Machiavelli e la speranza. La religione come ‘instrumentum regni’

di Stefano Scrima

 

«Quelli cittadini temevano più assai rompere il giuramento che le leggi, come coloro che stimavano più la potenza di Dio che la potenza degli uomini» [1]. Machiavelli qui si riferisce all’antichità, ma con un occhio sempre rivolto alla situazione italiana (ed europea) di inizio Cinquecento: quelli cittadini — d’accordo con le interpretazioni “classiche” del pensiero machiavelliano — non sarebbero in grado di crearsi una propria visione del mondo. Il problema risiede fondamentalmente nella loro naturale ritrosia al ragionamento. E dunque va bene credere in Dio se non v’è alternativa a contrastare lo sfacelo. Sì perché è pericoloso vivere senza dèi, abbandonati a sé stessi, in possesso d’una libertà misconosciuta. È terribile; senza Dio “tutto è permesso”, oppure no? Ma per Machiavelli sembra che Dio non corrisponda ad alcuna verità trascendentale: Dio è quella parola che incute timore negli animi mal-educati, che serve ai dominatori per far rispettare la legge da loro umanamente costruita. Dunque religione come instrumentum regni, e basta.

Non sappiamo se Machiavelli fosse ateo, stando ai suoi scritti certamente non un buon cristiano. La lode dell’eccesso al momento giusto, dell’alternanza tra gravità e leggerezza, connotano il fiorentino in un’“aura banchettale”. E già solo il mescolare paganesimo e cristianesimo, con una spiccata partigianeria per il primo (idealizzandolo), mostra un Machiavelli spiritualmente disinteressato.

Notiamo però una contraddizione: Machiavelli trattando di religione civile scinde automaticamente il fenomeno religioso in (1) instrumentum regni appannaggio dei potenti e (2) religiosità relegata alle “masse”. Per sopravvivere la religione civile — presunta fautrice di buoni ordini [2] — non può fare a meno dei suoi osservanti; e per osservare bisogna credere; e per credere bisogna avere timore di Dio, del suo castigo, dell’istintiva brama di potenza (e delle osterie). È ovvio che un Dio senza apostoli non avrebbe senso. Ma per Machiavelli i prìncipi e i capi possono tranquillamente non possedere alcuna virtù morale, sebbene, ai fini del mantenimento del consenso pubblico, debbano perlomeno millantarne la parvenza. Anzi, l’umiltà di Cristo sta inesorabilmente “effeminando” il mondo — parole sue. E dunque che importa se Dio esiste? Ciò che conta è che sia salda l’idea di Dio nei fragili cuori dei “plebei”. Quindi? Machiavelli insegna ai padroni a dominare e ai servi a servire. Divide in due la società: furbi e creduloni. Riduce il miglior ordine sociale possibile ad una repubblica arbitraria nella quale alcuni spadroneggiano e gli altri annuiscono. Il merito di quelli che non credono facendo finta di credere dev’essere premiato con l’appagamento della loro volontà di potenza. Perché la loro è un’umanità superiore, degna del trono. Posta l’insanabile contraddizione machiavelliana tra religione civile e spiritualità, questa è l’unica conclusione accettabile. Ma che le opere di Machiavelli non cadano nelle mani dei credenti! Sarebbe la rivoluzione.

Così Machiavelli sarebbe un pensatore “antico”, “aristotelico”: gli uomini nascono per governare o per servire, è la natura che conferisce loro più o meno intelligenza per realizzare la scalata al successo mondano. Machiavelli insegna ai “superiori” a dirigere bene le proprie qualità innate, ad adattarle al reale; perché non c’è altro fine oltre a quello terreno, non c’è alcun senso oltre a quello intrinseco al crudele gioco della vita.

Leggendo Machiavelli non si riesce a distinguere nettamente la religione pagana dal cristianesimo: entrambe offrono ciò che maggiormente occorre alla società per perpetuare ed accrescere le giustificazioni d’ogni azione particolare, pubblica o privata. È vero che egli vede nel paganesimo — molto meno dogmatico e adattabile alle differenti sensibilità — la religione civile perfetta alle esigenze d’una società, mentre nel cristianesimo lo snaturante giogo dello spirituale sul civile, ma l’una dimensione, quella civile, presuppone l’altra, quella spirituale. La tendenza per la “religione Gentile” è evidentemente un’ingenua idealizzazione machiavelliana dell’ambiente culturale della Roma antica. Credere in Dio o negli dèi, dal punto di vista della spiritualità, è identico. Governare attraverso la fede degli altri è prerogativa del papa (e dei suoi alleati politici) quanto dei consoli. Machiavelli permane nella sua imperiosa ambiguità — del tutto aderente ad una realtà effettuale dalle trame così oscure.

