«Le parole sono pietre o uccidono soltanto coloro che si arricchiscono con la loro falsità» (R.V.)
È scritto nella Costituzione americana: «la libertà di stampa è uno dei baluardi più possenti della libertà e può essere limitata soltanto da governi dispotici».
Così inizia il primo capitolo del libro di Raoul Vaneigem, anarchico, figura di rilievo del Maggio francese e membro dell’Internazionale situazionista tra il 1961 e il 1970.
Ma di quale libertà d’espressione si parla?
Di quell’informazione propagandistica, di quella che spettacolarizza, frantuma e banalizza gli eventi, di quella che manipola e assoggetta le coscienze in virtù delle leggi del mercato e dei vari poteri, oppure di quella libertà che si conquista, che permette la circolazione delle idee, la libertà di pensiero e di parola in virtù del raggiungimento d’una piena consapevolezza che ci libera proprio da tutte le forme di tirannia?
Premesso ciò, Vaneigem, denunciando l’ipocrisia e la corruzione dei benpensanti, s’incammina verso un’affabulazione tagliente e profonda e, a volte, sconcertante, secondo cui «la libertà di espressione di oggi ha l’obbligo di creare le condizioni che ne autorizzino un uso illimitato» e lo scopo di smascherare quei segreti che la censura custodisce, in quanto è più semplice nascondere il male che rimuoverne le cause. Solo i segreti personali devono restare inviolabili, a meno che non nascondano atti contrari all’umanità. Inoltre, per l’autore, «nessuna verità merita che ci prostri di fronte a essa» e «ogni preconcetto dato per eterno e incorruttibile esala l’odore fetido di Dio e della tirannia», per cui ogni essere umano ha il diritto di operare verifiche e critiche continue, anche arrivando a conclusioni folli ed eccentriche, purché si ravvivino «tutti i fuochi del possibile».
Per Vaneigem la libertà d’espressione assume anche valenza catartica, specie se trattasi di pensieri ottusi e deplorevoli quali slogan razzisti e xenofobi e ogni ideologia settaria e dogmatica. Ribadisce Vaneigem, però, che «l’assoluta tolleranza di tutte le opinioni deve avere come fondamento l’intolleranza assoluta di tutte le barbarie». Non devono essere le idee, anche quelle più assurde, a essere sanzionate, ma le vie di fatto e quindi è contro il reato di opinione.
Il titolo dell’opera è ampiamente esplicativo del suo contenuto; difatti, sostenendo che niente è sacro, chiunque può esprimersi e nessun discorso, nessun credo può scampare alla critica, alla satira, all’irrisione. Altresì è vero che «chiunque si erga a messia, profeta, papa, imam, pope, rabbino, pastore o guru ha il diritto di urlare: bestemmia! anatema! apostasia! nel momento in cui si deride il suo dogma, il suo credo, la sua fede, ma non si azzardi a intraprendere un’azione giudiziaria contro le opinioni da lui aborrite o a cercare d’interromperne la diffusione minacciando il loro autore con metodi da Inquisizione, da sharia o da mafia, che il senso umano disconosce una volta per sempre».
L’autore si esprime in modo molto deciso contro la circonvenzione che opprime l’infanzia a opera delle varie persuasioni dissimulate o manifeste, dalla pubblicità alle dottrine religiose. «Assoggettare un bambino a un dogma» - scrive - «senza prima informarlo dell’esistenza delle mitologie ebraica, cristiana, islamica, buddista, induista, celtica, greca o azteca significa circuirlo».
Concludendo, trattasi di un’opera che richiama alla continua responsabilizzazione collettiva in modo passionale e, al contempo, razionale. Un libro che aiuta l’esercizio del pensiero critico, utile a opporsi al «potere occulto della predazione», quello che vìola e mortifica gli unici segreti da custodire, quelli del cuore e dell’amore.
Rosalba Sgroia
Aprile 2007