di Carlo Tamagnone
La relativamente recente uscita del volume L’ateismo alle soglie del terzo millennio di Anna Maria Tripodi (Urbaniana University Press 2001) mi offre lo spunto per ritornare sul tema dell’ateismo teoretico e della diffusa inconsapevolezza di che cosa significhi essere atei da parte della maggior parte degli atei stessi. Non che ciò abbia molta importanza in se stesso, poiché gli abusi e le arroganze della religione si possono combattere benissimo senza alcuna consapevolezza di che cosa sia l’ateismo: basta infatti, per questo, essere anticlericali. E, come validamente ha dimostrato la vicenda del crocifisso in aula di un paesino dell’Abruzzo, anche un musulmano fanatico può affiancarsi agli atei e gli atei allearsi a lui per perseguire dei fini legittimi, ma non si può fare a meno di rilevare che, paradossalmente, un’iperreligiosità intollerante e liberticida può servire per combattere una religione tutto sommato moderata rispetto all’Islam. Se un cristiano in Arabia Saudita o in Iran volesse l’abolizione in luogo pubblico di un simbolo coranico probabilmente rischierebbe la lapidazione sulla pubblica piazza, ma questa realtà è meglio dimenticarsela quando si tratta di appoggiare un imbecille che in una data circostanza può fare al caso nostro.
Non che io ritenga che la lotta civile contro il cattolicesimo non sia importante, penso infatti che soltanto portando colpi su colpi e con tenacia, e in ogni circostanza favorevole, all’impianto dottrinario e simbolico della religione (a cominciare dalla croce) sarà possibile attenuare l’invadenza di essa nella vita pubblica, ma ritengo ciò insufficiente. La “spallata” alla religione o la si dà sul piano teoretico o essa non sarà mai, se non per naturale collasso… ma ciò… tra molti secoli. Il fatto è che, come dimostra il libro della Tripodi, i teologi e filosofi cattolici sono attivissimi nell’analizzare le incongruenze e le negatività dell’ateismo esaminandole sul piano teorico, etico e psicologico, mentre gli atei si agitano sì per farsi sbattezzare e per togliere i crocifissi, ma non sono in grado di formulare uno straccio di impianto teorico per spiegare che cosa sia veramente l’ateismo e che cosa comporti sul piano filosofico ed esistenziale. Naturalmente tutto ciò alla Chiesa va benissimo, anche perché, come hanno rilevato filosofi cattolici del calibro di Maritain, Del Noce, Fabro o Gilson, l’ateismo “pratico” è una deviazione tollerabile e che non lascia tracce, mentre quello teorico “devasta”, poiché porta le sue ferite all’interno dell’impianto dottrinario.
Di questa realtà si era accorto molto bene il sommo Platone, che circa 2300 anni fa faceva una distinzione fra tre livelli di empietà: quella banalissima che consiste nel degradare la religione a superstizione, quella perseguibile che consiste nel vivere come se gli dèi non ci fossero e la “teorica”, quella così grave che va punita con una “ripetuta” pena di morte. Vale la pena di riportare il passo de Le leggi (Libro X) in cui egli affronta il problema, per capire una volta per tutte come da 25 secoli a questa parte l’unico e vero pericolo per la religione resti sempre lo stesso: il devastante ateismo teoretico. Così scriveva il padre dell’idealismo fornendoci una serie di precisazioni con le quali, oltre alla semplice e ingenua superstizione, distingueva due tipi di ateismo, quello [a)] tollerabile e facilmente debellabile (l’ateismo pratico) e un altro [b)] gravissimo e mortale per la religione (l’ateismo teoretico) (X, 908 d):
«E infatti l’uno [a)] sarà, quanto al discorso, pieno di libertà di parola sugli dèi, i sacrifici, i giuramenti, e, se non fosse punito, forse col ridere degli altri potrebbe rendere altri come lui, ma l’altro [b)] pensa come il primo e, d’altra parte, è stimato uomo di spirito, pieno di astuzia, ingannatore […]»
E dopo la sintetica definizione ecco le sue “proposte di legge” (X, 908 e):
«Ma per coloro che non obbediranno sia questa la legge sull’empietà: Se qualcuno commette empietà nelle parole e nelle opere, chi vi si imbatte difenda la legge e lo denunci ai magistrati; i magistrati che per primi ne avranno notizia lo portino davanti al tribunale […]»
La delazione, per il teorico della Virtù e del Sommo Bene, era una regola eticamente meritevole (più o meno come in tutti i regimi totalitari), ma non era tutto. La sanzione che il buon Platone prevedeva per i colpevoli di ateismo teoretico [b)] (X, 909 e) era qualcosa di decisamente “metafisico”: la tripla o quadrupla morte. Ma per quello pratico [a)] era più che sufficiente l’intimidazione e una lieve punizione: […] l’una [b)] è quella ironica e dissimulatrice e che commette errori che sono degni di morte non una volta sola, né due, ma di più ancora, l’altra [a)] che richiede l’ammonizione e insieme il carcere.
