di Marco Bazzato
Marco Pannella ha annunciato la morte di Piergiorgio Welby durante la diretta di Radio Radicale.
Welby aveva 61 anni e da quaranta era malato di distrofia muscolare.
Cala il silenzio sulla triste vicenda dell’uomo che aveva chiesto di morire scrivendo al Presidente Napolitano, affinché venissero sospese le cure che considerava accanimento terapeutico nei suoi confronti.
La richiesta di Piergiorgio Welby ha lacerato il Paese, dividendolo per l’ennesima volta tra quelli a favorevoli all’eutanasia e i contrari a questa pratica che da molti è considerata omicida.
Questa triste storia ha contribuito a portare alla luce le manchevolezze delle leggi attuali, dove il confine tra diritto alla vita e accanimento terapeutico nei confronti di un paziente lucido e con capacità di intendere e di volere è labile, elastico, evanescente, privo di paletti ben definiti. Dove però, indipendentemente dalle opinioni personali o politiche, nel mezzo, nell’occhio infernale del dolore e della sofferenza fisica e psicologica c’è l’uomo, ed è a questa sofferenza che la pietas umana deve saper volgere uno sguardo benevolo, non con le strumentalizzazioni di parte, distinguo teologici o dogmi, ma nemmeno con battaglie ideologiche che potrebbero indurre a pensare a una cultura generalizzata della morte, dell’eutanasia attiva o passiva di quanti si sentono inutili per essi stessi o un peso per la società.
Il confine tra il desiderio – anche psicologico – di vivere e l’imperativo di sentirsi lucidamente morti, e desiderare ardentemente la cessazione delle attività biologiche del corpo era stato attraversato da tempo da Piergiorgio Welby. Da tempo durante l’agonia si era già chiuso alle spalle non il desiderio di vivere e la vita, ma il dolore, l’immobilità, il silenzio esteriore che lo faceva essere vivo e presente solo nella sofferenza, quella sofferenza che per alcuni è un dono divino, per altri è una maledizione della vita stessa e un tragico gioco del destino.
Welby da tempo aveva già attraversato le porte della vita, vivendo idealmente in modo diverso, ma era prigioniero delle catene del dolore fisico e psichico, e non ha smesso di combattere per la sua libertà. Quella libertà che spesso alle persone sane, oberate dai problemi quotidiani, ma che non conoscono il valore distruggente e piagante dell’immobilità, dello sguardo fisso su un punto indefinito di un orizzonte che da anni non possono vedere, può sembrare una bestemmia, un insulto alla vita, come un attacco sistematico alle convinzioni e agli archetipi più radicati nell’uomo.
Umanamente sento che nessuno può attaccare l’uomo, che nella sua individualità lucida e cosciente sceglie deliberatamente una strada propria, ma alla fine comune a tutti, chiedendo di partire e andare, affrontare quel viaggio verso l’ignoto della dissoluzione del corpo, lasciando queste vesti fisiche comunque dotate di una vita finita, a tempo, scandita da un orologio inesorabile di cui nessuno conosce la durata effettiva.
Piergiorgio nel suo letto sentiva ogni battito, ogni secondo, ogni minuto, ore, giorni e settimane. Sentiva quell’eterna campana a morto che suona per ognuno dal momento della nascita, sentiva quel suono stridulo, martellante, che lacerava i timpani, lo piegava nel decubito e nell’immobilità, lo rendeva schiavo di una materia pensante, ma che lo logorava, lo faceva soffrire, lo distruggeva da dentro, consumandolo giorno per giorno come una candela impossibilitata a proteggersi dalle insidie della vita, perché già attaccato nel modo più maligno e mortale dalla vita stessa.
Piergiorgio Welby ha condotto una battaglia di civiltà, una battaglia etica secondo quelli che erano i suoi valori d’appartenenza, secondo quelli che erano i suoi bisogni primari e inviolabili d’uomo libero, aprendo uno squarcio sulla morte, uno squarcio senza pietismi pelosi e moralismi assolutistici che a volte ci fanno voltare lo sguardo per non vedere realtà scomode, per non vedere in faccia il dolore, l’agonia. Piergiorgio Welby ha portato tramite gli schermi tv, i giornali, le radio una signora dimenticata, una signora rimossa pubblicamente e messa al bando come un’animale infettivo: sua maestà la morte, e il desiderio che in troppi forse abbiamo di partire per un lungo ed eterno viaggio con lei, in pace.
Buon viaggio Piergiorgio, ovunque tu sia ora, la vita ti è amica e tramite la morte ti ha restituito la tua libertà.