Per una geopolitica della laicità

Parte prima: l’Europa e il resto del mondo

di Jean-Michel Ducomte, presidente della “Ligue de l’enseignement et de l’éducation permanente”, Tolosa (Francia)

La Francia si è recentemente offerta uno di quei deliziosi dibattiti che iniziano non si sa come, ma per i quali si teme una conclusione con la vittoria dei più rumorosi anziché dei più ragionevoli. La laicità, poiché è di questo che si tratta, s’imponeva nuovamente come condizione necessaria per la costruzione di un patto repubblicano tra individui giuridicamente uguali. Si poteva considerarla un’opportunità formidabile, visto che ai laici di sempre si aggiungevano, in uno schieramento più eterogeneo, i laici di domani, pieni di quella passione che caratterizza i neofiti. Sono state istituite due istanze di riflessione: prima, una commissione parlamentare di informazione, sotto la presidenza di Jean-Louis Debré, presidente dell’Assemblea Nazionale, sulla questione dei simboli religiosi a scuola; poi, una commissione più larga, sotto la presidenza di Bernard Stasi. Quest’ultima ha consegnato il suo rapporto l’11 dicembre 2003. Accogliendo soltanto uno dei suggerimenti avanzati, il 15 marzo 2004 il legislatore ha votato una legge che proibisce di portare segni ostensibili di appartenenza religiosa negli edifici scolastici.

Oggi la passione si è spenta e, in un modo più consensuale, la Francia ricorda che un secolo fa, il 9 dicembre 1905, veniva adottata la legge di separazione tra le Chiese e lo Stato, la quale costituisce, sul piano del diritto, la pietra angolare del modello laico francese. Ma, a meno di non voler dar prova di un orgoglio senza sfumature, la Francia non può vantare un’esclusività laica. Altri popoli, altri Stati, in seguito a storie particolari, hanno portato avanti una presa di distanza dal potere religioso, in modo tale che la ricorrenza del centenario della legge del 1905 ci autorizza a porre un’attenzione geopolitica sulla laicità. La questione è resa particolarmente interessante dal fatto che, al momento della ratificazione del trattato istitutivo della Costituzione europea, un certo numero di voci ha deplorato la scarsa laicità del testo.

Allargare lo sguardo ad altre realtà nazionali che sono abitualmente considerate laiche non è tuttavia sufficiente. Troppo spesso l’analisi del principio di laicità resta centrato su due questioni, certamente essenziali, ma non esaustive: quella della scuola e quella del rapporto tra Chiese e Stato. Sembra perciò utile interrogarsi sul contributo che il principio di laicità può portare alle sfide del mondo contemporaneo, ricco di complessità densa e temibile. Emergono nuovi chiericati, nuove questioni vengono alla luce, imponendo la ricerca di soluzioni.

Il modello francese

L’evocazione di un secolo di applicazione della legge 9 dicembre 1905 sulla separazione tra Chiese e Stato invita ad adattare lo sguardo per uscire da questa miopia un po’ soddisfatta di sé che ci porta a postulare l’esistenza di un’eccezione laica francese. Esiste certo, senza dubbio, una certa anteriorità storica del modello laico francese, che ha le sue radici nella rottura rivoluzionaria del 1789 seguita, nel corso del XIX secolo, da un anticlericalismo militante che ha alimentato e legittimato l’atteggiamento ferocemente ultramondano e chiuso della Chiesa cattolica in una posizione ostinatamente antirivoluzionaria. Il modello separatista francese sarebbe incomprensibile senza il soccorso dell’analisi storica, senza lo studio delle condizioni in cui emerse e poi si sviluppò la convinzione che vede nella separazione soprattutto uno strumento. La laicità francese fu, infatti, innanzitutto scolastica, e questo proprio perché la Francia si dava come prima missione la sottrazione della formazione spirituale al mondo clericale. Si trattava di un passo in direzione della secolarizzazione: contribuire all’educazione dei cittadini con un insegnamento affrancato da ogni riferimento dogmatico. L’ombra tutelare del messaggio di Condorcet, insieme al percorso militante portato avanti da Jean Macé nella Lega dell’Insegnamento, sovrasta il lavoro legislativo dovuto all’iniziativa di Jules Ferry.

