di Karl Heinz Deschner
Anche per onorare il 250° anniversario della nascita di J. W. Goethe (1749-1832), l’Ateo pubblica, per gentile concessione dell’Editore, il seguente saggio tratto dall’opera di K. Deschner, Il gallo cantò ancora (p.552-555), editore Roberto Massari, traduzione e cura di Costante Mulas Corraine.
«Anche da vecchio non meno che da giovane condanna in modo radicale l’intera storia del Cristianesimo».
(Il teologo Peter Meinhold)
Goethe non solo ha profondamente capito i pensieri centrali della Bibbia, ma il Cristianesimo ha anche ampiamente influenzato la sua opera. Egli però è totalmente al di fuori di qualsiasi tradizione ecclesiastica e confessa per bocca del suo curato «che la dottrina di Cristo in nessun altro luogo fu tanto compressa quanto nella Chiesa cristiana»: col che Goethe considera anticristiano il Cristianesimo della Chiesa. Come scrive nel frammento dell’Ewiger Jude:
«…davanti alla croce e a Cristo
si dimentica proprio Lui e la sua croce»
È vero che Goethe trentenne e quarantenne espresse ripetutamente giudizi negativi anche su Gesù1, ma in seguito modificò non poco la sua opinione. E un anno prima di morire disse che Gesù aveva creduto in un Dio
«al quale attribuiva tutte le qualità che in se stesso percepiva come perfezione. Egli divenne l’essenza della propria nobile interiorità, pieno di bontà e d’amore com’era lui stesso, e assolutamente adatto a che gli uomini buoni a lui si affidassero fiduciosi e accogliessero in sé questi ideali come il legame più dolce verso l’alto»2
Ma sul Cristianesimo ecclesiastico Goethe ha sempre pensato in modo del tutto negativo, soprattutto su quello cattolico.
Già nel suo viaggio in Italia, che diede nuovo nutrimento al convincimento della giovinezza circa la totale degenerazione del Cristianesimo, restando vivo fino alla vecchiaia, definisce la Roma cattolica una «Babele» e «madre di tanto inganno ed errore»3. Definì «abracadabra»4 una benedizione di candele, alla quale aveva assistito brevemente nella Cappella Sistina. Paragonò il culto della Chiesa al teatro e al carnevale, parlando successivamente di cerimonie e opera, di processioni e balletti5. Ed ebbe a dire:
- «Bisogna vedere il carnevale, per quanto possa offrire poco divertimento; altrettanto accade con le mascherate pretesche»6. E, con tono di scherno: «Dal teatro e dalle cerimonie ecclesiastiche sono egualmente male impressionato, gli attori si danno un gran daffare per divertire, i preti per suscitare devozione» e per lui il papa è «il miglior attore» di Roma7.
Egli scrive ancora:
«La struttura architettonica della chiesa di san Marco a Venezia vale qualsiasi insensatezza, che vi si possa insegnare o perseguire. Tutti questi sforzi per far valere una menzogna mi sanno di stantio, e le mascherate, che per bambini e uomini sensibili hanno alcunché di imponente, a me paiono, persino se mi pongo di fronte ad esse come artista e poeta, sciocche e piccine»8.
Goethe sessantacinquenne commentò la conversione di Zacharias Werner al cattolicesimo coi versi:
«Lo spinge la natura peccaminosa
a Roma, dalla meretrice babilonese…
Qui però c’è il papa, l’Anticristo,
peggiore del Turco e del Francese».9
Con Babilonia, lo pseudonimo dell’Apocalisse per la Roma pagana10, Goethe, d’accordo con ambienti pietistici, definì spesso anche altrove la Chiesa cattolica, ad esempio nel frammento dell’Ewiger Jude:
«O guai alla grande Babilonia!
Signore, cancellala dalla tua terra,
lascia che bruci nella sua sentina».
Ma anche a 75 anni definisce il cattolicesimo una «dottrina sfigurata dal clericume»11 (Friedrich Von Schiller ne parlò come «dell’inganno che ha contaminato il mondo intero»).
Verso il protestantesimo Goethe non si comportò in modo così totalmente negativo, ma la distinzione non è troppo sostanziale. Già da giovane, Goethe dichiara che non si reca in chiesa e alla comunione perché «non è abbastanza bugiardo per queste cose». Anche se in seguito si mostrò più disponibile verso la riforma, tuttavia il protestantesimo ancora nel 1817 è per lui «un’intricata sciocchezza, che ci infastidisce ogni giorno». E ancora pochi anni prima della morte ritiene che di tutte le sue poesie «nessuna potrebbe stare in un libretto luterano di inni».
Era per lui assolutamente inaccettabile, addirittura ripugnante, il nucleo centrale della fede della Chiesa, la cristologia, la dottrina del peccato originale e della redenzione e la fede nella divinità di Gesù - meri dogmi mai sostenuti da Gesù stesso. Negli Epigrammi Veneziani Goethe scrive:
«Molto posso tollerare. Il più delle cose moleste
sopporto con animo sereno, come un Dio mi impone.
