di Daniela Di Pasquale
«Essa si raderà il capo, si taglierà le unghie, si leverà la veste che portava quando fu presa, dimorerà in casa sua e piangerà suo padre e sua madre per un mese intero; dopo potrai accostarti a lei e comportarti da marito verso di lei e sarà tua moglie» (Deuteronomio, 21, 12-23). Un ebreo che volesse sposare una schiava pagana doveva rispettare queste chiare condizioni. Ora, se mettiamo al posto della schiava la letteratura pagana che precede il Cristianesimo, avremo quello che san Girolamo (347-420 d.C.) considerava l’atteggiamento più corretto da tenere nei confronti della cultura pagana. Bisognava raderle il capo per emendarla da tutti i suoi errori, tagliarle le unghie della superbia, svestirla dei suoi caratteri anti-cristiani, isolarla per farle dimenticare la sua naturale origine mitologica.
Quella breve citazione è ben rappresentativa di tutta la mentalità che, sin dai primi secoli dell’epoca cristiana, ha caratterizzato gli intellettuali e i padri della Chiesa nei confronti della ricezione della cultura classica. Tutti, letterati e religiosi, condizioni che frequentemente risiedevano nella stessa persona, provenivano da quella cultura, avevano studiato sui testi di Virgilio, d’Ovidio, di Cicerone. Ne avevano appresa l’arte retorica e oratoria, il gusto dello stile, la costruzione narrativa, il sapiente uso di metafore e similitudini, in poche parole l’arte del bello scrivere. Il dissidio era evidentemente incolmabile, la condanna della Chiesa altrettanto inevitabile. Come potevano gli autori cristiani sviluppare la loro “scienza” sulle ombre e sulle orme d’autori peccatori perché privi della Grazia divina?
Dante risolse la questione riservando per i personaggi della classicità un posto tutto loro nel Limbo che precede l’Inferno, in una situazione di perenne attesa e sospensione, colpevoli di non aver amato il Dio cristiano, ma pur sempre grandi uomini da ammirare e riverire per la loro magnanimità e per l’esemplarità delle loro creazioni. Ma si accorgeva Dante di condannare secondo valori e dogmi cristiani individui, reali o fittizi, che ovviamente non potevano né amare né tantomeno conoscere il Dio dei cristiani, essendo nati e vissuti in epoche precedenti l’avvento del Cristianesimo? In sostanza per gli autori medievali il problema era enorme, ammirare o condannare i poeti pagani? Impadronirsi delle loro dottrine o saltare da una pagina all’altra cercando di scovare dietro le singole parole tracce pur minime di sentimenti pseudo-cristiani? Omero, modello poetico per eccellenza anche nel Medioevo, non poteva essere accolto tout-court con i suoi eroi mondani, i suoi dèi litigiosi e invidiosi, il suo Ulisse che abbandona gli affetti familiari per peregrinare attraverso il Mediterraneo. Come si conciliano tali aspetti con la virtus cristiana e con la fides religiosa che proclamano l’unicità e la superiorità di Dio, l’attaccamento ai valori della famiglia e del matrimonio? Ammirare i classici per l’arte stilistica e retorica o condannarli senza possibilità d’appello in quanto pagani senza Dio?
