Questo libro è molte cose. Un crocevia di storie di vita vissuta, un libro manifesto che squarcia il tabù, un’inchiesta, una denuncia, una testimonianza. Sarebbe finanche riduttivo considerarlo solo un ottimo libro. È impegno civile. E se l’impegno civile viene affidato anche a un libro, abbiamo la cifra del grado di inciviltà di un Paese. Vorrei poter dire che è un libro necessario. A squarciare il velo di ipocrisia attorno a una questione spinosa come l’aborto, un termine che ancora oggi fa paura e viene pronunciato sottovoce. C’è persino un po’ di disagio in chi lo sta recensendo perché è davvero difficile capire fino in fondo il dolore delle donne senza essere donna. Provate a pensare cosa sarebbe «Il Secondo Sesso» se non fosse stato scritto da Simone de Beauvoir ma da un collega maschio. Se la voce narrante di “Sole bruciato” di Elvira Dones non fosse stata Leila, la schiava-prostituta, ma uno dei suoi aguzzini. In fondo il femminicidio, questa piaga planetaria, non è altro che la punta estrema di una (sotto)cultura del disprezzo di genere che ha come mandanti morali anche quanti in nome del pro-life (parola orribilmente ambigua, come se ci fossero dall’altra parte i pro-death) considerano il corpo femminile poco più che un contenitore, di liquido seminale prima, di embrione poi.
La crudità con cui le protagoniste di questo libro, A., Bianca, Francesca e altre, narrano la loro vicenda non è mai retorica o sopra le righe ma rimane vibrante e profondamente sobria, vera, dunque essenziale. Nel mare magnum della narrazione ideologica che vede nell’interruzione volontaria di gravidanza una colpa inespiabile della donna sempre e comunque mostro, madre snaturata, sciagurata, queste donne rivendicano con orgoglio la libertà di non avere rimorsi, di avere abortito e di sentirsi “bene” per questo, di non volere essere madri di un figlio “solo perché è capitato”. In un Paese, come l’Italia, dove formalmente esiste una legge 194/78 ma dove è sempre più difficile abortire per via degli obiettori di coscienza che raggiungono punte del 70% nelle strutture pubbliche. Viene un brivido alla schiena a pensare che in questo Paese qualcuno abbia nostalgia della mammane e degli aborti di “classe”. Chiara Lalli ricorda la vicenda di due sedicenni, ante 194, Angelica e Carla, compagne di scuola, rimaste incinte. Carla però è di famiglia benestante e racconta tutto ai genitori che la portano a Londra ad abortire. Angelica viene da una famiglia modesta e non vuole dirlo a sua madre. Contatta un medico ma questi le chiede un milione (all’epoca si rischiava la galera) ma lei non ce l’ha, va da una mammana ma quando vede una ragazza sul tavolo della cucina che urla e il cucchiaio scappa e decide di abortire a casa, da sola. Angelica morirà poche ore dopo per emorragia. Forse si sarebbe salvata se avesse trovato un medico come Willie J. Parker, ostetrico cristiano che lavora a Washington, cresciuto in ambiente protestante a cui hanno sempre insegnato che l’aborto è sbagliato, ma che in coscienza ha deciso di preoccuparsi di quelle donne che senza il suo aiuto chissà a cosa sarebbero andate incontro; una vera mosca bianca nell’America estremista dei no-choice.
A., Bianca, Francesca e le altre, parlano senza remore della loro odissea fatta di lunghe attese in luoghi squallidi come diventano anche gli ospedali ambienti senza tenerezza dove kafkianamente tutto sembra preordinato a renderti colpevole e il lento scolorire di ogni umanità è la misura del crimine che ti fanno sentire addosso, quando ti lasciano seminuda in un corridoio per l’ennesima visita, o ti rivolgono ossessivamente domande senza senso, dove gli sguardi delle infermiere possono fare più male della compagna di corsia che dice “ma non ti hanno ancora insegnato come si fa ad evitare la gravidanza?”, dove il medico con aria vagamente mafiosa può dirti “ho un amico che lo fa in un posto tranquillo per 1000 euro”, altrimenti c’è da aspettare, anche a lungo perché lì, c’è un solo medico che fa quella cosa, viene da fuori, magari solo una volta a settimana. Donne alle quali hanno raccontato fandonie come quella che l’aborto provoca il cancro (si diceva anche della pillola) o la sterilità e patologie di ogni genere. Senza contare i traumi psicologici della sindrome post abortiva (PSA), una leggenda metropolitana propalata come verità scientifica. O donne che avranno sentito parlare del cimitero dei feti, questa orrida farsa che, per esempio, nel regolamento della Regione Lombardia voluto dall’ex presidente Formigoni, impone la sepolturadel feto, spesso poco più di un grumo di sangue, per salvaguardarne la dignità (in fondo diversi secoli addietro un famoso dottore della Chiesa riteneva che disperdere una sola goccia di sperma era un crimine contro Dio). Donne che, soprattutto, concordano con Aleksandar Hemon, che in una frase ricordata in incipit recita: “Una delle più spregevoli falsità religiose è che la sofferenza nobiliti”. Donne che in ultima analisi hanno voluto dare pregnanza a parole come scelta, autodeterminazione e responsabilità personale, vere e proprie eresie dentro ad un ordine finalistico spesso delegato per indolenza od impotenza, che rende materie prime di un destino eterodiretto che sembra avere bisogno solo di comparse. Nella consapevolezza che ogni scelta non è mai perfetta ma declina la sensazione di essere libere.
Stefano Marullo
marzo 2013