La pertinenza del modello laico francese, articolato intorno alla separazione fra le Chiese e lo Stato, non va messa in dubbio: rimettere in discussione tale modello sarebbe un errore. Tuttavia le condizioni storiche della sua emergenza e le modalità politiche della sua attuazione non lo rendono automaticamente generalizzabile. Se vogliamo dotare la laicità di un’operatività consona alla sua portata universale, occorre essere attenti in permanenza tanto alle condizioni del suo sviluppo quanto alla singolarità delle situazioni nazionali che, utilizzando formulazioni spesso diverse da quelle francesi e partendo da contesti diversi, possono essere considerate come tante vie nella direzione della presa di distanza dal potere religioso.

Alla ricerca di criteri

La definizione di una geopolitica della laicità è necessariamente relativa. Ogni realtà nazionale è singolare e dinamica e le formulazioni usate nei diversi contesti non hanno necessariamente lo stesso significato, né la stessa portata. Quello che dicono i testi deve sempre essere confrontato con quello che rivelano le pratiche sociali. Non potendo stabilire una tipologia precisa delle tendenze principali che caratterizzano le modalità di organizzazione della relazione tra il potere religioso e il potere dello Stato nelle varie zone del mondo, si è preferito identificare alcuni criteri rivelatori degli indici di laicizzazione. Compito al tempo stesso indispensabile e difficile, a causa della singolarità delle condizioni di emergenza della laicità.

È dal momento in cui si separa dalla società civile che lo Stato, come corollario, deve impedirsi di rappresentarne una parte, per importante che sia. Questa considerazione porta a stabilire un collegamento tra sviluppo della laicità e comparsa del modello politico della democrazia liberale, fondata sul riconoscimento dell’individuo, libero di usare i diritti di cui dispone allo stesso titolo dei suoi simili e, d’altra parte, cittadino investito del potere di legittimare il potere e di promulgare leggi, in virtù del suo voto. Per loro natura le dittature, in particolare quelle che esercitano la costrizione su presupposti di natura religiosa, come la Spagna franchista, i totalitarismi di qualunque ideologia e le teocrazie oscurantiste sono refrattari a ogni processo di laicizzazione. Il fatto che i totalitarismi di ispirazione staliniana abbiano cercato di sradicare la religione o di mettere al passo le Chiese - l’Albania di Enver Hoxha non si proclamava forse il primo Stato ateo del mondo? - non ci autorizza a parlare per loro di laicità.

Certamente l’evoluzione emancipatrice che rappresenta il cuore della laicità è figlia della modernità che prende forma durante il Rinascimento e si sviluppa con i Lumi. Questo fatto potrebbe suggerire che si tratta di una figura del pensiero europeo o occidentale. Dunque ci sarebbero, da un lato, realtà politiche refrattarie a ogni trasformazione in senso laico e, dall’altro, tendenze culturali favorevoli allo sviluppo della laicità. La realtà è al tempo stesso più complessa e più diversificata, tanto più che volgere l’attenzione alle realtà contemporanee non deve farci dimenticare le lezioni della storia, che ci mostrano il carattere insieme costruttivo e fragile della laicità. Così l’Iran degli anni 1920, il Portogallo del 1911 o la Spagna della Seconda Repubblica hanno scelto di attaccare il clero, ma le riforme operate non hanno resistito al peso delle abitudini e al ritorno della dittatura. Infine, la fondazione di una geopolitica della laicità non può limitarsi a misurare la concordanza esistente con l’esperienza francese che trae la sua origine dalla lotta anticlericale ed è caratterizzata da una separazione legale tra Chiese e Stato.

