di Maria Turchetto
La scienza non abita in una torre d’avorio: è inserita in una determinata società ed è parte di una più vasta cultura nella quale deve farsi spazio e prendere posizione, a volte entrando in conflitto con lo “spirito del tempo”, altre volte subendone l’influenza più o meno consapevolmente. Perfino le ricerche sul moto dei corpi celesti possono avere un “impatto sociale” [1] altissimo, come dimostra la vicenda di Galileo – figuriamoci le teorie sull’origine dell’uomo!
Darwin se ne rendeva ben conto: in L’origine delle specie (1859) si limitò a un vago accenno sull’uomo, senz’altro per una cautela tattica, per evitare che la sua teoria venisse travolta da polemiche ideologiche. Sappiamo dai suoi Taccuini che aveva un interesse estremo per la questione uomo, ma probabilmente voleva vedere la sua teoria scientificamente accreditata prima di affrontarla. Lo farà soltanto dodici anni dopo, quando le polemiche erano comunque scoppiate, pubblicando L’origine dell’uomo (1871). La traduzione italiana non dà conto fino in fondo del titolo inglese, The Descent of Man. Descent, non Origin come nell’opera del 1859. Descent significa “discendenza”, ma anche “discesa” o “caduta”: discendenza «da qualche forma inferiore […], approssimativamente da un quadrumane peloso, con la coda e le orecchie aguzze, probabilmente di abitudini arboree e abitante del vecchio mondo» [2]; caduta clamorosa nel regno animale, con un posto ben preciso nella serie zoologica tra le scimmie del vecchio mondo – altro che esseri fatti a immagine di Dio e collocati a un passo dai cherubini! Davvero una «grande mortificazione al nostro ingenuo amor proprio», come commentò Freud [3].
Se Darwin era ben consapevole dell’enorme impatto culturale della sua teoria, gli era ben chiara anche una posta in gioco eminentemente politica dei coevi discorsi biologici sull’uomo: la questione delle razze. In tempi in cui era ancora intensa la discussione sull’abolizione della schiavitù, Alfred Russel Wallace, che Darwin considerava coautore della teoria della selezione naturale, si era già espresso contro il poligenetismo [4], ossia l’idea dell’origine plurima delle razze umane, che non apparterrebbero dunque alla medesima specie – idea che come ben si comprende faceva assai comodo ai fautori dello schiavismo. In L’origine dell’uomo Darwin porta argomenti ancora più drastici, mettendo in discussione il significato stesso dell’idea stessa di “razza”: «L’uomo è stato studiato più attentamente di qualsiasi altro animale, eppure c’è la più grande varietà di giudizi fra le persone competenti riguardo a se possa essere classificato come una singola razza oppure due (Virey), tre (Jacquinot), quattro (Kant), cinque (Blumenbach), sei (Buffon), sette (Hunter), otto (Agassiz), undici (Pickering), quindici (Boy de St. Vincent), sedici (Desmoulins), ventidue (Morton), sessanta (Crawford) o sessantatré secondo Burke» [5]. Del resto «ogni razza confluisce gradualmente nell’altra», rendendo improponibili le demarcazioni nette; inoltre «le razze umane non sono abbastanza distinte tra loro da abitare la stessa regione senza fondersi; e l’assenza di fusione offre la prova usuale della distinzione tra specie» [6]. Con questa critica alla categoria di razza Darwin si colloca molto oltre il proprio tempo – anzi, molto oltre la prima metà del secolo successivo, tragicamente dominata dal presunto “razzismo scientifico”. Solo l’imporsi nella teoria evoluzionista dell’approccio “popolazionista” [7] ha fatto giustizia della categoria di razza, almeno nel campo della biologia – in altri campi e nel senso comune, ahimè, imperversa ancora. Attribuire a Darwin la paternità del cosiddetto “darwinismo sociale” e le sue tragiche derive razziste, come fanno ormai soltanto i creazionisti nella balorda convinzione che presentare un Darwin razzista inficerebbe la teoria dell’evoluzione, è dunque un errore – o più precisamente un falso [8].