Ma se Machiavelli trattando di religione pensasse in realtà a qualcos’altro? Religione come senso del bene comune — un nuovo bene comune — della possibile e auspicabile convivenza, del rispetto per le “leggi” umane. L’ipotesi è che nell’incredibile impresa affidatasi, Machiavelli abbia dovuto ricorrere ad un espediente: svuotare il concetto di religione del suo contenuto mantenendone formalmente il termine. Ciò nella rassegnata consapevolezza dell’impossibilità di slegare l’uomo dal primigenio anelito al benessere personale, alla spasmodica autoconservazione — quindi, in ultima istanza, a una sorta di bene comune che vada a vantaggio della maggior parte degli associati (considerando la società l’unica forma possibile per la sopravvivenza del singolo) — e all’insito bisogno di dar giustificazione di ciò. Dare una spiegazione — credere che ne esista una — alla propria condizione è necessità inestirpabile delle coscienze umane. Sorge con la coscienza stessa, dalla natura. E il Paradiso non è certo l’ultima delle destinazioni desiderabili. Questo Machiavelli lo sa.

Il più celebre tentativo nietzscheano di esautorazione della religione [3], benché lanciato più di tre secoli e mezzo dopo Machiavelli, fallì miseramente (seppur mantenendo un’insuperabile fortuna letteraria). Non si può privare l’uomo della speranza, anche questa è connaturata. E se per Camus, e per lo stesso Nietzsche, non bisogna sperare ma accettare l’esistente per quello che è, ciò risulta sempre come un andar contro noi stessi, e perciò accoglibile soltanto da un’esigua minoranza estremamente lucida.

È dunque un problema di linguaggio e comunicazione. Come indurre gli uomini, schiacciati dall’insicurezza, a firmare entusiasticamente il “contratto sociale”, accettandone ogni conseguenza? O meglio, come giustificare a posteriori l’associazione tra uomini? Come neutralizzare, per quanto possibile, l’eccesso del disordine senza avvilire le passioni consustanziali all’umana natura? Soluzione: religione come incanalamento della speranza, come forma che possa delimitare, arginare quest’ultima, che fugga gli eccessi di disperazione e annullamento di sé. Il cristianesimo ammette una sola forma di passione: quella per Dio. Ma questo a Machiavelli importa poco: la religione permette di sperare e l’uomo per sopravvivere deve sperare.

Al Segretario fiorentino, in definitiva, non interessa se gli uomini credono o non credono in Dio, negli dèi pagani o nella Natura. La religione — o il principio della speranza — resta un metodo arbitrario ma indispensabile ai fini della conciliazione del nostro animo. D’altronde non esiste alternativa. Dunque Machiavelli come il Lessing della religione universale, ma senza quella vena distruttrice e d’elitaria intellettualità.

Così va spiegata anche l’ambiguità riscossa dal XXVI capitolo del Principe — l’ultimo — che con la sua segnata discendenza religiosa ha da sempre scompaginato le esegesi dei critici machiavelliani. Il pensatore fiorentino utilizza qui l’unico linguaggio realmente universale della sua epoca: quello cristiano. L’unico in grado di smuovere gli “effeminati” animi italiani a prendere coscienza dello sfacelo “nazionale”. Poco importa paragonare l’ambita unificazione italiana ad una redenzione divina se ciò porterà a buoni frutti.

Machiavelli vuole parlare a tutti gli uomini, far appello al loro intimo, alla loro componente propriamente umana. Egli accetta la natura dell’uomo costantemente tesa al suo superamento, che chiede disperatamente conferma di sé stessa proiettandosi in una dimensione iperuranica dalla quale immaginare di osservarsi con una distensione d’animo celestiale.

Ma allora siamo certi che l’orizzonte di Machiavelli sia limitato al mondano? Invero anche Machiavelli aspira all’eterno. La sua “dottrina” insegna questo: la vita eterna ottenuta nella gloria. Chi può affermare che Romolo sia morto? Nessuno. Perché Romolo non è mai morto, come non è mai morto Machiavelli. La gloria vive per loro.

Chiedere all’uomo di smettere di credere e sperare sarebbe come chiedergli di non innamorarsi più, posto il fatto innegabile che per amor infausto si desideri l’annientamento. Ma tutti sanno che non si può chiedere tanto all’uomo: l’aspirazione all’eterno, come l’amore, è l’espediente che la natura inventò per ancorarci alla vita; resta da chiedersi perché essa non abbia attuato diversamente, magari senza l’infame inganno che ci induce ad amarla. Ma essa ha bisogno di noi per esprimersi, e non rimane che accettarlo.

