di Riccardo Strappaghetti
Quanto sono sofisti i cattolici per ammettere o meglio “non escludere” il ricorso alla pena di morte (art. 2267 del Catechismo della Chiesa Cattolica) e invece non prendere nemmeno in considerazione l’eutanasia nei casi di gravissima malattia terminale?
La morte come pena sì, la morte come sollievo dalla sofferenza no.
Semplice, la risposta sta nella concezione della libertà. L’uomo deve avere meno libertà possibili, affinché così senta più forte sulla propria vita la morsa del destino, degli eventi, della storia, insomma di Dio. Quello stesso dio che procura gioia e procura sofferenza. E proprio tutti gli uomini dovrebbero accontentarsi di un dio che permette al demonio di mandare sofferenze al suo devoto fedele Giobbe in maniera incomprensibile? Proprio nel concetto della sofferenza sta una lacerazione tra la ragione (tanto cara all’attuale pontefice) e la fede nel cristianesimo. Accettare questo dio significa accettare incondizionatamente il suo silenzio alla domanda di Giobbe «Perché mi fai soffrire?». Un’accettazione senza spiegazione è di per sé irrazionale.
Qui sta la netta differenza tra l’etica laica e quelle cattolica. Una differenza netta.
L’etica laica considera sacro l’individuo in sé, e con esso la sua dignità, la sua personalità, la sua persona, la sua volontà. L’etica cattolica considera la persona sacra in quanto figlio di Dio, sacra in quanto partecipe della sacralità del divino, non di una sacralità autonoma.
È difficile affermare che la vita di un malato di sclerosi multipla all’ultimo stadio sia in mano di Dio, e non in mano dell’uomo. E dell’uomo è tutta la responsabilità di quella vita. È dell’uomo il rispetto di quella vita. È dell’uomo il sacro dovere di rispettare l’orizzontalità di quella vita, che forza fisica non ha più, ma ancora coscienza e volontà. E l’uomo verticale deve genuflettersi per ascoltare la voce dell’uomo orizzontale. Che l’uomo verticale che ignora profondamente la sofferenza di quel corpo morente, che ignora profondamente il silenzio assordante che ascolta tutti i giorni quella coscienza ancora funzionante, abbia rispetto. Che l’uomo verticale freni le sue chiacchiere inconcludenti di fronte alla sofferenza e ne abbia rispetto. Sacro rispetto. Comprenda tutta l’insensatezza che del dolore l’uomo orizzontale percepisce.
La libertà dell’individuo è il bene assoluto. La sua autodeterminazione il bene sostanziale.
La vita è di chi la vive. La vita è un diritto, non un obbligo.
La sofferenza non può comunque essere una condizione di sudditanza di un uomo all’altro.
La dignità che Piergiorgio Welby, il malato terminale di sclerosi, ha dimostrato nella sua lettera aperta al presidente Napolitano è enorme. È enorme il suo amore per la vita.
Penso sia profondamente immorale non prendere in considerazione l’appello di Piergiorgio, penso sia profondamente immorale liquidare tutta la questione con la frasetta insignificante: «Dio è il padrone della vita, nessuno può toglierla al suo posto». Vorrei rispondere a questo suscitando il dubbio se forse Dio non ha lasciato crudelmente l’atto della propria morte all’uomo stesso, nel caso di Piergiorgio. Il silenzio di Dio, che le chiacchiere degli uomini cercano di dissimulare e giustificare. Esiste davvero una morte fuori dal governo di Dio?
«Ama il prossimo tuo come te stesso» significa: considera l’altro come te stesso, rapportati a lui in quanto uomo come te, rispettalo non perché è uguale a te in tutto, ma perché ha la tua stessa dignità, accetta il colore della sua pelle non perché sia il tuo stesso colore, ma perché tu non hai il diritto di fargli del male, perché non sei a lui superiore, accetta il suo modo di vivere non perché sia come il tuo, ma perché egli ha il diritto di vivere secondo la sua felicità, proprio come tu vivi secondo la tua. Il prossimo è questo, è l’altro, è il diverso-da-te. Non è il vicino, il consanguineo, il concittadino, ma è lo straniero, colui che differisce da te, dai tuoi modi di vivere, di pensare.
