di Paolo Ferrarini
Il ventre della vergine,
come il deretano del giovine
Un’unica lancia li perfora entrambi.
Ecco il vero jihad,
E quando arriverà il giorno del giudizio,
Avrai la tua ricompensa.(Abu Nuwas, 756-814 e.V. circa)
Abu Nuwas, considerato oggi come allora uno dei maggiori poeti arabi dell’epoca d’oro del califfato islamico, poteva permettersi di celebrare apertamente la sua impenitente passione per il vino e per i bei ragazzi, a testimonianza del fatto che una civiltà al culmine dello splendore non ha bisogno di scagliarsi furiosamente contro le proprie minoranze e rifugiarsi in pruderie moralistiche per sentirsi salda e coesa. E magari può permettersi anche di non prendere troppo sul serio la sua religione. Sconforta che dei giorni di Abu Nuwas sia ormai rimasta solo l’eco lontana di qualche poema libertino, mentre nel Medioriente del XXI secolo le difficoltà non si sono che inasprite per i musulmani che scoprono di provare attrazione per persone dello stesso sesso, che oggi incontrano gravi ostacoli a vivere nel rispetto dei propri istinti e della propria identità, a causa dei multipli livelli di ostracismo religioso, sociale e politico imposti da una cultura pressoché monoliticamente omofobica.
Quando si parla di islam, la premessa cautelare che bisogna sempre obbligatoriamente fare è che non si può e non si deve generalizzare, trattandosi di un universo culturale vastissimo e infinitamente variegato. Tuttavia, il fenomeno contemporaneo dell’omofobia, al di là delle sue manifestazioni specifiche nel contesto di Paesi e situazioni locali, sembra avere delle matrici globali, e analoghe caratteristiche in gran parte del mondo islamico. L’islam, nella sua più teorica espressione sharaitica, è maggiormente preoccupato a controllare la normatività dei comportamenti sessuali e ha poco da dire sull’omosessualità in sé, un fenomeno che rientra automaticamente, senza bisogno di ulteriori specificazioni, nella casistica degli atti sessuali non siglati da accordi matrimoniali, punibili in quanto eversivi dell’ordine sociale tratteggiato dalla rivelazione maomettana. A questo aspetto legislativo si affiancano le note narrazioni del folklore giudaico, come il mito di Sodoma e Gomorra, inglobato dal Corano, le cui possibili esegesi ci porterebbero però troppo lontano da un discorso più rilevante sul senso moderno dell’omofobia nell’islam.
Più interessante è probabilmente l’effetto psicologico dell’educazione religiosa che, almeno per quanto riguarda i maschi, costringe a un’interiorizzazione dell’omofobia in forme molto più pesanti e pervasive di quelle che conosciamo in occidente. C’è, infatti, una bella differenza tra il nascere in una cultura come quella “sanpaolina”, dove la castità è considerata una virtù – dov’è quindi eventualmente possibile trovare una legittima opzione di vita nell’astensione (fuga) dall’eterosessualità – e una cultura basata al contrario su testi religiosi che attivamente promuovono, incitano e finanche pretendono, senza scampo, che l’uomo goda sessualmente della donna, in forme esplicitamente regolamentate. Imam inclusi, a differenza dei preti cattolici. Una concezione dell’aldilà in cui si avranno a disposizione 72 prostitute per il proprio eterno godimento difficilmente avrà la capacità di smuovere l’animo dei musulmani omosessuali, per i quali una simile prospettiva sarà probabilmente più vicina all’idea di inferno, che di paradiso. Eppure, queste persone devono riuscire, a colpi di dissonanza cognitiva e di odio nei confronti di sé e di chi è gay come loro, ad adattare il modo di elaborare i propri pensieri e desideri per funzionare in una società che si ispira a simili credenze.