Vige dunque un accordo tacito, o una semplice dissimulazione, un “soave inganno”, tra Machiavelli e i suoi lettori — ma nulla di luciferino! Semplicemente egli è consapevole della prodigiosa potenza della speranza e della sua radice esclusivamente umana. Ed è tale consapevolezza a volgere il fiorentino all’utilizzo di quegli strumenti — l’improbabile accensione religiosa dell’ultimo capitolo del Principe — soli in grado di far breccia nel sangue italiano, per tentar di sollevare qualche ambizione patriottica. L’uomo cosciente (come lo è Machiavelli e il lettore acuto) deve accettare questa situazione — la religione come forma della speranza — come l’unica (e per di più scaturita da un istinto naturale), per ora, in grado di garantire l’ordine dell’animo e della società, il micro e il macrocosmo. L’anelito è quello di raggiungere una possibile convivenza tra uomini, che mitighi, per quanto possibile, paura e timore dell’esistenza. L’uomo, esposto alle intemperie passionali, necessita di protezione e, come la religione offre la forma per incanalare la speranza che ci supera, la convivenza in società offre la forma che permette di sfogare le passioni all’interno di una cornice razionale, necessaria all’equilibrio stesso di animo e società. Se pretendiamo la libertà d’espressione, ma contemporaneamente stare con gli altri, occorre sottoscrivere tale compromesso.

Religione e società sono interconnesse e responsabili della sopravvivenza degli uomini. Come la religione civile non può sussistere senza la spiritualità, la società non può sussistere senza la religione — intesa da Machiavelli appunto come incanalamento della speranza. Che poi la fede nell’esistenza di Dio risulti truffaldina è un problema di chi si professa credente, di certo non di Machiavelli, impegnato a configurare una possibile e perseguibile misura umana. Emerge così un Machiavelli ateo ma tollerante, d’una tolleranza che smarrisce il confine che la separa da cinismo e utilitarismo, ma che, in ultima istanza, mira ad una convivenza pacifica dei consociati, o meglio, ad un’ossimorica pace conflittuale, o ancora, se si preferisce, ad una conflittualità pacifica: tutti sinonimi di libertà. Non è lecito, infatti, l’anelito idealistico alla totale neutralizzazione dei conflitti sociali, naturali esteriorizzazioni dei contrasti endogeni dei singoli. I tumulti, prodotti dalle diverse tensioni contrastanti, espressioni delle differenze umane, sono lo scheletro dell’equilibrio sociale. Eliminando la possibilità di confronto tra differenze soccomberebbe la libertà stessa, presupposto di una società degna di questo nome. La libertà, oltre che presupposto della società, ne sarà anche il fine ultimo.

Ma perché Machiavelli dirige il suo pensiero verso la creazione di ordini? Soprattutto perché volgersi all’ordine e non al caos, a ciò che più si avvicina al contingente fluire delle cose? Forse per l’appagamento personale nel vedersi artefice d’un meccanismo autocelebrativo? Non è da escludere. Forse per l’intima necessità ordinatrice del nostro animo? Forse. Ma perché non soddisfare la propria pulsione soverchiante senza aggravarsi di responsabilità oppressive (quelle inerenti alla direzione di uno “stato”)? Machiavelli è, nonostante tutto, fortemente influenzato dalla sua epoca (come del resto i pensatori di ogni tempo e luogo), e se è vero che ogni rivoluzione storica è una rivoluzione filosofica — ovvero mantenuta in vita dalla riflessione offerta dalla filosofia — dobbiamo riconoscere in Machiavelli un’adesione, seppur a mal in cuore, ai precetti cristiani. Egli ragiona da cristiano del XVI secolo; anche opponendosi alle nefandezze compiute dalla Chiesa utilizza argomentazioni di sapore cristiano, e d’altronde non potrebbe essere altrimenti. Ogni pensatore si scontra con la sfida del proprio tempo, tende a superarlo, può anche superarlo, ma rimane sempre figlio suo. È per questo che Machiavelli trova nell’ordine il possibile e unico senso del confluire dell’energia umana. Ed è per questo che anch’egli parla di bene comune, seppur con sfumature originali. Non che l’idea di ordine sia appannaggio esclusivo delle società cristiane, anzi, l’ideale greco di armonia cosmica non può che condurre a questa medesima aspirazione all’ordine sociale. Indubbio è anche che la morale cristiana sia mutuata da quella antica. Ciò che si vuole dimostrare qui è la non completa immoralità di Machiavelli — sopra si parlava addirittura di tolleranza. Un’adesione morale probabilmente non consapevole, ma latente nel pensatore fiorentino in quanto uomo vissuto in tempo e luogo “schierati”.

