La ricezione de La chiesa immobile tra i cattolici italiani
di Marco Marzano
Credo di poter dire che il mio libro “La chiesa immobile. Francesco e la rivoluzione mancata” (Laterza 2018) abbia almeno il merito di possedere una tesi assai netta e decisamente controcorrente, articolata in due passaggi. Nel primo di essi, analizzo in modo dettagliato tutte le decisioni più importanti del papa argentino, concludendo che esse si sono poste in assoluta continuità con quelle dei predecessori e che dunque non hanno comportato alcuna riforma della Chiesa Cattolica, nessun cambiamento reale nelle strutture dell’istituzione, ovvero nei rapporti di potere tra Roma e le tante periferie, tra il clero e il laicato e tra gli uomini e le donne. Nel secondo passaggio, affermo che l’immobilismo da cui la vita istituzionale della Chiesa Cattolica e il pontificato di Francesco appaiono contraddistinti non è affatto sorprendente, ma può essere invece sociologicamente spiegato con il fatto che le grandi organizzazioni burocratiche si decidono a cambiare la loro forma solo laddove vi siano costrette dalle contingenze storiche, e in particolare dal presentarsi di una situazione di crisi che impone loro di introdurre dei mutamenti strutturali, pena il declino o l’estinzione. A mio giudizio, la chiesa cattolica non si trova in questo momento, per le ragioni che spiego diffusamente nel secondo capitolo del volume, dinanzi a questo rischio e perciò non è sollecitata ad innovare sul serio e in profondità le sue strutture.
Questa verità pare però difficile da accettare per alcuni settori del cattolicesimo (diciamo i più “progressisti”) e per un’opinione pubblica occidentale affamata e desiderosa di continue innovazioni. Per questo, sostengo nel libro, sono risultate geniali alcune mosse del papa argentino il quale, conservando intatta la struttura ecclesiale, è riuscito a fornire, con la complicità dei media, l’impressione di un gigantesco cambiamento, addirittura dell’inizio di una “rivoluzione”.
Nell’articolo pubblicato nel numero speciale di giugno 2018 di MicroMega dedicato al “Potere Vaticano” e alla “finta rivoluzione” di Bergoglio spiego nel dettaglio come questo miracolo si sia prodotto. Qui mi voglio invece concentrare sui due diversi atteggiamenti assunti nei confronti del libro da parte del mondo cattolico italiano (elenco esaustivo di tutte le recensioni).
Una prima reazione che ho percepito dinanzi alle pagine della “Chiesa immobile” è stata di paura. È questo, ad esempio, secondo me, il sentimento prevalente verso il mio libro più diffuso nelle redazioni dei due quotidiani di proprietà della Conferenza Episcopale Italiana, l’Avvenire e L’Eco di Bergamo. In modo diverso, le due testate avevano dato uno spazio molto ampio alle mie precedenti pubblicazioni sul mondo cattolico italiano: Avvenire aveva addirittura battuto sul tempo tutti gli altri giornali, pubblicando una recensione (ovviamente critica) di “Cattolicesimo magico” e di “Quel che resta dei cattolici” lo stesso giorno di uscita dei due volumi; L’Eco di Bergamo (il quotidiano della città dove vivo e lavoro da anni), dopo la pubblicazione, nel 2012, di “Quel che resta dei cattolici”, non solo aveva puntualmente e generosamente recensito tutti i miei lavori successivi, ma mi aveva addirittura proposto un contratto di collaborazione, foriero per me, negli anni successivi, di un’intensa attività di editorialista e commentatore di fatti nazionali e locali.
La “Chiesa immobile” ha paralizzato entrambi i giornali, annientando improvvisamente ogni interesse verso il mio lavoro. Avvenire ha rigorosamente ignorato l’uscita del libro e lo stesso ha fatto L’Eco di Bergamo, dalla cui redazione non ho ricevuto più la benché minima sollecitazione a collaborare con il giornale. Basta. Fine. Silenzio tombale. Come se io fossi morto all’improvviso e non meritassi nemmeno un coccodrillo.