D’altro canto, per l’ignaro turista che arriva in un paese musulmano, la prima impressione è spesso che il paradiso per un omosessuale sia paradossalmente qui sulla terra. L’annullamento delle distanze personali, gli affettuosi scambi di baci tra amici maschi, l’incurante camminare mano nella mano al centro commerciale (atteggiamento impensabile per due persone del sesso opposto non sposate) e i rapporti omosessuali veri e propri che regolarmente avvengono fra le mura domestiche, anche solo come esperienze giovanili o come “compensazione” nell’attesa di avere accesso a una donna con il matrimonio, sono l’altro lato della medaglia dell’indiscussa e indiscutibile imprescindibilità dell’eterosessualità. Si tratta di una ingenua inconsapevolezza, una fluttuante e ambigua indefinitezza nei rapporti maschili che, come dibattono alcuni attivisti LGBT in Medioriente [1], potrebbe andare perduta nel momento in cui l’idea di un’identità gay si radicasse nell’immaginario collettivo nei termini in cui viene attualmente concepita in occidente, creando all’improvviso un’imbarazzante autoconsapevolezza direttamente traducibile in nuovi tipi di reazione omofobica. Ma questo, forse, sarà un problema del futuro. Il presente, per chi vive in quelle società, è un incubo orwelliano, in cui se da una parte manifestare “morbose” attenzioni per lo stesso sesso a lungo andare può essere bollato come perversione o come una malattia, fare il coming out vero e proprio, ossia assumere ufficialmente un’identità gay, è addirittura eversivo, la rottura di un tabù assoluto che comporta gravi conseguenze non solo per l’individuo, ma spesso per tutta la sua famiglia, in una cultura fortemente influenzata dalla mentalità tribale/beduina, dove la cellula sociale minima non è l’individuo, ma il “clan”, ossia la famiglia estesa. Una donna rischia di non trovare marito, a causa di un fratello dichiaratamente gay (o accusato di essere tale) [2].
Tuttavia, è tecnicamente improprio parlare di omofobia nel mondo islamico, perché nel senso moderno del termine si tratta di un concetto emerso in tempi relativamente recenti, in reazione all’affermazione del diritto all’identità gay. Nel mondo musulmano, l’idea è così recente e aliena che la parola araba politicamente corretta per gay, “mithliyy”, e la rispettiva parola per omofobia “ruhaab al-mithliyya”, sono tuttora di uso comune soltanto presso le comunità LGBT e la parte più liberale dei media. Gli imam più influenti, come il famigerato Yusuf al-Qaradawi [3], continuano a parlare di omosessualità per lo più in termini di peccato e aberrazione dalla norma, usando termini come “luuTi” (sodomita) o “Shaadh” (pervertito).
Nella realpolitik mediorientale, la funzione principale dell’islam è quella di fornire un linguaggio comprensibile alle masse, e l’odio per il diverso, nella sua forma più primitiva e non elaborata, si riduce sostanzialmente a una comoda arma ideologica da brandire opportunisticamente con almeno due finalità strategiche. La prima è un fenomeno analogo a quello cui abbiamo assistito anche in occidente negli ultimi 15-20 anni (l’Italia ne è forse l’esempio più evidente). I regimi hanno “scoperto” nel discorso sull’omosessualità una preziosa miniera di materiale propagandistico su cui fabbricare il consenso, inaugurando una triste stagione di omofobia di Stato. L’omosessualità rappresenta una golosa opportunità, essendo un non-problema che ogni governo può facilmente pregiarsi di risolvere con delle non-soluzioni al costo di qualche chiacchiera, ottenendo nel far questo il tipo di legittimazione che gli permette di restare al potere in condizioni di democrazia imperfetta. In Medioriente, i regimi “laici” non democraticamente eletti, che rispondono a una base profondamente religiosa in Paesi in cui l’islam non solo è religione di Stato, ma spesso costituisce una fonte del diritto costituzionale, sono sempre stati bloccati in un braccio di ferro con forze politiche che l’islam vogliono portarlo molto più integralmente al governo, come i Fratelli Musulmani. Mostrarsi più religiosi dei religiosi si è storicamente rivelata un’utile strategia a integrazione dell’oppressione tout court, e individuare nella minoranza omosessuale un nemico della società, che la stragrande maggioranza della popolazione è già predisposta a considerare come un mostro contro cui scagliare un jihad, è una mossa facile e di sicuro effetto. Come dice Georges Azzi, ex presidente dell’associazione LGBT libanese Helem, «L’omofobia è la concessione che i governi arabi fanno agli islamici per tenerli buoni». Il caso più noto ed esemplare è quello dell’Egitto di Mubarak. La sua campagna antigay, iniziata in sordina agli inizi del millennio, culminò nel maggio del 2001 nella famosa retata alla Queen Boat, locale gay-friendly sul Nilo dove furono arrestate ed esposte al pubblico ludibrio una cinquantina di persone presunte gay [4], in quella che gli attivisti arabi oggi definiscono lo “Stonewall del Medioriente” [5].