Poche tuttavia mi son quali veleno e serpi ripugnanti:
quattro cose: fumo di tabacco, cimici, aglio e croce».
Nel Westöstlicher Divan Goethe definisce il portare la croce come ornamento una «stupidaggine assolutamente moderna» ed esclama:
«A me tu vuoi far passar per dio
una tal pietosa immagine di legno!»
Nel 1824 riguardo alla crocifissione dichiara: «I preti hanno saputo trarre un grande vantaggio dall’avvenimento più pietoso di tutti»12. Sul simbolo della redenzione cristiana, la croce, un anno prima di morire scrive:
«Il doloroso legno della croce, la cosa più sgradevole sotto il sole, nessuna persona ragionevole doveva darsi da fare per dissotterrarlo e trapiantarlo. Era un lavoro per una madre bigotta d’imperatore; dovremmo vergognarci di reggere il suo strascico».13 Certo, sulle immagini del crocifisso ci sono anche un paio di espressioni meno ostili; tuttavia sono - come concede un teologo - «più rare e meno significative di quelle opposte».14
Ancora pochi giorni prima della morte, l’11 marzo 1832, in un colloquio con Eckermann, Goethe trovava «molta stupidità nelle norme della Chiesa», dicendo che essa nulla temeva di più dell’istruzione illuminata della massa inferiore. «Essa vuole dominare, e a questo scopo deve avere una massa ottusa, che si piega ed è disposta a farsi dominare».
Non c’è quindi nulla che abbia a che fare con un «Cristianesimo nascosto» di Goethe, o con un accostamento al cristianesimo «negli anni della maturità». Il teologo Peter Meinhold ha da poco ampiamente mostrato che i giudizi di Goethe sulla storia della Chiesa, per quanto se ne sia occupato intensamente anche nella vecchiaia e ne sia stato tanto influenzato da diverse parti, nella sostanza sono sempre restati gli stessi, e concludono per una totale condanna dell’intera storia del Cristianesimo. Goethe stesso ce ne dà una formulazione inequivocabile:
«Non crediate che vaneggi o inventi;
andateci e trovatemi altra forma!
Non è tutta la storia della chiesa
che un miscuglio d’errore e di violenza»15.
E un’altra volta scrive (ibidem):
«Agli uomini tedeschi s’ascrive a gloria
d’aver odiato il Cristianesimo,
finché alla pietosa spada di Carlo
soggiacquero i nobili Sassoni».
Goethe stesso soleva dire di sé ch’era «un pagano», «un vecchio pagano», «un vero e autentico pagano», un «deciso non-cristiano», un uomo che «si attiene più saldamente che mai alla venerazione degli dèi degli atei», che leggeva Omero «come un breviario» e che venerava in generale le opere dei poeti greci pagani «come libri canonici per eccellenza»16, e non vedeva nella Bibbia niente di singolare.
«Tu» - scrive a Lavater - «non trovi nulla di più bello del Vangelo; io trovo migliaia di fogli scritti da uomini più antichi e recenti benedetti da Dio altrettanto belli e utili all’umanità e indispensabili».
E una volta, a proposito del figlio August, che al pari del padre non si recava in chiesa, osserva con soddisfazione paterna: «Pare che un deciso paganesimo sia ereditario».
A poco a poco si comincia a capire, anche da parte della Chiesa, quanto sia impossibile rivendicare Goethe al Cristianesimo. Così un cattolico spera che Dio, nella sua onnipotenza, sapienza e bontà, abbia almeno fatto sì che anche Goethe sia giunto «da lui in cielo».17
Note
- Cfr. fra l’altro An Frau von Stein, 6 aprile 1782.
- Colloqui con Eckermann, 28 febbraio 1831. Inoltre Meinhold, Goethe, 168. Cfr. anche i Colloqui con Eckermann 4 gennaio 1824 e 11 marzo 1832.
- Viaggio In Italia, 28 agosto 1787.
- A Charlotte v. Stein, 3 febbraio 1787.
- ibidem, 6 gennaio 1787.
- An C. v. Knebel, 19 febbraio 1787.
- Al duca Carl August, 3 gennaio 1787.
- A Charlotte v. Stein, 8 giugno 1787.
- Invectiver Nachlaß, 6 febbraio 1814.
- Cfr. anche 1 Petr., 5, 13.
- A Eckermann, 4 gennaio 1824.
- An Zeter, 28 febbraio 1824
- ibidem, 9 giugno 183
- Leipoldt, Vom Jesusbild der Gegenwart, 37.
- Zahme Xenien, 9
- An Herder, 15/3/1790; An Jacobi, 11/1/1808; An Reinhard, 2/12/1808; Venetianische Epigramme, Nachlaß 4; An Lavater, 29/7/1782; An Windischmann, 20/4/1815.
- Kahle, Goethe und das Christentum, 46.