Machiavelli critica l’ambiguità della Chiesa romana, non si perde mai in discussioni su Dio, sull’ontologia divina o sulla spiritualità degli uomini, proprio come fosse una questione di scelta personale irrilevante per la politica (il “vero” campo d’azione dell’uomo). Eppure accetta inconsciamente alcuni precetti fondamentali della morale cristiana: l’ordine e il bene comune. Ma qui ripiombiamo nella contraddizione precedente: se la religione come instrumentum regni è il collante della società, non si può prescindere dalla sua dimensione “mistica”, l’unica che permette il legame dei credenti con l’istituzione governativa che dirige il culto. Machiavelli, spiritualmente “senza parte”, ma formatosi su un terreno cristiano, riconosce l’innegabile valore della religione come propensione vincente d’una società, ma non vede di buon occhio il perdersi in faccende di second’ordine quali pregare o esser devoti. La “vera” vita è la politica, e ciò che permette il suo buon fungere, ovvero l’adesione del popolo alle direttive dello “Stato” — “aizzata” dai detentori del potere facendo leva sulla spiritualità altrui — è nota solo agli uomini volpini, tra i migliori a detta del Segretario.

Machiavelli rimane un pensatore contraddittorio, che all’interno della sua logica, quasi interamente rivolta alla politica, discrimina i credenti veri a favore dei credenti per profitto, ai quali, senza i primi, non basterebbe la miglior artiglieria per ordinare uno “Stato”, e soprattutto per farlo durare. Malgrado l’acribia nell’indagare il reale, la consapevolezza della debolezza umana, della sua passione per il divino (compensatore delle sofferenze terrene), nel pensiero di Machiavelli la dimensione dell’inganno rimane al centro delle trattazioni e di qualsiasi progetto umano. La speranza, compagna inseparabile dell’uomo, è l’unica che può tradursi in senso. E questo senso viene indetto dai potenti ingannando i “sudditi” creduloni. Così siamo tornati al Machiavelli antico, ora più che mai modernamente disilluso sulle possibilità dell’infima natura umana.

L’uomo si crea un senso a sua discrezione — ad esempio il bene comune foriero di felicità — e si crea gli strumenti atti a mantenerlo, uno su tutti: la religione (questa per alcuni è addirittura il senso stesso, ma non per il fiorentino).

Non v’è principio assoluto, non siamo destinati a una dimensione superiore in cui regoleremo i conti delle inutili sofferenze di questo affannoso respirare. Per Machiavelli tutto finisce qui e, pur riconoscendo nella gloria una possibilità di riscatto eterno, egli sente insuperabile la precarietà della vita.

 

Bibliografia

N. Machiavelli, Il Principe (1513), a cura di P. Melograni, BUR, Milano 2010.

N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1513-1518), introduzione di G. Sasso, premessa al testo e note di G. Inglese, BUR, Milano 2010.

F.W. Nietzsche, Der Antichrist. Fluch auf das Christentum (1888), Phänomen, Hamburg 2003; trad. it. a cura di F. Masini, nota introduttiva di G. Colli, L’Anticristo. Maledizione del Cristianesimo, Adelphi 2004.

L. Strauss, Thoughts on Machiavelli, The Free Press, Glencoe (Illinois) 1958; trad. it. a cura di G. De Stefano, Pensieri su Machiavelli, Giuffrè Editore, Milano 1970.

 

Note

[1] N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, BUR, Milano 2010, p. 92.

[2] «[…] La religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella città [Roma], perché quella causò buoni ordini, i buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese». Ivi, p. 93.

[3] «[…] Vedo uno spettacolo così ricco di significato, così meravigliosamente paradossale al tempo stesso, che tutte le divinità dell’Olimpo avrebbero avuto motivo per una risata immortale — Cesare Borgia papa … Mi si intende? … Orbene, sarebbe stata questa la vittoria alla quale solo io oggi anelo — in tal modo il cristianesimo sarebbe stato liquidato! — Che accadde invece? Un monaco tedesco, Lutero, venne a Roma. Questo monaco, con dentro il petto tutti gli istinti di vendetta d’un prete malriuscito, a Roma si indignò contro il Rinascimento» F.W. Nietzsche, Der Antichrist. Fluch auf das Christentum (1888), Phänomen, Hamburg 2003; tr. it. L’Anticristo. Maledizione del Cristianesimo, Adelphi 2004, p. 94.

Da L’ATEO 1/2019