Un giorno, un paio di mesi dopo l’uscita del libro, incuriosito da questa singolare e per me inaspettata reazione, ho chiamato al telefono un collaboratore esterno de L’Eco che credevo un amico e che più volte mi aveva recensito e intervistato. Gli chiesi di fornirmi una spiegazione di quel silenzio, gli dissi che non mi aspettavo certo solo elogi, ma che mi stupiva il fatto che il giornale e lui come esperto dell’argomento non avessero dedicato una sola parola al libro alla cui stesura avevo dedicato quasi due anni della mia vita e che aveva come oggetto un tema che avrebbe dovuto risultare rilevante per un giornale cattolico. Il tizio iniziò a balbettare, a farfugliare frasi penose del tipo «eh ma questo è un libro un po’ particolare … è un testo che mette in imbarazzo … questa volta hai puntato alto …» e soprattutto «pensa se questo libro finisse nelle mani dei critici del papa, di chi non gli vuole bene, pensa che uso potrebbe farne … non puoi pretendere che noi contribuiamo a far conoscere l’esistenza di un libro come il tuo». Nelle settimane successive, quando al silenzio di questi giornali si sono aggiunti anche l’inedito rifiuto di alcuni più o meno autorevoli intellettuali cattolici a partecipare alla presentazione del mio libro ed altre forme di più o meno esplicito boicottaggio, superata un po’ di amarezza, ho tentato di capire da dove nascesse questa reazione e soprattutto perché un uguale ostracismo non si fosse indirizzato verso i miei lavori precedenti, verso “cattolicesimo magico” dove avevo messo in ridicolo molte pratiche superstiziose e miracolistiche del cattolicesimo contemporaneo e denunziato i tanti rischi dell’espandersi del settarismo pentecostale dentro la chiesa cattolica, o verso “quel che resta dei cattolici”, dove avevo annunciato la morte sociale e spirituale del cattolicesimo in Italia, l’avanzata trionfale della secolarizzazione e della scristianizzazione del nostro Paese.
La spiegazione che mi son dato è che in entrambe le opere precedenti non avevo messo in evidenza la natura istituzionale, autoritaria, monarchica e conservatrice del cattolicesimo, soffermandomi al contrario su fenomeni che potevano con facilità essere definiti marginali e minoritari (cattolicesimo magico) o almeno parzialmente indipendenti dalla volontà della Chiesa (la secolarizzazione dilagante denunciata da “quel che resta dei cattolici”). Nella “Chiesa immobile” mi sono invece occupato del cuore dell’istituzione, del ruolo dell’oligarchia e dei gerarchi, dei meccanismi di perpetuazione del potere clericale, della natura incontestabilmente reazionaria dell’organizzazione e di quella manipolativa della comunicazione. E soprattutto mi sono permesso di discutere criticamente l’operato del papa e di farlo con argomenti razionali, pacati e scientifici, senza ricorrere a tutto il ridicolo armamentario degli oppositori di estrema destra di Bergoglio, che lo definiscono anticristo, demonio, usurpatore e così via. Quelle stupidaggini deliranti trovano notevole spazio nel dibattito pubblico, anche questo tento di spiegare nel libro, perché consentono di sostenere, in negativo, l’eccezionalità rivoluzionaria ed eversiva di un pontificato che di rivoluzionario e di eversivo non ha in realtà proprio niente, eccetto quel che produce nella mente dei tradizionalisti fanatici o di qualche scaltro opportunista che sul fanatismo di quei polli ha costruito la sua fortuna.
Insomma, lo dico senza timore di apparire presuntuoso, la schiera dei paurosi, quelli che hanno pensato con terrore all’eventualità che il mio libro venisse letto, è per me la miglior conferma dell’esattezza e della veridicità della mia tesi. Immaginando le conseguenze che avrebbe una sua ampia diffusione per la reputazione del loro datore di lavoro, terrorizzati dall’idea di contribuire personalmente a quel risultato e non avendo alcun argomento concreto da contrapporgli, costoro hanno pensato che la cosa migliore da fare fosse boicottare il libro, non parlarne, applicare ad esso una rigorosa censura, trasformarlo in un oggetto inesistente o scadente, da spedire presto al macero, in virtù della sua evidente irrilevanza.
