Il pensiero umano nel corso dei secoli ha declinato in vario modo l’assenza di dio. Per Epicuro e per Sesto Empirico i mali del mondo sono la prova dell’incuria divina mentre per Mainländer il mondo è la “cadaverizzazione” di dio; se per Nietzsche la “morte di dio” segna il punto di partenza di ogni cataclisma morale e culturale, in Caraco la condizione di “orfani”, cioè senza un Padre in cielo, permette di “vivere e morire da uomini liberi”. Sennonché il problema non è più dio, ma appunto, vivere senza dio. Su questa base si innestano le riflessioni, nitide e crude, di Paolo Caruso in questo libro caratterizzato da una scrittura elegante che tra le righe lasciano intravedere il peso di molti libri letti, portato probabile di una trascorsa attività professionale che lo ha visto curatore di opere e a contatto con molti autori. La trattazione di temi ostici e capitali come il crepuscolo di dio e la sorte dell’uomo gettato nel mondo non è mai appesantita da excursus di tipo filologico-filosofico: Vivere senza dio è un compendio ragionato di un dibattito millenario attorno alla questione del dio assente proposto senza ostentazione o saccenteria di sorta. Il tono è pacato e discorsivo e, semmai, fa trasparire un esprit che indulge alla malinconia se non al pessimismo. Cogliere che dio non esiste rimane, infatti, una cattiva notizia. Non casualmente Caruso esordisce citando l’UAAR, definita “curiosa associazione laica” (perché “curiosa”?), e conclude il suo libro lodandone l’impegno, riferendosi segnatamente al famoso slogan che secondo l’autore sintetizza felicemente la tesi di questo libro. D’altronde, lo si è ripetuto tante volte, finanche Sartre (molto citato in questo libro assieme a Nietzsche, Loewith, Kant, Kafka, Wittgenstein fino ai più recenti Odifreddi, Dennett, Hawking) constatava come sarebbe molto comodo per tutti se dio esistesse, salvo poi dire che il problema non è quello della sua esistenza, perché diversamente dall’heideggeriano “solo un dio ci può salvare”, il filosofo francese era convinto che niente e nessuno può salvare l’uomo da se stesso.
L’approccio neutralistico riguardo a dio, attento alla sensibilità dei credenti (o non-atei?) per espressa menzione dell’autore, è una presa di distanza da atteggiamenti da pasdaran ateo alla Dawkins (al quale peraltro Caruso rinnova stima e del quale elogia studi e competenza scientifica). Viene fuori un inedito manifesto dell’agnosticismo ateo (ateismo pratico naturalmente) che non è affatto, secondo Caruso, ignavia ; non è per niente vero che gli agnostici sono “ambigui, mediocri, rammolliti” come li vuole lo storico cattolico Hugh Ross Williamson (citato proprio da Dawkins e che sul punto conviene). Caruso erge Kant a “patrono” degli agnostici e ritiene l’agnosticismo “un chiaro contrassegno di onestà intellettuale”. Evocando Wittgenstein, la proposizione “dio esiste” o quella “dio non esiste” non sono né vere né false ma solo “prive di significato”. L’errore degli atei dogmatici è per Caruso quello di dichiarare guerra a dio ma non ha molto senso muovere guerra a chi non esiste.
L’agnosticismo amorale dell’autore conduce poi alla negazione di quel libero arbitrio a cui le religioni fanno riferimento per concepire l’esistenza di peccati e peccatori. Qui Caruso si fa deliberatamente dissacrante giudicando la presunta “libertà” dell’uomo paragonabile a quella del puledro di galoppare nella prateria. In realtà esistono solo norme e convenzioni sociali come in qualsiasi altra aggregazione animale. E’ indubbio, secondo Caruso, che le religioni abbiano assolto a quel bisogno primario dell’uomo di tentare di sfuggire alla sua “vulnerabile singolarità”, alla sua paura della solitudine e alla necessità di esorcizzare la morte.
Vivere senza dio è la consapevolezza, ardua quanto si vuole, di accettare il proprio destino. Bisogna farsene una ragione. In fondo, scrive Caruso con irridente stoccata, “oggigiorno si può benissimo autodefinirsi ‘teologi senza dio’”.
Stefano Marullo
Ottobre 2011