È interessante però notare che i 23 uomini effettivamente mandati in carcere (per tre anni, dove hanno subito ogni sorta di umiliazione, fino ad arrivare a stupri e torture, secondo Amnesty International) non furono condannati sulla base delle leggi anti-sodomia, ma per “atti osceni in luogo pubblico”, “disprezzo dell’islam” e … terrorismo! Non è quindi soltanto il moralismo religioso alla base delle brutali operazioni propagandistiche contro gli omosessuali. La seconda strategia di autolegittimazione per questi governi è infatti quella di atteggiarsi a difensori dei valori “pan-arabi” o “pan-islamici”, in contrapposizione all’inaccettabile cultura decadente delle oppressive potenze coloniali/imperialiste. Un esempio del rifiuto della concezione “occidentalista dei diritti umani” è stata la redazione della Dichiarazione del Cairo sui diritti umani nell’islam [6], che rivede e corregge la carta delle Nazioni Unite e in cui sostanzialmente i diritti dell’uomo sono stati integrati con i diritti di dio. Cose come la parità dei generi, il consenso della donna al godimento sessuale dell’uomo, la libertà di espressione e il diritto all’identità di genere non sono considerati valori universali, ma espressioni del desiderio dell’occidente di imporre la propria morale, dipinta come dissoluta nella retorica dei politici. Vale anche la pena ricordare che i paesi arabi non si sono mai del tutto ripresi dall’impatto della creazione dello Stato di Israele, uno shock che tuttora rende i governi mediorientali incapaci di uscire da una paralizzante retorica anticolonialista, riflessa anche nell’argomento paranoico (assurdo ma realmente diffuso) che gli omosessuali lavorino come spie al servizio dello Stato ebraico, o che siano espressione di lobby di potere sioniste.
L’aspetto paradossale è che il vero retaggio coloniale nei paesi islamici non è la tanto odiata omosessualità, bensì l’omofobia di Stato, che tecnicamente si appoggia a dei fossili legislativi, retaggio dei protettorati francesi o inglesi. Dal Commonwealth, per esempio, l’Egitto, la Malesia, il Pakistan e il Bangladesh hanno ereditato la legge del 1860 che punisce «i rapporti carnali volontari contrari all’ordine naturale delle cose». L’Algeria, invece, in quanto dipartimento francese ha assorbito l’inasprimento delle leggi omofobe del regime di Vichy. Benché si tratti di leggi raramente implementate alla lettera, si rivelano spesso strumenti efficaci nelle mani delle forze dell’ordine – e dei malviventi – per ricattare e tenere in pugno qualche malcapitato.
C’è però chi con le leggi non scherza. Otto Paesi islamici prevedono la pena capitale per gli omosessuali, fra cui le nazioni leader rispettivamente del mondo sunnita e sciita, Arabia Saudita e Iran, principali esportatrici nelle regioni loro afferenti dell’attuale ideologia e agenda omofobica. L’Iran notoriamente la applica, in casi documentati; dell’Arabia Saudita non si sa nulla di certo, perché è un Paese quasi completamente chiuso ai media stranieri e alle ONG. Quello che sappiamo è che l’omofobia è uno dei pochi argomenti in grado di appianare le differenze anche tra Paesi storicamente in forte opposizione come l’Arabia Saudita e l’Iran. Basti pensare alla coalizione che sono riusciti a formare nel 2008 per stilare e presentare un testo omofobo all’ONU che contrastasse la dichiarazione firmata da 68 paesi a favore della depenalizzazione universale dell’omosessualità. Testo – quello omofobo di ispirazione islamica – famosamente sottoscritto dal Vaticano, che in quell’occasione si rivelò vergognosamente più fondamentalista della Turchia, Paese che quantomeno si astenne dal supportare l’una o l’altra dichiarazione.
