Storia dell’ateismo, di Georges Minois

di Luciano Franceschetti.

Originale Histoire de l’athéisme, 1988
Traduzione di Oreste Trabucco e Lelio La Porta, Ed. Riuniti, Roma 2000, pag. 672

Chi di Minois ha letto di recente la Piccola storia del diavolo (1999, Il Mulino), sarà subito attratto da quest’opera del medesimo autore. Resterà magari perplesso, lì per lì, dinanzi alla mole del libro (oltre 600 pagine); gli parrà un’opera di consultazione, ma presto sentirà di farcela, da lettore curioso, a ripercorrere per intero il cammino dell’emancipazione dal primitivo pensiero magico e i processi di liberazione da quella sindrome religiosa che attanaglia da sempre l’umanità: prospettive assenti o scarsamente rappresentate nelle storie «canoniche» della filosofia.

 

È un’evoluzione complessa, e per giunta quasi invisibile, quella del pensiero ateistico, e si capisce perché, da qualunque parte la si osservi. Intanto, le storie dell’ateismo - dichiarate tali senza eufemismi - si contano fin qui sulle dita di una mano; così tocchi con mano il grande «vuoto» della storiografia classica, a fronte della marea di volumi (enciclopedie, storie sacre, monografie, apologie e simili) su monoteismi, chiese, tradizioni, culti, agiografie e confessioni, che sommerge biblioteche e cataloghi di tutto il mondo. Ma è ovvio, diranno subito i benpensanti: ciò rispecchia l’irrilevanza della componente ateistica rispetto all’universalità delle fedi.

 

Pensano male, i benpensanti. E se ne convince chi, dopo l’asserto enunciato dall’autore nell’introduzione, constata strada facendo quanto discontinua, eppure radicata e profonda sia invece - nel tempo e nello spazio dell’umanità - la presenza del sentimento antireligioso. Una realtà insospettata, che i manuali scolastici, su cui si basa in fondo la visione corrente della storia dei ceti mediamente acculturati, sono ben lungi dal fare intuire. Non se ne parla proprio; se ne sa poco o punto. Molti docenti di storia e filosofia (per non dire degli studenti) potrebbero certificarlo.

 

Vista dall’altro versante (come la faccia invisibile della luna), la storia delle idee non finisce di stupire. Persino chi abbia buone frequentazioni con la storiografia ordinaria, resta sorpreso dall’antichità del fenomeno ateistico. Siamo talmente abituati a vedere il pensiero scettico o laico spuntare appena col Rinascimento e affermarsi appieno solo con l’Illuminismo del ’700, che stentiamo a credere nella sua vigorosa presenza già nel mondo antico, nella cui rappresentazione è stato sempre occultato o minimizzato.

 

Dopo L’ateismo e la sua storia nell’Occidente di Fritz Mauthner (datato però al 1923, e non ancora noto in Italia), Minois fa piena luce su molte zone buie o unilaterali della cultura storica, inspiegabilmente dimentica di quella essenziale componente della storia filosofica che è appunto il pensiero ateo. È solo dal Settecento che l’ateismo, tabuizzato e costretto alla clandestinità per lunghi secoli, esce finalmente allo scoperto, viene chiamato col suo nome e conquista piena dignità e titolo di cittadinanza nella cultura moderna, costituendo parte determinante della modernità.

 

Ad uno storico come Minois, studioso francese delle mentalità, bastano pochi capitoli introduttivi per far rivivere lo scetticismo diffuso del pensiero antico, gli «ateismi greco-romani» serpeggianti sotto la fioritura delle mitologie: credenze leggiadre, innocue e tolleranti per loro natura, che mai provocarono persecuzioni né lacerazioni di coscienza. Sta in questo - per la civiltà e per l’eternità dell’avventura umana - la superiore valenza della Weltanschauung pagana. Conflitti e terrori furono per contro innescati col trionfo del cristianesimo, durante i secoli bui (ebbene sì, a dispetto di ogni mistificazione revisionista e riabilitativa) del Medioevo, chiamati per antonomasia i «secoli della fede»: i tempi dei monoteismi assoluti che impongono sui ceti intellettuali (perenne monopolio chiesastico) la turpe dottrina della doppia verità, il bisogno scolastico delle cosiddette «prove di Dio» a riprova del dubbio insopprimibile, il miracolismo allucinante e il culto superstizioso delle reliquie, roghi ed eresie, insomma il totalizzante oscurantismo medievale. Guerre crociate, teologia e inquisizione mortifere: apogeo della sadica criminalità e della pseudofilosofia naturaliter christiana.