Per Sant’Agostino (354-430 d.C.) i pagani infedeli dovevano essere strappati a morsi dai lori errori millenari, come egli puntualmente scrisse: «Non so perché, io vedo più dolcemente i santi quando li concepisco come denti della Chiesa che strappano gli uomini dagli errori e, ammorbidita la loro durezza, quasi morsi ed ammansiti, li trasferiscono nel corpo di lei» (Agostino, De doctrina cristiana, II, VI, 7). È in questo modo che, per conciliare rispetto e timore nei confronti dei classici greco-latini, viene chiamata in causa l’allegoria, l’interpretatio, l’ermeneutica. In sostanza, gli autori medievali capirono che una cultura non poteva nascere dal nulla e, di conseguenza, i testi sacri della cristianità non potevano non avvalersi dei moduli e degli stilemi retorici della classicità, che li aveva inventati e adoperati con successo. Tuttavia questa procedura doveva essere fatta o considerando anacronisticamente gli autori pre-cristiani come portatori dei valori biblici ed evangelici, come avvenne per le opere di Seneca, quasi inconsapevoli pecorelle di Cristo ante litteram, oppure epurando i testi antichi d’ogni patina mitologica e pagana per mantenere validi soltanto i significati applicabili ai valori imposti dalla Chiesa. Entrambi questi procedimenti dovevano avvalersi di una fondamentale figura retorica: l’allegoria. Questa era la rappresentazione di idee e concetti sotto forma di simbolo; in altre parole ciò che esprimeva la “lettera” non era quello che si doveva intendere come suo significato. Il significato letterale andava traslato, andava portato nel mondo dei simboli, delle analogie, dell’interpretazione. Di conseguenza allegoria è «parlare d’altro: infatti una cosa suona e un’altra si capisce» (Isidoro, Etymologiarum sive Originum libri, I, 36, 22). Interpretare allegoricamente significava conciliare il valore della poesia omerica con la sconvenienza di certe vicende tra dèi addirittura comiche. L’allegoria era una sorta di travestimento che portò a indebolire l’importanza e il valore delle opere della classicità, considerandole come qualcosa di imperfetto, come fanciulli da riprendere per qualche marachella, un metodo per inventare, nel senso di cercare e creare, sensi cristiani riposti, invisibili, spesso del tutto assenti. Questo doppio gioco degli autori cristiani medievali per cui sotto il visibile doveva per forza stare l’invisibile, è stata una delle più grandi violenze fatte alla poesia antica. Dare all’autore intenzioni che non aveva, significare concetti che i poeti neanche immaginavano o forse osteggiavano, è profonda ignoranza e mancanza di rispetto.
Di fronte allo scopo di rendere accette teorie e vicende per cui i religiosi dell’epoca storcevano il naso, si è attuata una grande menzogna, si è varcato il limite d’ogni dignità poetica, si è attuata la crocifissione della fantasia pagana. Invece di esaltare la creatività e la ragione umana degli autori antichi, non si è fatto altro che imbrigliare le loro teorie entro le strettoie del dogmatismo cattolico che, se da un lato le sfruttava a fini didattici, dall’altro li mascherava da cristiani inconsapevoli. I testi antichi vengono visti come anticipazione e preparazione dell’epoca cristiana, e così il puer delle Bucoliche cantato da Virgilio, morto vent’anni prima della nascita di Gesù, è stato interpretato da molti autori cristiani come la figura di Cristo redentore, colui che avrebbe inaugurato quell’età dell’oro e della pace che doveva essere l’era cristiana.
«Il cristianesimo cancellò, come un giudizio universale, l’intero mondo sensibile con tutte le sue attrattive, lo ridusse a tomba, a uno scalino del cielo, e al suo posto pose un nuovo mondo di spiriti. La demonologia divenne la vera mitologia del mondo corporeo, e i diavoli entrarono negli uomini e nelle statue delle divinità come tentatori; tutta la realtà terrena era svanita in un futuro-in-cielo. Che cosa rimaneva ancora allo spirito poetico dopo questo crollo del mondo esterno? Quello in cui era crollato, il mondo interiore!» (Jean-Paul, 1783-1825; Preliminari di estetica, 1804). L’allegoresi cristiana, come si evince dalla citazione, era giunta a un tale livello di esasperazione nei confronti del mondo pagano e dei suoi miti, troppo giustamente famosi e diffusi tra i colti, che l’autore medievale del Romulus Nilantinus poteva tranquillamente prendersi la libertà di fare scempio delle semplici e pacate favole di Esopo, in modo tale che, poiché non poteva evitare che queste venissero utilizzate come manuale per l’insegnamento del latino in mancanza di altri modelli più adeguati, quell’antico autore pagano sembrasse possedere intenti cristiani, vista la naturale inclinazione di Esopo a spiegare la via per la quale si raggiunge il Bene. Come se l’ambito di esplorazione e di applicazione del Bene potesse essere solo una prerogativa cristiana.