Ma Darwin, rivoluzionario sul versante della concezione dell’uomo e progressista in tema di razzismo, su un altro versante si mostra assai poco sensibile e figlio della propria epoca: nell’affermare l’inferiorità mentale della donna. Il sito dell’Institute for Creation Research (i creazionisti americani) [9] colleziona in tal senso alcune frasi tratte da L’origine dell’uomo – di nuovo nella balorda convinzione che presentare un Darwin maschilista inficerebbe la teoria dell’evoluzione. Da che pulpito viene la predica! Proprio loro che riducono le donne a una costola di Adamo! Ma detto questo, non sarò certo io a nascondere questa debolezza – questa subalternità allo “spirito del tempo” – del grande scienziato. Ecco qua, testuali parole: «La distinzione principale nei poteri mentali dei due sessi è costituita dal fatto che l’uomo giunge più avanti della donna, qualunque azione intraprenda, sia che essa richieda un pensiero profondo, o ragione, immaginazione, o semplicemente l’uso delle mani e dei sensi. Se vi fossero due elenchi di uomini e donne che eccellessero maggiormente nella poesia, nella pittura, scultura, musica […], storia, scienza e filosofia, con una mezza dozzina di nomi sotto ciascuna disciplina, non ci potrebbe essere confronto. Possiamo concludere, con la legge della deviazione dalla media così ben illustrata da Galton nel suo libro Hereditary Genius, che se gli uomini sono in molte discipline decisamente superiori alle donne, il potere mentale medio dell’uomo è superiore a quello di queste ultime» [10]. Questo passo è riportato nel sito dei creazionisti, ma in tutta onestà devo aggiungere che proseguendo c’è di peggio: Darwin afferma – arrampicandosi parecchio sugli specchi ed esprimendo per la verità anche qualche dubbio sulle tesi poco darwiniane da cui argomenta – che «l’attuale diseguaglianza delle qualità mentali tra i sessi non potrebbe essere annullata da una uguale educazione giovanile, né può essere stata causata da una educazione giovanile dissimile» [11]. Poco da fare: il nostro caro Darwin, antispecista e antirazzista (non è poco per l’epoca), resta sessista. Gli voglio bene lo stesso, perché il suo contributo all’emancipazione dell’umanità dalle ubbie metafisiche resta comunque fondamentale.
Va detto che la reputazione delle donne non migliorò poi molto negli sviluppi della teoria dell’evoluzione successivi a Darwin: quasi nessuno all’epoca – forse la sola eccezione è rappresentata dall’etnologo Otis Tufton Mason che riteneva la donna artefice dell’umana civilizzazione (gli dedichiamo qui una breve scheda) – sfugge al pregiudizio sull’inferiorità della donna.
A cavallo tra Ottocento e Novecento si affermò la teoria della “ricapitolazione” di Ernst Haeckel, destinata ad avere una “influenza dilagante” ben oltre il campo della biologia [12]. Si tratta di una visione dell’evoluzione fortemente progressionista, in questo senso abbastanza lontana dalle idee di Darwin ma assai più consona allo “spirito del tempo” che celebrava i fasti del progresso. Darwin vedeva nell’evoluzione soprattutto una deriva di variazioni, Haeckel la presenta invece come una marcia verso la perfezione, realizzando un bel recupero sulla “grande mortificazione” inflitta dalla scoperta della nostra origine bestiale: l’uomo sarà anche un animale, ma è il più evoluto e il più perfetto; e all’interno della specie Homo sapiens, il maschio bianco è il più evoluto e il più perfetto di tutti. Nell’idea ricapitolazionista l’evoluzione funziona per “aggiunta terminale”: un organismo più evoluto ha qualcosa in più, dunque prolunga (accelerandolo o condensandolo) il proprio sviluppo rispetto all’organismo meno evoluto. Un’evoluzione umana che pretende al vertice il maschio bianco si traduce dunque nell’idea che i maschi bianchi sono più sviluppati, dunque “più adulti” rispetto alle altre razze e alle femmine della specie, giudicate “più infantili”. Infantili, dunque bisognose di tutela e direzione: ed ecco giustificati imperialismo e paternalismo. Gli studiosi dell’epoca fecero a gara per scovare e catalogare tratti infantili nei neri, nei “selvaggi” e nelle donne: dalla posizione dell’ombelico, allo sviluppo del polpaccio e delle cartilagini nasali, con una particolare predilezione per le caratteristiche del cervello che rendono facile la saldatura degli aspetti fisici a quelli comportamentali, emotivi, intellettuali … [13].