L’atteggiamento di Platone (mutatis mutandis) in fondo rimane anche quello della teologia contemporanea, che ha alle sue spalle l’esperienza degli ultimi tre secoli di confronto con l’ateismo. Questo è sempre tollerabile quando si limita a negare la divinità e a combattere le istituzioni religiose, ma diventa intollerabile e da distruggere con ogni mezzo ove si ponga come “alternativo” sul piano filosofico e apra un orizzonte esistenziale che prenda il posto della fede. Questo è il vero problema della religione, non di venire combattuta aspramente (il marxismo lo ha fatto con decisione e alla fine non ha fatto altro che il gioco della fede), ma di venire “sostituita” nel suo orizzonte esistenziale. Il problema è che noi siamo così permeati di idealismo (più ancora che di cristianesimo) che non ci accorgiamo neppure quando un idealismo camuffato propone una fenomenologia sociale dove lo Spirito Assoluto viene sostituito da un altro “assoluto” che gli si oppone.
La peculiarità delle ideologie, siano esse religiose o socio-politiche, è sempre quella di porre un accattivante e convincente quadro teorico che si distende tra un “bene” e un “male” assoluti, tra una virtù e un peccato, tra un fine ideale e salvifico da perseguire e un’alienazione destrutturante e malefica da fuggire. Poiché la “struttura” per l’ideologia è tutto, e una fenomenologia tra il necessitato e il volontaristico è quel che ci vuole per raccogliere le masse, siano esse ligie alla tradizione o di essa sedicenti distruttrici. In realtà l’idealismo è sempre colluso col misticismo e come Platone aveva una base pitagorica e orfica così Hegel vedeva nel neoplatonico e mistico Proclo un precursore del proprio panlogismo. E non si può non constatare che forse con le sole eccezioni di Kierkegaard, di Schopenhauer, di Nietzsche e del pragmatismo anglosassone tutta la filosofia europea del XIX e XX secolo tutto sommato si presenta come un tortuoso e ambiguo rimasticamento dell’hegelismo.
Se qualcuno ha potuto dire (credo Popper) che tutta la filosofia occidentale in realtà non è altro che una continua e gigantesca parafrasi della filosofia di Platone è perché la potenza dialettica dell’idealismo ha “incantato” le coscienze nei secoli non meno di quella trascendentalistica del cristianesimo. A ben vedere proprio l’apparentemente rivoluzionaria epistemologia di Popper sembra ridursi anch’essa, nei suoi ultimi esiti, a un appassionato e quasi devozionale ritorno alle verità eterne della filosofia platonica. D’altra parte, chi si accorge che sui banchi di liceo dove studiano i nostri figli un banale manuale di filosofia pluri-adottato (quello per esempio di Reale e Antiseri) sia uno concentrato di ideologia cristiana e idealistica? Chi si domanda perché nel primo volume di esso ci siano due pagine scarse dedicate a Leucippo e Democrito mentre ce ne sono trentacinque dedicate a Platone? Poco male, l’importante è che sparisca il crocifisso dalla parete di fondo.
In questo scenario culturale fideistico-idealistico l’ateismo spesso prende fischi per fiaschi e si vota ad ideologie anti-religiose che finiscono per configurasi come una nuova religione anti-sacrale. Può derivarne così un ateismo spesso querulo o sbruffone, aggressivo o pettegolo, che abbozza il suo incerto balletto intorno alla tomba dell’ateismo teoretico, nella quale ci stanno i Leucippo e i Democrito, gli Epicuro e i Lucrezio, concettualmente più vivi che mai e in attesa che qualcuno colga il senso della loro teoresi e ne faccia rivivere il pensiero in modo appropriato e moderno. «Attorno» dico, perché «sopra» ci stanno ben saldi il divino Platone allacciato con San Pietro che sorridono sornioni, perché sanno che nessuno tenterà veramente di scoperchiarla per rivisitare le basi teoriche dell’ateismo. Rischi per ora non ce ne sono, poiché l’ateismo «pratico», in ultima analisi, deve ancora sempre scoprire che cosa sia l’ateismo filosofico e che cosa sia l’orizzonte antropico che si apre a partire dalla libertà metafisica che esso realizza. D’altra parte, avvicinandoci alla modernità, l’idealismo hegeliano e i suoi derivati (neri o rossi che siano) possono ben far finta di combattere la religione, ma il loro impianto dottrinario e dialettico è solo di tipo sostitutivo e mai veramente rivoluzionario. Essi non svegliano l’ateismo, molto più spesso proprio lo addormentano.