Una seconda reazione di fronte alle tesi della “chiesa immobile”, ben più interessante e stimolante della prima, appartiene al genere che definirei “benaltrista”. I “benaltristi” (ho in mente soprattutto i teologi Grillo e Salvarani insieme a Daniele Rocchetti) militano tutti nella Chiesa ma, a differenza dei “paurosi”, hanno sfidato la congiura del silenzio intorno al libro e non hanno esitato ad impugnare la penna per criticare, in modo educato e civile, le tesi della “Chiesa immobile”. Li definisco benaltristi perché non contestano la correttezza della mia analisi, ma affermano piuttosto che essa è insufficiente, che non permette di comprendere fino in fondo il senso del pontificato, che insomma ci sono altri e importanti indizi che dovrebbero spingere un osservatore attento a considerare il papato di Bergoglio come l’inizio di una nuova stagione nella vita della Chiesa.
Un primo elemento che ricavo dalle loro analisi è relativo al timing delle riforme. A giudizio di costoro e per usare il linguaggio dello stesso Bergoglio, il pontificato dell’argentino ha innescato dei “processi” che potrebbero gradualmente produrre col passare del tempo delle innovazioni significative. Su questo la mia opinione è nettissima: le riforme non giungono come effetto di un lento sgocciolamento, ma come conseguenza del prorompere di una valanga, del rompersi di una diga, del dilagare di una febbre. Nelle grandi organizzazioni burocratiche le resistenze al cambiamento, gli interessi consolidati a mantenere lo status quo, gli abiti mentali legati alla tradizione sono talmente radicati e profondi che possono essere sconvolti solo ad opera di una ferrea volontà politica riformatrice, di un ciclone che spazzi via l’opposizione e imponga il cambiamento ad ogni costo. In altri termini, in organizzazioni con la solidità istituzionale, la storia e le dimensioni della chiesa cattolica non si può certo immaginare che i mutamenti arrivino per puro caso, senza una rigorosa pianificazione riformatrice. L’organizzazione più autoritaria e gerarchica che esista al mondo, la più antica e resistente monarchia assoluta del pianeta non cambia spontaneamente, per un incidente della storia o magicamente per l’innesco di micro processi di cambiamento che ad un certo punto, come su un fittizio piano inclinato, nessuno è più in grado di governare. Se la mano che tiene a battesimo l’apertura dei processi riformatori è debole e insicura come quella di Bergoglio, la tendenza prevalente nell’organizzazione sarà quella di ricondurre il prima possibile le modeste innovazioni nel solco della continuità istituzionale, di addomesticare la minaccia rendendola inoffensiva e muta.
Per inaugurare un processo di riforma in organizzazioni altamente istituzionalizzate come la chiesa cattolica è indispensabile un capo o un’élite in possesso di un preciso disegno strategico e di una ferrea volontà di attuarlo, deciso a legare indelebilmente il suo nome ad una storica grande riforma. La speranza che basti un sassolino gettato al vento o qualche buona parola, un’esortazione verbale pronunciata qui insieme ad un’altra pronunciata là, perché poi lo Spirito Santo completerà l’opera, mi sembra rappresentare, sul piano dell’analisi razionale e strategica, una forma di fatalismo terribilmente ingenuo. Le riforme negli aggregati umani non si producono in questo modo. A questo si può aggiungere, a peggiorare il quadro, che molti dei processi concretamente innescati da Bergoglio vanno nella direzione esattamente contraria a quelle di una riforma della Chiesa: ad esempio, il fatto che la tanto attesa riforma della curia voluta da Francesco si risolverà, come è ormai noto, in una modestissima riorganizzazione amministrativa che impedirà per molti decenni, con l’argomento che una riforma è già stata fatta, che un simile e più efficace processo di cambiamento della governance cattolica possa essere avviato. Un effetto analogo sarà quello prodotto dalla commissione incaricata dal Papa di far luce sul ruolo del diaconato femminile nella storia della Chiesa. L’organismo è presieduto dal conservatore Ladaria (voluto dal papa anche al vertice della Congregazione per la Dottrina della Fede) e produrrà, come è ormai noto, un nulla di fatto che pregiudicherà per molti anni qualsiasi intervento riformatore sul tema.