Ed eccoci al Rinascimento, alla gioiosa riscoperta della natura, della grecità e del pensiero classico, che spalanca nuovi orizzonti all’incredulità, in contesti politici e socio-culturali sempre meno propizi alla fede cieca delle masse. È l’epoca della rivoluzione copernicana, dei grandi viaggi e delle scoperte geografiche, di nuovi continenti e popoli atei o animisti, che pongono fine alle certezze e al mito della verità unica, della religione vera. Ma si consolida anche il diabolismo, supporto perenne del teismo, che stavolta rafforza l’incredulità e lo scetticismo popolare, innescando la repressione inquisitoriale. Contro le forze schiaccianti della dogmatica e dell’apologetica ecco affermarsi le prime grandi voci del libero pensiero, da Dolet a Gruet, da Serveto a Giordano Bruno.

 

Quasi un preludio dell’imminente rivoluzione illuministica è il periodo tra le due crisi della coscienza europea (1600-1730), che vede emergere lo scetticismo dei libertini: è il tempo dei «falsi devoti», della moda di Epicuro diffusa a livelli popolari, ma anche dei vertici della filosofia di Cartesio, di Spinoza «principe degli ateisti», di Hume maestro di scetticismo totale. È il secolo dell’incredulità ostentata, specie in Olanda e in Inghilterra. Ormai - constata Minois sulla base di corali testimonianze - tutte le strade portano all’ateismo: viaggi, scoperte, diffusione della stampa e alfabetizzazione crescente producono dubbio e incredulità in misura esponenziale, in tutti i Paesi e in tutti i ceti sociali. Con la propagazione del sapere, del libero esame e del metodo sperimentale, specie nel mondo anglosassone, nasce la scienza moderna, e con essa le scienze nuove: esegesi biblica, etnologia, storia comparata, sia politica sia religiosa. Fattori potentissimi d’incredulità nel clima antecedente l’Illuminismo: nasce in Inghilterra il libero pensiero (Free Thinking) ad opera di coraggiosi «deisti» quali Collins, Toland e Shaftesbury, i quali distruggono i dogmi delle religioni positive lasciando sopravvivere soltanto vagamente (non più verità apodittiche di fede, ma semplici esigenze del sentimento) due sole vaghe aspirazioni: immortalità dell’anima ed esistenza di Dio. Istanze di generica trascendenza, omaggio alla storia, nostalgia dell’infanzia: ultimi capisaldi d’una fortezza ormai espugnata. Montano dovunque, in tutte le classi sociali, indifferentismo e apatia: ciò significa fine delle religioni positive, con le loro pretese d’assolutezza e di perennità.

 

Siamo ormai in pieno Settecento, quando scoppia lo scandalo del Testamento (1729), il manifesto ateista dell’abate Jean Meslier, che svela dall’interno del magistero clericale la falsità intrinseca dei misteri della fede: critica della rivelazione e smascheramento dell’«arcifanatico» Gesù. Sulla sua scia riaffiora timidamente il libro che non c’è, il clandestino e mitico (dai tempi di Federico II di Sicilia) Liber de Tribus Impostoribus, il Libro dei tre impostori, ormai tradotto in tutte le lingue eppur sempre irreperibile. Certo, è anche il libro maledetto per definizione: come permettere che siano così vituperati Mosè, Gesù e Maometto, i laudatissimi fondatori dei monoteismi vincenti? Oramai, solo l’arte potrà nobilitarne la caduta, grazie all’immortale parabola dei tre anelli nel Nathan di Lessing, insuperabile vertice della saggezza illuministica.

 

Con la Rivoluzione Francese, l’era napoleonica e la susseguente Restaurazione - simboleggiata dalla Santa Alleanza fra trono e altare - si apre la seconda parte di questa storia: la più ricca e fitta di opere, autori, citazioni, movimenti, manifesti, eventi storici e ideologie che, nell’intrico della cultura contemporanea, testimoniano la durissima e rischiosa lotta per la libertà e la liberazione dalle catene dell’assolutismo/dogmatismo. Occorre dire che è lo stesso cammino della democrazia, accettata prima o poi da tutti gli Stati, volenti o nolenti, ma tenacemente avversata, oggi come allora, da tutte le Chiese? Così debutta il secolo XIX, il secolo della morte di Dio: iniziatosi con la scristianizzazione rivoluzionaria, con l’irruzione dell’ateismo popolare (non solo in Francia), con la diffusione dell’ateismo pratico a tutti i livelli, l’Ottocento finisce - in Europa e in America - col trionfo del positivismo scientifico e con le ideologie dette appunto della «morte di Dio», dal nichilismo a Nietzsche.