Ma «gli atei non dormono affatto», direbbe qualcuno: infatti essi strepitano e si incazzano! “Incazzarsi” (scusate il termine) contro le arroganze della religione istituzionale è giusto e inevitabile, ma siamo poi sicuri che qualche volta con ciò non si faccia addirittura il gioco della religione? Mi spiego: l’importante per la teologia è che il problema di Dio rimanga sempre presente e vitale anche attraverso l’opposizione; ovvero: «parlate male della religione, ma per favore parlatene». E soprattutto: «lasciate che siamo noi a filosofare sull’ateismo» scrivendone libri e dotte trattazioni, poiché (in fondo) questo è “compito nostro”. E i filosofi cattolici non hanno torto, perché un ateismo puramente anti-clericale e che contesti la religione a partire da presupposti etico-politici si riduce a porre un problema da sempre “interno” alla religione (fin dall’epoca della Riforma) e non apre nessun altro orizzonte antropologico che la metta veramente in crisi. Peraltro, senza una Weltanschauung alternativa quand’anche sul piano pratico si riuscisse a eliminare la religione rimarrebbe sempre un vuoto pronto ad essere riempito da qualche pseudo-religione. La metafisica è sempre in agguato, come un parassita mentale pronto a insinuarsi e a proliferare in una qualsiasi nicchia esistenziale.
Vi è sempre un momento di crisi, del singolo o dei molti, in cui le domande metafisiche fondamentali riaffiorano: «che cosa sono?», «che cosa ci sto a fare?», «da dove vengo?», «dove vado?», etc. Per questo la religione e la metafisica hanno già dato le loro risposte da millenni ed esse continuano a «funzionare» benissimo nel proporsi come i farmaci ideali per le crisi dell’Homo sapiens. Le acquisizioni della scienza, molto spesso ambigue (basti pensare al Big Bang o alla meccanica quantistica) non sono sufficienti a mettere veramente in crisi le religioni. Esse riaffiorano potenti in tutti i momenti di crisi economica e sociale. Le difficoltà del vivere e del pensare sono le levatrici della religione, della trascendenza e del sacro, e in ogni caso sempre dell’“ideologico”. La storia su questo punto è eloquente. L’avvento del cristianesimo è possibile perché un genio ideologico come San Paolo è riuscito a fondere soteriologia messianica ed etica idealistica in un momento di profonda crisi economica e sociale del mondo antico. Ma il cristianesimo è anche impensabile senza quella parte della filosofa greca (platonismo e stoicismo) che aveva vinto la guerra concettuale contro il naturalismo atomistico. E l’onda lunga dell’idealismo e dell’evangelismo, fusi assieme fin da quando Paolo di Tarso si è inventato il Cristianesimo, è ancora trionfante oggi, all’alba del XXI secolo.
«Il lupo perde il pelo ma non il vizio». Gli auspici platonici per una repubblica dei filosofi dove tutto venisse razionalizzato e sistematizzato per il Bene Assoluto (il Dio delle idee iperuranie) hanno trovano riscontro nei concetti di nazione, di razza, di popolo, o di classe realizzati da Mussolini, da Hitler, da Stalin o da Pol Pot. Platone auspicava che i filosofi togliessero l’uomo dal buio della “caverna”, ma per poi rinchiuderlo nella sua idealistica “caserma”. Peraltro, lo “stato” di Hegel è alla base di tutte le concezioni totalitarie del XX secolo. I suoi epigoni di sinistra, animati dalle più nobili e umanistiche intenzioni, hanno pensato di superarlo, ma in realtà hanno finito per perpetuarne le premesse dialettiche e fenomenologiche. Hanno pensato di realizzare un contro-ideale rivoluzionario, ma non hanno capito che l’unica rivoluzione può solo essere quella di demolire il concetto metafisico dell’“idea” come verità: le verità fittizie che si pretendono foriere del bene assoluto sono sempre le becchine del bene possibile.
Ma di questa realtà, di questo sonnecchiare sui fasti e nefasti di un ateismo velleitario e incoerente sembra importare poco alla maggior parte degli atei. Sembra a volte che molti di essi ritengano più interessante spettegolare su preti pedofili o truffatori piuttosto che interrogarsi su una concezione del mondo e dell’esistenza atea in grado di mettere in mora il connubio idealistico-trascendentalistico che la religione porta e afferma. Ha allora ragione Jean Vernette quando sostiene in L’ateismo (Xenia 2000) che l’ateismo è ormai una cosa “datata” e che siamo ormai in un periodo storico post-ateo? Io spero di no, ma per smentirlo bisognerebbe anche essere capaci di dimostrare il contrario di ciò che lui sostiene. Purtroppo il “sonno” dell’ateismo è duro e continua a garantire il trionfo dell’idealismo e della religione. Qualcosa cui riferirsi a buon mercato si trova sempre per riverniciare di volta in volta le pareti dell’ateismo, ma ciò non servirà certo a cambiare le cose se non si lavorerà sulle fondamenta, anzi, ciò finisce sempre per favorire la continua palingenesi del sacro e dell’ideale. Il “gattopardo” Fabrizio nell’omonimo romanzo di Tomasi di Lampedusa diceva che in politica bisognava cambiare qualche cosa perché tutto restasse come prima. Lui non era ateo (più probabilmente un agnostico razionalista) né filosofo, ma bisogna ammettere che potrebbe essere assunto “analogicamente” come buon profeta sui destini dell’ateismo filosofico contemporaneo.
(N.d.R. Per chi fosse interessato alle ricerche di Carlo Tamagnone sulla filosofia, vedere Ateismo teoretico nel mondo antico).