Una seconda obiezione che giunge dai benaltristi riguarda la sottovalutazione che avrei compiuto delle innovazioni linguistiche introdotte da Bergoglio, ed in particolare di quelle relative alla riflessione sui testi evangelici. Secondo Salvarani ad esempio, Francesco sarebbe un pontefice specialmente capace di essere fedele allo “stile di Gesù”, sia nell’uso delle parole che nel modo di vita, da cui emanerebbe quel “profumo del vangelo (Evangelii gaudium 34) — sono parole del teologo — che si diffonde esclusivamente grazie all’essenzialità, alla sobrietà, alla povertà”, di cui Francesco sarebbe un tifoso e un campione.
Non voglio entrare nel merito della sobria e scientifica (e non trasognata e mistica) analisi linguistica dei pronunciamenti di Francesco di cui pure avremmo bisogno. Mi limito a fare un’osservazione ispirata dalle considerazioni di Salvarani (sottoscritte anche da Grillo): constato che, per poter giudicare innovativo il papato di Francesco, i suoi apologeti sono costretti a dimenticarsi che il Nostro è anche, incidentalmente, il capo della Chiesa Cattolica, cioè il leader di un’organizzazione globale che intrattiene rapporti politici, diplomatici, di affari con i regimi di mezzo mondo, che annovera un miliardo di fedeli, mezzo milione di funzionari, cinquemila vescovi, un immenso patrimonio mobiliare e immobiliare. Io capisco perfettamente il fascino che deriva dal considerare Bergoglio alla stregua di uno scrittore o di un’artista, di un Saviano o di un Benigni, o se si preferisce di un Vito Mancuso, e cioè come un libero pensatore, un intellettuale solitario, un teologo affascinante, un predicatore, autore di riflessioni più o meno profonde sul senso della vita e sulle parole del Vangelo. Lo capisco perfettamente, e mi rendo conto che proprio questa è l’immagine del pontefice che costruiscono ogni giorno per i loro lettori il Corriere della Sera, la Repubblica e tutto il resto dell’informazione italica, ma sono costretto a rammentare che si tratta di un’immagine falsa e fuorviante, dal momento che il papa è, in primo luogo, il capo di un’immensa organizzazione, titolare di una miriade di concretissimi interessi materiali e politici, e che il suo lavoro (quello a cui dedica la stragrande maggioranza del suo tempo) consiste in primo luogo nella gestione di questa immensa e complessa macchina organizzativa e non nella pronuncia di brevi discorsi o nella scrittura di raffinate considerazioni teologiche, con tutta probabilità opera di sofisticati ghost writers.
Giudicare il papa dal suo linguaggio equivale a valutare un politico dai discorsi che fa nelle piazze, dalla sua abilità ad intrattenere il pubblico in un comizio. Il vantaggio di cui il papa gode rispetto al politico è che nei suoi confronti pochissimi fanno quello che ho fatto io nella “chiesa immobile”: cioè ricostruire con precisione come agisce e non solo cosa dice, studiare le scelte e le decisioni e non solo farsi ammaliare dalla sua suadente retorica evangelica in salsa latina. Di questo equivoco, quello di considerare il papa alla stregua di un guru, di un profeta, di un Gesù Cristo in miniatura e non per quel che è, cioè il capo politico di una grande organizzazione planetaria, è vittima l’intera opinione pubblica italiana, che si bea delle parole del papa su questo o quell’argomento e quasi mai va a vedere, nei fatti, quali conseguenze abbiano comportato nella vita dell’istituzione. Ad esempio, per quanto riguarda le promesse di sobrietà e povertà evangelica, la stampa (e molti teologi) si accontentano delle scarpe consumate e della vecchia borsa del papa o dei contenuti di certe sue prediche inneggianti ad una grande considerazione per gli “ultimi”; in pochissimi vanno a guardare quanto denaro continui ad affluire nelle casse vaticane, a come operi il suo istituto bancario, a quali rapporti vengono intrattenuti dalle gerarchie vaticane, per realpolitik e per assicurare benefici di ogni genere all’istituzione, con dittatori e satrapi di tutto il pianeta. Lo stesso discorso vale su tutti gli altri ambiti della vita ecclesiale. Per non parlare delle considerazioni sull’ambiente, la società, il capitalismo: tutti temi sui quali il papa non ha alcuna responsabilità politica e sui quali dunque mai verrà chiamato a render conto della coerenza tra le parole e i fatti.
