Editoriale

di Maria Turchetto

Cari lettori, Rieccomi qua. Non ho ancora perso il posto, nonostante le mie cattive maniere. Ma non mi faccio illusioni: se sono ancora qui è solo perché, mentre mi accingo a scrivere il mio secondo editoriale, voi il primo non lo avete ancora letto. L’Ateo n. 5/2004 vi è appena arrivato, state togliendo il cellofan, avete giusto sbirciato il titolo: Orgoglio ateo. Ed eccovi subito a brontolare, mi par di sentirvi: «perché solo ateo?, e gli agnostici?, e quelli che preferiscono definirsi laici?». Mai contenti, eh, razza di nominalisti! Via, dovevo fare un titolo, mica una mozione congressuale. Orgoglio ateo suona bene, secco e breve, bang!, un pugno in faccia, una fucilata. Orgoglio ateo, ma anche agnostico e pure laico… see, non posso mica permettere che i lettori comincino a sbadigliare prima ancora di girare la pagina di copertina! Però, ragazzi, sono proprio contenta che siate nominalisti, sapete? Vale a dire gente che pensa che soltanto gli individui concreti e le entità particolari sono propriamente reali, mentre gli “universali” sono solo nomi, appunto, convenzioni linguistiche con cui indichiamo il risultato di operazioni mentali di generalizzazione. Fateci caso: per i preti, per i mistici, per gli stregoni (e per certi filosofi che so io - vero professor Cacciari?) le parole sono sacre, magiche, potenti, intoccabili. Per noi miscredenti, invece, sono solo convenzioni: ecco perché siamo sempre lì a metterle in discussione, a verificare se c’è accordo nell’uso di un certo termine, a controllare le definizioni. Insomma le tocchiamo e le ritocchiamo, le buttiamo via se non ci piacciono, ne cerchiamo di più acconce e chiare se non ci convincono. Rischiamo di diventare petulanti, in qualche occasione, ma meglio così.

Ed eccoci qui con un congresso imminente: che occasione d’oro per questo genere d’esercizi con le parole! Guardate, la voglio cogliere anch’io, quest’occasione, e unirmi al coro dei molti che, in questi mesi, si sono messi a fare le pulci ai termini che abbiamo scelto per definirci: atei, agnostici, razionalisti. Vi va di sentire la mia personale interpretazione di questa piccola catena di parole? Per me, in effetti, le tre parole della nostra sigla sono logicamente concatenate e mi riconosco nell’intera sequenza; letta, però, al contrario. Sono razionalista, perciò agnostica, perciò atea. Sono razionalista, cioè m’affido alla sola ragione per conoscere, decidere, agire, orientarmi. So bene che ci sono limiti, cose che mi sfuggono e non posso controllare razionalmente, ma non ritengo di avere altri strumenti utili per stare al mondo: escludo che fede, magia, toccarsi le palle o raccomandarsi a Padre Pio abbiano la benché minima efficacia.

Faccio una parentesi - un po’ da prof, non me ne vogliate, deformazione professionale. È chiaro che sto usando il termine razionalismo in senso lato e generico - lo dico per rispondere a una mail circolata nei nostri circuiti, il cui estensore diceva di sentirsi stretto in una definizione che include Cartesio ed esclude l’empirismo. Beh, questo è vero solo se assumiamo il termine razionalismo in un’accezione ristretta e storica, quella che designa appunto la corrente di pensiero seicentesca capeggiata da Cartesio, la quale si è in effetti contrapposta all’empirismo sulla questione della priorità tra sensi e intelletto nella genesi della conoscenza. Ritengo che questa contrapposizione sia oggi superata, non solo nell’epistemologia scientifica contemporanea, ma anche in base agli sviluppi recenti delle neuroscienze, che hanno mostrato come il dato sensoriale sia ampiamente organizzato cognitivamente. Ma basta, non voglio farla lunga: volevo solo precisare a voi nominalisti sempre sul chi vive in che senso mi dichiaro razionalista.

Allora, dicevamo, sono razionalista - nel senso generico che mi affido alla ragione. Ora, la ragione si applica a oggetti ragionevoli: non posso argomentare razionalmente sulla natura della non-morte dei vampiri, sull’apparato digerente dell’ippogrifo, sulla taglia del reggipetto della Befana o sull’esistenza di Dio. Non posso argomentare razionalmente - e tanto meno verificare sperimentalmente - neanche la non esistenza di Dio, ma che me ne importa? é una questione vana, come diceva Kant spostando la faccenda della religione dall’ambito della ragion pura a quello della ragion pratica. È un’ipotesi non necessaria, come disse Laplace a Napoleone spiegandogli il principio d’inerzia. é una stupidaggine, come dico io. E in questo senso sono agnostica. Ma quale razionalista ha mai perso tempo a dimostrare l’inesistenza di Dio?

Lo chiedo a lei, prof Vattimo - scusatemi tanto, lettori, se vi trascuro per un momento, ma ho proprio un conto in sospeso con questo signore. Senta Vattimo, quelle che nel pio libretto Dopo la cristianità definisce «metafisiche positivistiche e storicistiche della modernità» - e so benissimo che con questi paroloni intende il positivismo scientista e il marxismo, non creda di fare il furbo con me - non si sono mai sognate di “negare Dio” nel senso di dimostrarne l’inesistenza, non hanno proprio mai perso tempo con questo genere di sciocchezze. Guardi, faccia un po’ quel che vuole, chiacchieri, pensi debole, creda di credere, legga e commenti le Scritture e reciti le devozioni postmoderne ma, per favore, non bari. Non racconti balle. Intesi?

Scusate, ragazzi, ma me le levano dalle mani. Rieccomi a voi. Sono razionalista, e dunque sono agnostica. é chiaro che sto sostenendo, in questo modo, un agnosticismo forte: non l’ignorabimus! un po’ timido di certi positivisti, non la sospensione del giudizio di fronte ai problemi metafisici o religiosi. Non penso affatto che ci sia qualcosa d’indicibile e d’altrimenti accessibile (attraverso la fede, l’esperienza mistica e vattelappesca) al di là della ragione: la ragione, certo ha i suoi limiti, ma al di là della ragione c’è soltanto “sragione”. Detto altrimenti, non attribuisco alcuna dignità ad atteggiamenti mentali diversi dal razionalismo. Orgoglio razionalista. Hybris, direbbero i preti - cioè superbia che offende gli dei. S’offendano pure. Noi, invece, facciamo un altro passo. Il ragionamento razionale rigoroso, la logica, ha tra le sue regole anche l’economia di pensiero. Una questione vana, un’ipotesi non necessaria, una nozione inutile non può rimanere in piedi. Si elimina. Ecco perché un agnosticismo razionale, come quello che ho prospettato, coincide con l’ateismo. Concordo pienamente con l’aforisma riportato da Giorgio Celli nel bel libretto (che vi consiglio vivamente!) Darwin delle scimmie: «Ateo è un modo aggressivo per dire agnostico; agnostico è un modo rispettabile per dire ateo». Ma su Darwin, sulle scimmie e su altri animali v’intratterrò nel prossimo numero. Vedete, ho qui alle mie spalle Baldo Conti, il nostro redattore capo (conta molto più di me!), che mi minaccia con un forbicione: non posso superare le 6.000 battute, dice, non ce la faccio neanche a salutarv… Zac!