Se alcuni criteri possono essere identificati, conviene comunque usarli come indici piuttosto che come indicatori incontestabili. Questo vale in particolare per le indicazioni fornite dall’analisi dei testi giuridici. Infatti, se ci si concentra sulla presenza in essi del termine “laicità”, la raccolta risulta particolarmente modesta, dal momento che, a parte la Francia, soltanto la Turchia, il Messico e un certo numero di Stati africani francofoni come il Benin potrebbero utilmente entrare nel campo dell’analisi. Ancora, l’esistenza di una separazione tra le Chiese e lo Stato costituisce una condizione determinante? Bisognerebbe prima intendersi sul significato della parola “separazione”. Non c’è nulla in comune tra la separazione che organizza la Francia con la legge del 9 dicembre 1905 e l’interdizione, stabilita dal Congresso degli Stati Uniti con il primo emendamento alla Costituzione americana, di favorire la fondazione di una chiesa o di proibirne l’esercizio. Bisogna considerare le pratiche sociali? Il caso della Turchia, su questo punto, è rilevante: la laicità voluta da Mustafà Kemal come strumento di modernizzazione e occidentalizzazione del Paese ha dovuto continuamente lottare contro forti resistenze sociali che l’hanno spesso fatta apparire - è il colmo - come una costrizione più che come un fattore di emancipazione accettato. D’altra parte molti Stati, come i paesi scandinavi, conoscono una presa di distanza dalla religione che si è imposta nel corso di un’evoluzione verso la secolarizzazione mentre esisteva ancora una Chiesa di Stato. Ogni situazione nazionale o continentale deve dunque essere valutata a sé, alla luce dei processi storici.

L’Europa

L’Europa merita un’attenzione particolare. Dalla negoziazione del Trattato di Amsterdam all’elaborazione del testo istitutivo della Costituzione europea, le discussioni testimoniano inquietudini latenti. Anche se si può ritenere, come dice Edgar Morin, che la cultura europea sia portatrice di un progetto laico, la storia del continente permette di constatare lo spazio che il fenomeno religioso non ha smesso di occupare nella sua dimensione ideologica e istituzionale. La maggior parte delle rotture che l’hanno strutturata sono state di natura religiosa (Grande Scisma del 1044, Riforma, Guerra dei Trent’anni, Revoca dell’Editto di Nantes, ecc.). D’altra parte certe identità religiose hanno avuto un ruolo determinante nella nascita della coscienza nazionale. Così in Irlanda e in Grecia la religione cattolica in un caso, ortodossa nell’altro, hanno contribuito alla creazione di un’unità di fronte ad avversari con pretese imperialiste, l’Inghilterra da un lato, gli imperi austro-ungarico e ottomano dall’altro. La secolarizzazione, cioè la perdita di influenza sociale dei legami religiosi, ha conosciuto progressi diseguali nei diversi paesi. Nei Paesi Bassi è più intensa che in Grecia o in Portogallo. Infine, il carattere più o meno anticlericale del processo di laicizzazione ha generato in alcuni contesti una laicità militante, come in Francia e in Spagna soprattutto dopo le ultime elezioni legislative e la vittoria del PSOE (si veda la polemica suscitata dal riconoscimento del matrimonio tra omosessuali), altrove una neutralizzazione progressiva del potere religioso, come nei Paesi scandinavi.