 

Dispiace dover accennare solo ai titoli degli ultimi capitoli che Minois dedica al nostro declinante secolo XX, efficacemente individuato come epoca di «fine delle certezze». Tra i due secoli, ci si chiede se l’ipotesi Dio sia un problema davvero superato, come sentenziavano marxisti e positivisti fine Ottocento, e oggi psicologi e scientisti; se per la lunga guerra tra fede e incredulità non sia arrivato il tempo dell’armistizio, o forse della pacifica coesistenza; se l’odierno, troppo mediatico «ritorno del sacro» sia realmente un revival di fede, oltre che di indistinta religiosità. E ancora: le credenze New Age finiranno per sostituire le fedi tradizionali? Qual è oggi il bilancio dell’incredulità, dopo tanti secoli di cristianesimo? Scienza e tecnica possono davvero surrogare le credenze popolari? Scienze umane, statistiche sociologiche, ricerche antropologiche potranno surrogare i bisogni indotti delle masse? Dopo la svolta del 1989 (a due secoli, guardacaso, dalla presa della Bastiglia) sembrano finite le ideologie, sono caduti i muri, si ipotizza persino la fine della storia… e così hanno perduto senso obsolete categorie e definizioni (credente, ateo, indifferente), mentre si svela l’illusione massmediatica del conclamato «ritorno del religioso».

A conclusione del lungo viaggio, lo storico tenta uno sguardo nel futuro: il XXI secolo sarà irreligioso? Sono pagine intense che non si possono compendiare; ne citiamo solo poche righe concernenti la vittoria dell’ateismo: «Le lotte passate fra credenti e non credenti sembrano ormai lontane. Lo stesso sacro, che alcuni si ostinano a vedere sotto forma di nuovi idoli, non esiste più. L’ultimo valore sacro è l’Io. Tutto il resto è strumento, mezzo, attrezzo di realizzazione dell’equilibrio interiore (…) La civiltà dell’anno 2000 è atea. Che ancora vi si parli di Dio, di Allah, di Geova o di altri, non cambia niente. In quanto il contenuto del discorso non è più religioso, ma politico, sociologico, psicologico» (pag. 611).

 

Gli ultimi capitoli, guardando al secolo venturo, fanno il punto sulle tendenze odierne. Specialmente i credenti, perlopiù ignoranti e poco inclini alla conoscenza, qui avrebbero di che riflettere. Vi si tracciano i lineamenti delle nuove generazioni: agnostiche, indifferenti e figlie del disincanto. Eredi del naufragato, ottuso «ateismo di Stato», ma anche dei movimenti atei non marxisti. Peccato che in uno scorcio di secolo come il nostro - cioè in tempi di globalizzazione - qui si guardi esclusivamente al mondo occidentale, nel solco, questo sì!, dell’eurocentrismo puro. Vero è che quella europea resta la cultura madre di ogni secolarizzazione; nondimeno, verrebbe voglia di conoscere come stanno oggi altri continenti, certe culture extraeuropee ed extraamericane, incalzate da fondamentalismi sempre più minacciosi. Malgrado questo limite, questa Storia offre prospettive, fonti documentali e referenze rare e assai ghiotte. No, non è libro da consultare, solo per vedere chi c’è o cosa manca, magari per usufruire dei copiosi apparati bibliografici e dell’indice dei nomi dove, accanto alle grandi icone della storia, figurano non pochi personaggi ignoti, oscuri testimoni della coscienza liberata dalla nefanda alienazione religiosa.

 

Se la passione, che può pervadere persino il racconto del razionalismo (perché tale è necessariamente una buona storia dell’ateismo), non ci fa velo, diciamo che questa Storia di Georges Minois non deve mancare nella biblioteca della persona colta, direi meglio pensante, e non importa se e quanto credente. E va letta e meditata da cima a fondo, per scoprirvi fonti nuove e insospettate di conoscenza, per correggere stereotipi consunti e, perché no, per consolidare le proprie scelte di libertà.

 

(Per finire: l’Autore aveva quasi scommesso che non avrebbe tradito le proprie simpatie: «questo libro non ha alcun intento apologetico, né a vantaggio dell’ateismo né della fede» (p. 14); il lettore, giunto alla fine del lungo racconto, può dargli atto di esserci riuscito, e non è poco).