Nel Novecento sembra profilarsi una svolta: non soltanto la teoria della ricapitolazione viene messa in discussione e sostanzialmente abbandonata, ma conquista terreno l’idea della “pedomorfosi” (forma infantile) della nostra specie, dunque un’interpretazione diametralmente opposta: l’uomo è diverso dagli altri primati non perché va oltre nello sviluppo, ma perché permane in uno stadio infantile, perché è “fetalizzato” – per usare l’espressione di Louis Bolk, all’epoca il principale sostenitore della pedomorfosi umana, il quale scrive che «più una razza è somaticamente fetalizzata e ritardata fisiologicamente, più si è allontanata dall’antenato scimmiesco dell’uomo» [14]. È il momento del riscatto per neri, selvaggi e donne? Macché, Bolk si limita a rigirare la frittata, mettendosi a scovare i tratti somatici con cui poteva affermare la maggiore pedomorfosi dei maschi bianchi (cranio arrotondato, minore prognatismo, sviluppo somatico più lento, ecc.): «l’uomo bianco sembra essere il più progredito, poiché è il più ritardato» [15]. Non c’è che dire: l’uomo bianco ha una notevole faccia tosta.
Povere donne! I pregiudizi sono duri a morire. Col procedere del secolo e il trionfo della genetica le cose non sembrano migliorare. Nel 1975 Edward Osborne Wilson, il fondatore della “sociobiologia” [16], scrive sul New York Times: «nelle società di cacciatori e raccoglitori, gli uomini vanno a caccia e le donne stanno a casa. Questa forte predisposizione persiste in molte società agricole e industriali e per questo sembra avere un’origine genetica» [17]. Un detto veneto prescrive così le virtù della donna: «che a piasa, che a tasa, che a stae a casa» (che piaccia, che taccia, che stia a casa). Se Wilson ci assicura che la vocazione casalinga è scritta nei geni, qualche anno prima, nel celeberrimo La scimmia nuda, Desmond Morris ha tracciato una evoluzione della femmina umana tutta in funzione del piacere maschile [18] – rincarando la dose nel più recente L’animale donna [19]. Dunque la donna piace (ci ha pensato la selezione naturale), sta a casa (ci pensa il suo patrimonio genetico) … ma non sempre tace. Non negli anni settanta del Novecento, quando monta la marea femminista, quando le donne hanno finalmente un largo accesso all’istruzione – conseguendo addirittura in alcuni paesi (Italia compresa) il sorpasso dell’altro sesso in termini di titoli di studio. Nel 1972 Elaine Morgan scrive L’origine della donna [20]: una vera sfida alle interpretazioni dell’evoluzione umana in chiave androcentrica e una dura critica al mito del maschio cacciatore che primeggia nelle rappresentazioni del Pleistocene. L’ipotesi della “scimmia acquatica” – che Elaine Morgan riprende dal biologo marino Alister Hardy [21] – non convince però la comunità scientifica e risulta, in effetti, abbastanza fragile.
Elaine Morgan è morta lo scorso settembre all’età di 92 anni. Vogliamo qui ricordarla riprendendo il tema dell’evoluzione della donna. Ma non vogliamo – come lei – raccontare un’altra storia, preferiamo attenerci ai risultati più recenti della paleoantropologia (cui abbiamo dedicato il n. 1/2013 (86) de L’Ateo con il titolo essere umani) che non accreditano l’ipotesi della scimmia acquatica ma danno anche un duro colpo al mito del maschio cacciatore, mentre assegnano ampio rilievo ad alcune caratteristiche “essenziali” di Homo sapiens che stanno dalla parte della fisiologia femminile, come le modalità del parto dovute all’andatura eretta e le prime cure parentali. Di questi aspetti si occupa l’articolo di Anna Maria Rossi. Federica Turriziani Colonna ci parla invece di un’altra peculiarità della nostra specie: l’orgasmo femminile e le sue interpretazioni in chiave evolutiva, spesso inficiate – come ha magistralmente mostrato Elisabeth Lloyd – da ideologie e pregiudizi.
E questo è un altro bel problema su cui riflettere. L’argomento dell’origine dell’uomo mostra in modo esemplare – perfino inquietante – la forza delle ideologie, che penetrano inesorabilmente nelle ipotesi, nelle teorie e perfino nelle osservazioni scientifiche. Che fine fa, allora, l’oggettività della scienza? Da anni c’è una vasta discussione sul punto: cercheremo di farla nostra in un prossimo numero de L’Ateo dedicato a scientismo e spirito scientifico.