Il «Non fare agli altri quello che non vorresti sia fatto a te» significa: «La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così, l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti» (art. 4 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, 1789).
La libertà del cristiano di scegliere di non praticare l’eutanasia per se stesso, finisce laddove inizia la libertà di chi sceglie diversamente decidendo per sé la fine delle proprie sofferenze.
Parlando degli stadi terminali di tanti malati, dove la vita cede il passo alla morte, che lascia intatte poche manifestazioni biologiche di sopravvivenza, non si trascura minimamente di citare l’affetto e l’amore dei cari e dei familiari alla persona malata, ma come non poter comprendere la condizione di insormontabile sofferenza del malato, che volontariamente, coscientemente chiede di poter morire?
Alla base di tutto questo sta la differente concezione della sofferenza.
Per moltissimi, religiosi e non, la sofferenza è insensatezza, è l’assurdo, è la negazione della vita. Quando alla sofferenza lancinante e straziante non c’è via d’uscita, si è già morti. Quel macchinario che prima sembrava la salvezza adesso è la maledizione, è il prolungamento inesorabile della sofferenza, è la condizione in cui l’uomo orizzontale chiede all’uomo verticale di poter morire, quel desiderio intimamene comprensibile e al tempo stesso sconcertante per l’uomo verticale, che prova difficilmente a immaginare la propria esistenza in quelle condizioni.
Sappiano i cattolici che opponendosi con tutte le forze alla volontà dell’uomo malato, non rispettano la dignità di quell’uomo, non lo rispettano come uomo, non lo amano, gli vogliono imporre con la loro indifferenza una condizione che l’uomo orizzontale non accetta; per loro, il suo diniego non ha il minimo valore. Perché? Non so trovare risposte umanamente comprensibili di tale crudeltà e indifferenza di un uomo verso un altro uomo.
Per i cattolici la sofferenza invece è un aspetto importante della vita, se non un aspetto centrale. La passione di Cristo ha salvato l’umanità, come con la propria passione ognuno salverà se stesso. Anzi nella sofferenza si compie la volontà di Dio, ed è la sofferenza a ogni modo una grazia, sia come premio per la santità (poiché i puri di cuore avranno la grazia di provare su loro stessi la passione di Cristo, praticando così un bene per l’umanità intera), sia come espiazione per i peccatori.
I cattolici hanno tutto il diritto di seguire questi modelli, ma perché un non cattolico, oppure un religioso stesso che non condivide queste idee dovrebbe fare altrettanto?
In situazioni del genere, in cui un malato terminale chiede di poter morire per non voler più sopportare lo strazio enorme della sofferenza, di fronte all’umanità più umana, all’umano troppo umano come è possibile per un cristiano non dare ascolto a quel grido di aiuto, rimanendo serrati nella torre d’avorio del dogma, e dei discordi così troppo poco umani?
I laici non farebbero mai questo ai cattolici, non li obbligherebbero mai a seguire le proprie scelte di vita, poiché i laici credono nella libertà dell’individuo, e rispettano per prima cosa la sua volontà. Se a un cattolico venisse imposta l’eutanasia contro la sua volontà, sarebbero i laici per primi a difendere la sua scelta di non morire.
Nel ricordare Luca Coscioni riporto due suoi passi, pieni di quella fiducia di vivere, di quella speranza che purtroppo non lo ha aspettato: «Il significato della mia esistenza è quello di viverla, così come mi è consentito, punto e basta. La persona malata è, innanzitutto persona, e come tale, ha diritto a vivere una esistenza piena, e libera, contro il senso comune e le ipocrisie quotidiane, che vorrebbero, invece, relegarci in una terra di nessuno».
«Tra una lacrima e un sorriso, le nostre dure esistenze non hanno certo bisogno degli anatemi dei fondamentalisti religiosi, ma del silenzio della libertà, che è democrazia. Le nostre esistenze hanno bisogno di una cura, di una cura per corpi e spiriti».