La chiesa è una grande organizzazione politica, ma i suoi intellettuali e la stampa aconfessionale (perché definirla laica sarebbe farle un complimento eccessivo) pretendono di giudicarla come se fosse un cenacolo socratico, un gruppo informale di liberi pensatori riunitisi in povertà intorno ad un signore vestito di bianco per capire che senso dare alla vita e al rapporto con Dio.
E veniamo all’ultima obiezione dei benaltristi, la più decisiva. Scrive Andrea Grillo: «Marzano pretende di dire il “tutto” della Chiesa escludendone la dimensione misterica, sacra, trascendente. Ora qui le cose sono molto delicate. La chiesa non si esaurisce nella sua visibilità: ogni cristiano sa questa verità e ne fa, sia pure nelle diverse confessioni, una questione decisiva. Marzano pretende invece di semplificare il discorso classico e millenario sulla Chiesa con una “riduzione del sacro al sociale” che è solo una grande invenzione di Durkheim. Io non credo nella chiesa di Durkheim, ma in quella di Gesù Cristo, anche se ritengo di imparare molte cose importanti dai testi dei sociologi. Purché essi facciano i sociologi e non pretendano di dare giudizi sul piano sistematico, ecclesiologico e cristologico su cui non hanno competenza. E chiederei, anche, che potessero concepire un mondo e una Chiesa un poco più complessi delle loro semplificazioni strutturali. Parlare di grazia, di Spirito Santo, di risurrezione non è “essere ideologici”, ma dare voce alla struttura complessa dell’esistenza degli uomini di fronte a Dio».
Questo passaggio è davvero illuminante, dal momento che mette implicitamente in chiaro una volta per tutte i limiti invalicabili del dialogo tra discipline e mondi sociali, tra scienziati e teologi, tra laici razionali e credenti cattolici. Forse Grillo non se ne accorge (perché è troppo interno al punto di vista cattolico), ma quello che lui vede nella Chiesa, la “dimensione misterica, sacra e trascendente”, è visibile e rilevante solo agli occhi di un credente, non solo e non tanto di chi crede in Dio, ma piuttosto di chi crede alla santità della Chiesa, cioè di chi accetta che essa sia in qualche modo una creatura divina, uno strumento al servizio di Dio. Se manca questa convinzione, tutto ciò che scrive Grillo perde improvvisamente di validità e di concretezza, si dissolve e non esiste più. Come ci insegna la psicologia sociale di Karl Weick, la visione non è neutrale ed oggettiva, ma è guidata dalla credenza: vediamo (e pensiamo che sia vero) ciò in cui crediamo. Naturalmente lo stesso discorso è applicabile, almeno in parte, ne sono consapevole, anche al mio ragionamento sociologico, che parte dal presupposto essenziale di escludere quella dimensione misterica, trascendente, eccetera tanto cara a Grillo e a cui tutti, secondo la sua singolare e un tantino medioevale visione del mondo, dovrebbero sottomettersi, finendo di considerare il proprio lavoro ancillare e subordinato rispetto a quello principesco e sublime del teologo.
La competizione tra questi discorsi finisce insomma per essere una competizione tra valori, tra concezioni della vita e della società al fondo irriducibilmente diverse e per alcuni versi irrimediabilmente antagoniste. Qui gli argomenti non valgono più, ma sono le convinzioni profonde ad avere la meglio, le fedi: da un lato, quella che induce a tollerare tutte le malefatte, le ingiustizie, i limiti, le mostruosità compiute dalla Chiesa Cattolica in nome della speranza di una futura palingenesi rigeneratrice, dall’altro quella che applica, in nome di un umanesimo razionale e di una coscienza democratica, alla chiesa di Roma gli stessi severi criteri validi per tutte le altre istituzioni (dal partito nazista ad Amazon), senza sconti per nessuno. Credo di sapere a chi si indirizzeranno le preferenze dei lettori de L’Ateo.
Marco Marzano è Professore di Sociologia dell’Organizzazione all’Università di Bergamo. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche nazionali ed internazionali e collabora regolarmente con Il Fatto Quotidiano. Tra i suoi libri segnaliamo, oltre a La chiesa immobile (2018), La società orizzontale. Liberi senza padri (2017, con Nadia Urbinati) e Quel che resta dei cattolici. Inchiesta sulla crisi della Chiesa in Italia (2012).
Da L’ATEO 5/2018