Se ci si concentra sullo studio dei fondamenti del potere o sul regime delle libertà pubbliche, se si analizza lo statuto dell’insegnamento o le relazioni tra le Chiese e gli Stati, ogni situazione nazionale appare singolare. Certe costituzioni prevedono una separazione tra le Chiese e lo Stato, e tuttavia concedono alla religione un ruolo dominante, fino a farvi riferimento nella fondazione del patto sociale, come avviene in Irlanda. Altri paesi, come il Portogallo, praticano la separazione, ma le relazioni con la Chiesa cattolica sono sempre rette da un concordato. I Paesi di cultura cattolica hanno inscritto il loro cammino verso la laicità in una logica di lotta anticlericale, mentre i Paesi di cultura protestante si sono più volentieri incamminati verso la secolarizzazione. In un caso, occorreva lottare contro una potenza religiosa concorrente rispetto allo Stato e forte di un’organizzazione internazionale. Nell’altro, in presenza di Chiese nazionali, il processo si è configurato come un assottigliamento progressivo del ruolo della Chiesa. Esistono situazioni intermedie, come in Belgio, dove la laicità è considerata non tanto un fondamento dello Stato quanto una delle componenti ideologiche della società. Esiste un certo numero di Chiese di Stato, in Inghilterra, in Danimarca e soprattutto in Grecia. Non si può nemmeno sottostimare il posto che occupano le Chiese nei paesi che facevano parte del blocco comunista, in particolare in Polonia, Slovenia, Romania e Slovacchia. In questi Paesi le Chiese sono state spesso un rifugio per la dissidenza e accettano malvolentieri di rinunciare ai vantaggi della loro rivincita sul comunismo ateo. Inoltre l’erosione delle pratiche religiose tradizionali contribuisce al rafforzamento della laicizzazione. L’Irlanda ha introdotto il divorzio. In Svezia, dal 1° gennaio 2000, la Chiesa luterana ha perso il suo statuto di religione di Stato.

Ma l’Europa non può oggi essere presentata come una somma di storie nazionali. Nascono cooperazioni - l’Unione Europea ne costituisce la forma più avanzata - che influenzano le diverse situazioni nazionali. Nel 1949 il Consiglio d’Europa fu creato con la chiara volontà di farne un baluardo della coscienza democratica europea e del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tra le libertà proclamate e garantite da tale testo figura, all’art. 9, la libertà di coscienza e di religione, completata dal diritto di cambiarla.

L’Europa comunitaria è il risultato di un’ambizione di natura federale, basata sull’abbandono delle sovranità consentite dagli Stati che la costituiscono. All’inizio questo disegno era apparentemente neutro in termini di laicità: era soltanto un problema di liberalizzazione degli scambi commerciali. La trasformazione da Comunità a Unione Europea, con il Trattato di Maastricht, ha parzialmente modificato i termini della questione e imposto l’identificazione di una base di valori politici condivisi. Questa è stata naturalmente individuata nei principi di libertà, di democrazia, di rispetto dei diritti dell’uomo e dello Stato di diritto. Nel quadro dell’approfondimento di questa base iniziale, in occasione della negoziazione del Trattato di Amsterdam, il Vaticano ha chiesto che fosse riconosciuto un ruolo specifico alle Chiese. Questa rivendicazione, allora rigettata, è riapparsa in occasione della rielaborazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che, pur riconoscendo piena competenza agli Stati membri in materia di organizzazione delle relazioni tra Chiese e Stato, instaura il principio di un “dialogo aperto, trasparente e regolare” tra le autorità dell’Unione e le Chiese, le quali ne traggono un riconoscimento entro lo spazio delle competenze devolute alle autorità comunitarie.

Il resto del mondo

Nel resto del mondo, accanto a esperienze di laicizzazione che hanno radici nella cultura europea, a volte vissuta come eredità coloniale (essenzialmente nel continente americano), a volte più semplicemente considerata come un modello (è il caso della Turchia), esistono altre situazioni più specifiche, spesso prodotte da circostanze particolari. Ad esempio gli Stati Uniti e il Canada hanno definito, ciascuno a suo modo, le relazioni tra Chiese e Stato.