Ciò che scoraggia oggi è che le speranze fugacemente sollevate dalle primavere arabe per una società maggiormente orientata ai valori del laicismo si siano rivelate aspettative per lo più vuote, o almeno tradite. L’atteggiamento sostanzialmente immutato nei confronti degli omosessuali dimostra quanto debbano ancora “crescere” i popoli scesi in piazza contro le dittature, dal punto di vista del rispetto dei diritti umani. Il regime del generale Sisi in Egitto sembra ripercorrere i passi del decaduto Mubarak, dopo la retata a inizio dicembre 2014 in una sauna frequentata da omosessuali [7]. Emblematico è poi il caso dell’attivista Alaa Al-Jarban, uno dei principali e più rispettati leader della rivoluzione (incompiuta) nello Yemen. Con una mossa forse dettata dell’entusiasmo per il cambiamento sociale intravisto nel suo Paese, nel 2013 ha deciso di annunciare pubblicamente di essere gay sul suo seguito blog, apparentemente il primo yemenita ad avere il fegato di farlo. Il risultato? Ha dovuto chiudere il blog e il profilo facebook, dopo essere stato subissato di violenti messaggi di odio, di questo tenore: «Mi fai schifo. E io che ti ho anche stretto la mano una volta! Non posso credere di essere stato nella stessa piazza a fare la rivoluzione con te. È per colpa di finocchi come te che la nostra rivoluzione è fallita. Ora tradurrò il tuo post in arabo e dirò a tutti chi sei, perché quelli come te meritano di morire» [8]. Al-Jarban ha dovuto chiedere asilo politico in Canada.
Ancora peggio l’Iraq, dove l’imposizione dall’alto della democrazia non ha evidentemente portato con sé nessuno dei frutti del progresso civile. Oggi l’Iraq è probabilmente l’ultimo posto in cui vorrebbe trovarsi un omosessuale, data la feroce crociata antiomosessuale sponsorizzata dallo Stato, per non parlare dei più recenti e gravi sviluppi con l’avvento dell’IS [9]. Si parla di impiccagioni, torture, lapidazioni, violenze, ricatti. La situazione è così grave che gli omosessuali sono costretti a cercare rifugio in “safe-houses”, come quella un tempo gestita da Anwar Saleh, attivista all’epoca 21enne che è stato arrestato e, come Al-Jarban ha dovuto trovare asilo in occidente [10].
Per concludere, il quadro attuale dell’omofobia in Medioriente va dal deprimente all’allarmante, con pochissimi spiragli di luce rappresentati dalla coraggiosa attività di alcuni militanti e piccole associazioni, per lo più sponsorizzate dall’estero. L’omosessualità, a causa di ancestrali tradizioni, sistemi educativi conservatori, e una propaganda politica e mediatica che usa l’islam contro certi diritti individuali, non è ancora associata a una legittima identità personale. È associata invece a perversione, malattia, pedofilia, terrorismo, imperialismo, sionismo. Mentre parte del mondo si avvia gradualmente a quella che alcuni definiscono l’epoca del “post-gay”, o della normalizzazione, una fase storica in cui i diritti umani per le persone LGBT sono stati acquisiti e dati per scontati al punto che l’identità gay non è più percepita come qualcosa di particolarmente significativo; mentre un’altra parte del mondo, come l’Italia, ancora è bloccata nella fase di affermazione di questa identità e di lotta per la conquista di un legittimo posto nella società; nelle terre dell’islam, quando le circostanze lo permetteranno, il futuro più desiderabile sarebbe forse un passaggio diretto dal pre-gay al post-gay, un futuro in cui la cultura locale sappia produrre soluzioni originali e non importate alla (non) questione dell’omosessualità. Purtroppo, in tempi così bui e reazionari, è ancora troppo presto persino per immaginare un embrione di questo futuro.
Note
[1] Intervista a George Azzi, presidente dell’associazione LGBT libanese Helem, 2006.
[2] Brian Whitaker, Unspeakable Love, Gay and Lesbian Life in The Middle East, 2006.
[3] Tipico discorso di Yusuf al-Qaradawi: https://www.youtube.com/watch?v=NxnVSnnZs0Q
[4] Nicola Pratt, The Queen Boat case in Egypt: Sexuality, national security and state sovereignty, University of Warwick 2007.
[5] Frédérik Martel, Global Gay, 2012, 226-235.
[6] Il professor Enzo Pace ne fa una bella analisi in questo articolo: http://unipd-centrodirittiumani.it/public/docs/92_02_027.pdf
[7] http://www.bbc.co.uk/news/world-middle-east-30379585
[8] http://www.al-bab.com/blog/2013/june/coming-out-in-yemen.htm
[9] https://themuslimissue.wordpress.com/2013/10/14/punishing-gays-rectums-a…
[10] http://www.indybay.org/newsitems/2009/09/15/18622086.php
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Paolo Ferrarini. È nato. Cerca di sfruttare al massimo l’opportunità che ha di esistere. Viaggia, studia le cose del mondo, fa esperienze, crea musica, video, fotografa, scrive, traduce. Morirà.