morte».