Il processo di trasformazione della mitologia greco-latina in repertorio di modelli cristianizzati vide un passaggio fondamentale nel decadimento di quei miti a personificazioni. A nessuno doveva interessare più il contesto di riferimento delle vicende classiche narrate dai poeti antichi, non importavano più le filosofie che su quei miti si erano nutrite, tutto veniva ridotto a un nome-concetto come Virtù, o Prudenza, oppure Giustizia, che doveva rappresentare, fingere d’essere insomma, un vizio o una qualità della società e della morale medievale. Di tutto il patrimonio greco e latino pre-cristiano vennero estrapolati solo quei pochi concetti le cui caratteristiche fossero ben nette e definite, senza ingenerare dubbi o oscurità nei lettori medievali. Ad esempio, non bisognava fissare l’attenzione sul rispetto di Enea nei confronti delle sue divinità, rispetto che lo aveva indotto a compiere il suo viaggio verso l’Italia, ma solo sul concetto di subordinazione alla Provvidenza divina che si poteva trarre da quella vicenda, con buona pace dei lettori cristiani.
Gli dèi scesero così dai loro scranni dell’Olimpo per sedersi sulle panche dei monasteri e delle abbazie, silenziosi e immobili come le statue che li rappresentavano. Inoltre tutto doveva necessariamente essere semplificato, portato al livello di un pubblico di illetterati, affinché il messaggio morale potesse toccare gli strati più poveri della popolazione. In questo modo la complessità tipica delle figure della mitologia pagana venne ridotta a poco più di un significato, quello del nome che la rappresentava. La mitologia viene quindi ridotta a macchietta caratteristica di preordinate qualità da imitare o rifiutare, a seconda dell’ordine ch’esse occupavano nella costruzione e nella visione del mondo morale cristiano. E fu in tal modo che la poesia antica fu umiliata e degenerata senza rispetto, confinata nel ridicolo ambito delle narrazioni didattiche.
Virtù e Giustizia, Verità e Lealtà, Ragione e Amore, temi odissiaci e virgiliani, divengono fanciulle o ninfe dei boschetti nei romanzi cavallereschi, svestite d’ogni carattere divino, di quel tipo di divino da cui la cultura medievale voleva e doveva allontanarsi, in nome di un’altra divinità, meno tollerante nei confronti della fantasia di chi non aveva avuto altrettanto stolto ardire nel creare un solo essere superiore e onnipotente a comando del mondo, ma che, più ragionevolmente, aveva inventato una schiera di divinità a simboleggiare in fondo quelle che erano qualità e sentimenti umani. Ma non solo la morale dei miti viene ribaltata e sfruttata a proprio piacimento, anche le più famose figure della creatività omerica vengono tranquillamente destituite del loro significato originario, e così Venere nel Roman de la rose (1236) di Guillaume de Lorris è solo una dama pasticciona e irritante che non fa altro che portare scompiglio ovunque vada, oppure viene rievocata da Prudenzio (348-410 d.C.) nella Psycomachia attraverso la figura negativa di Lussuria, mentre Cupido non è altro che un vigliacco che «dat tergum fugitivus». Così nell’Anticlaudianus (1183) di Alano di Lilla (1115/28-1203) l’uomo moralmente perfetto deve fuggire Venere a gambe levate, quale vizio più opprimente e dannoso alla rettitudine umana, e nel Tesoretto (1261-1266) di Brunetto Latini (1220-1296) Amore è personificazione cieca, quindi insensata, e dalla quale la migliore soluzione è la fuga. Così Venere non sarà più la madre premurosa che soccorre il figlio Enea nel momento dello sconforto o il simbolo della bellezza e dell’amore tra gli esseri umani, dea che nelle sue sfere d’influenza può anche provocare esiti infelici, come nel caso dell’abbandono di Didone da parte di Enea nel IV libro dell’Eneide, data l’elaborazione della complessità degli eroi della mitologia pagana, articolati in fattori negati e positivi, caratterizzati a tutto tondo come personaggi altamente pregnanti e significativi, archetipi di qualità umane, indebitamente ridotti e semplificati dalla grettezza della mentalità medievale. Alano di Lilla nel suo De planctu Naturae (1160-1170) così trasforma i fatti e i personaggi mitici: «Elena rappresenta la bellezza, Turno l’ardire, Ercole la forza, Capaneo la grandezza gigantesca, Odisseo l’astuzia, Catone la temperanza, Platone lo spirito splendente, Cicerone l’eloquenza, Aristotele la filosofia. Come esempi del falso compaiono inoltre Tersite, l’amante Paride, il menzognero Sinone e gli antichi poeti romani Ennio e Pacuvio poco apprezzati dagli augustei».