Note
[1] Mutuo l’espressione da Stephen J. Gould, autore attentissimo ai rapporti tra scienza, ideologie, società. A proposito dell’“impatto sociale” della fisica galileiana, scrive: «A Galileo non furono mostrati gli strumenti di tortura in un astratto dibattito sul moto lunare. Lo scienziato aveva minacciato la tesi tradizionale della Chiesa sulla stabilità sociale e dottrinale: l’ordine statico del mondo con i pianeti che ruotano intorno a una Terra centrale, i preti subordinati al papa e i servi al loro signore» (S.J. Gould, Intelligenza e pregiudizio. Contro i fondamenti scientifici del razzismo, il Saggiatore, Milano 2005, p. 44).
[2] Ch. Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, Newton Compton, Roma 2006, p. 132.
[3] S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (1915-1917) in id., Opere, Boringhieri, Torino 1967-1980, vol. VIII, p. 189.
[4] In un articolo del 1864 intitolato The Origin of Human Races and the Antiquity of Man Deduced from the Theory of “Natural Selection”.
[5] Ch. Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, cit., p. 144.
[6] Ibidem.
[7] Il termine “popolazionismo” si deve a Ernst Mayr (1904-2005), uno dei massimi studiosi dell’evoluzione, che lo contrappone a “essenzialismo”. Secondo Mayr l’essenzialismo – che presume l’esistenza di forme essenziali per ogni classe di viventi, trattando le differenze individuali come deviazioni dalla norma rappresentata da tali forme essenziali – ha dominato il pensiero occidentale per millenni e l’approccio popolazionista di Darwin – che sostiene che una classe non è altro che l’astrazione concettuale di numerosi individui unici – rappresenta perciò una svolta radicale. In un’ottica popolazionista lo stesso concetto di “specie” risulta incerto, mentre il concetto di “razza” risulta totalmente privo di fondamento.
[8] La letteratura che “scagiona” Darwin dal cosiddetto “darwinismo sociale” è vastissima. Mi limito qui a suggerire, sull’argomento, il recente e chiarissimo libro di Angelo Abbondandolo, I figli illegittimi di Darwin, Nessun Dogma, Roma 2012.
[9] (Vedi http://www.icr.org/).
[10] Ch. Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, cit., p. 424.
[11] Ivi, p. 425.
[12] “Influenza dilagante” è il titolo di un capitolo di S.J. Gould, Ontogenesi e filogenesi, Mimesis, Milano 2013, opera in cui viene ricostruita la storia dell’idea di Haeckel secondo cui “l’ontogenesi ricapitola la filogenesi”, ossia lo sviluppo di un organismo ripercorre le tappe dell’evoluzione della specie. Sull’argomento si veda anche, dello stesso autore, Intelligenza e pregiudizio, il Saggiatore, Milano 2005.
[13] Cfr. S.J. Gould, Ontogenesi e filogenesi, cit., pp. 123-124.
[14] Citato da Gould, ivi, p. 128.
[15] Ibidem.
[16] Con il saggio del 1975 Sociobiologia. La nuova sintesi E.O. Wilson ha proposto “lo studio sistematico delle basi biologiche di ogni forma di comportamento sociale”. Questo programma di ricerca, continuazione ideale del cosiddetto socialdarwinismo e improntato a un forte determinismo genetico, è stato oggetto di critiche: si veda, ad esempio R.C. Lewontin, Biologia come ideologia, Bollati Boringhieri, Torino, 1993.
[17] E.O. Wilson, Human decency is animal, in New York Times Magazine, 12 ottobre 1975, pp. 38-50.
[18] D. Morris, La scimmia nuda. Studio zoologico sull’animale uomo, Bompiani, Milano 1968.
[19] D. Morris, L’animale donna. La complessità della forma femminile, Mondadori, Milano 2005.
[20] E. Morgan, L’origine della donna, Castelvecchi, Roma 2012.
[21] La teoria della scimmia acquatica è un’ipotesi evoluzionista proposta per la prima volta nel 1960 dal biologo marino Alister Hardy. Secondo tale ipotesi il progenitore dell’uomo sarebbe stato un primate che, per l’arsura del clima africano, avrebbe spostato la sua residenza negli habitat fluviali, per poi ritornare alla savana come Homo sapiens moderno.