La semplificazione, e ridicolizzazione, che opera l’ermeneutica cristiana non ha voluto tener conto del valore estetico che rivestivano quelle figure esemplari per gli antichi, arrivando persino ad accomunare virtù cortesi a personaggi classici di contro all’exemplum dato dai valori cristiani. È su questa linea direttiva che Huon de Méry (1235) nel suo Tournoiement de l’Antéchrist crea un esercito cristiano contro cui Amore combatte al fianco di Fornicazione, Venere e Cupido, tutti rappresentanti dei disvalori medievali.
Ora, non vogliamo certo prendere per vere le favole mitologiche greche e latine, sarebbe come affermare l’esistenza di Pinocchio e la realtà del Gatto con gli stivali, ma ci pare d’obbligo concludere che l’operazione fatta dagli scrittori medievali nell’intento di cancellare d’un colpo tutta una cultura precedente in quanto non conforme a dogmi elaborati solo posteriormente rispetto quella cultura, è stato un tentativo bieco di censura più o meno velato che merita tutto il nostro biasimo. A prescindere dall’autenticità o meno di quelle dottrine e filosofie politeiste, dobbiamo ancora una volta riconoscere che la Chiesa cattolica - pur di affermarsi come unica e incontrastata religione - ha cercato di sterminare anche personaggi di carta, ha cercato di confondere significato e significante della poesia pagana, ha cercato d’inventarsi dietro le mitologie antiche sensi irreperibili. È vero anche che l’allegoria non fu invenzione dei cristiani, bensì di Aristotele, il quale la definiva “metafora continua” ma, per dovere di cronaca, bisogna anche sottolineare che Aristotele con l’allegoria voleva dare dignità alle finzioni poetiche e portare alla luce il loro senso più profondo, che non è proprio quello che hanno fatto i cristiani.
Ma se gli autori medievali si sono sentiti in diritto di stravolgere a più non posso le auctoritas pagane, se la loro attività ermeneutica è stata così prolifica di nuovi sensi e connotazioni, sia almeno consentito, oggi, a scrittori di fama mondiale come il portoghese José Saramago o Pier Paolo Pasolini, a registi cinematografici come Ciprì e Maresco, che tanto non avranno mai la forza di sovrapporsi e travestire la cultura cattolica, di esprimere la propria opinione nei confronti del messaggio cristiano, sia data loro la libertà di elaborare una nuova ermeneutica delle tematiche bibliche ed evangeliche, senza più condanne da parte del Vaticano, condanne che sanno ancora di Medievale.
Fonti
F. Bianco. Introduzione all’ermeneutica. Editori Laterza, Roma-Bari 1998.
A. Varvaro. Letterature romanze del medioevo. Il Mulino, Bologna 1985.
H.R. Jauss. Alterità e modernità della letteratura medievale. Bollati-Boringhieri 1989.
E.R. Curtius. Letteratura europea e Medio Evo latino. La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1995.