«Il Congresso non potrà emanare alcuna legge avente a oggetto la fondazione di una religione o la proibizione del suo esercizio», recita il Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. Non per questo è possibile includere gli Stati Uniti nella magra schiera degli Stati laici. In primo luogo, per ragioni d’ordine costituzionale legate al carattere federale del sistema politico americano. Per la Corte Suprema, i diritti enunciati dalla Bill Of Rights concernono i cittadini soltanto in quanto cittadini degli Stati Uniti e non degli Stati federati. Ora, la maggior parte dei cinquanta Stati federati fa esplicito riferimento a Dio nel preambolo o attraverso i giuramenti che i titolari di funzioni pubbliche sono tenuti a pronunciare. Questo riferimento è spesso accompagnato da restrizioni alla libertà di coscienza, fino alla condanna dell’ateismo. L’idea americana della separazione tra Stato e Chiese, inoltre, è molto diversa da quella francese: la separazione americana costituisce principalmente una garanzia per le religioni. A questo va aggiunto un fenomeno molto marcato di contaminazione religiosa della politica, che regolarmente si esprime nei discorsi dei leader. In God We Trust: è con questa formula, stampata sui biglietti di banca, che è stata diffusa nel mondo l’immagine di un’America sicura della propria potenza e delle proprie certezze. Le Chiese hanno preso atto molto presto dell’area d’intervento che il Primo Emendamento offriva loro. Lo usano con una strategia d’influenza politica e mediatica di cui è testimone il peso acquisito dalla corrente politica neo-conservatrice.

La situazione canadese è diversa, e si spiega con la singolarità di una storia segnata dalla conquista britannica della “Nouvelle France” nel 1759 che determinò una rottura con il dominio della Chiesa cattolica ereditata dall’ancien régime francese. L’anglicanesimo non cercò di imporsi in maniera egemonica, vista la sua posizione minoritaria. Perciò fin dall’origine la tolleranza religiosa, tra cattolici e anglicani, si è affermata come una componente essenziale della cultura politica canadese. La legge costituzionale del 1867, che organizza il Canada sul modello federale, non dice nulla sulla natura e l’organizzazione delle relazioni tra le Chiese e lo Stato, ma instaura una laicità implicita, basata sull’assenza di un finanziamento statale delle chiese, la libertà di coscienza e di religione essendo per altro garantita. Anche se fino all’inizio degli anni 1960 nel Québec era presente una forte tradizione cattolica, le autorità politiche sono state attente a non intervenire in campo religioso. In questo modo, l’evoluzione della legislazione verso il riconoscimento delle unioni omosessuali ha potuto verificarsi malgrado l’opposizione dei gruppi religiosi conservatori. L’esistenza di un forte attaccamento al rispetto delle libertà individuali, in particolare della libertà religiosa, ha portato a sviluppare “compromessi ragionevoli”, offrendo la possibilità alle autorità pubbliche e alle imprese private di prevedere regole finalizzate a tener conto dell’esercizio dei diritti delle persone appartenenti a minoranze, in particolare religiose.

Nel Messico le condizioni politiche e la pratica della laicità sono assai vicine al modello francese: stesso anticlericalismo che, a partire dal XIX secolo, permette di costituire una realtà autonoma; stesso approccio laico all’educazione, presentata, nella costituzione del 1917, come «assolutamente lontana da ogni dottrina religiosa e basata sui risultati del progresso scientifico». Tuttavia lo Stato, dominato dal Partito Rivoluzionario Istituzionale, si è comportato meno da guardiano dell’ordine pubblico che da effettivo regolatore dell’attività delle Chiese. La recente sconfitta di questo partito si è accompagnata a una forte rimobilitazione della Chiesa cattolica che cerca di ritrovare la propria influenza in materia di educazione e di influenzare la legislazione in materia di costumi e di status delle persone.

Meno conosciuta è la situazione in Brasile. Dall’indipendenza del 1822 è stata affermata la libertà di coscienza e di culto. Anche se la religione cattolica restava ancora religione di Stato, una pratica tollerante ha permesso ai culti minoritari di svilupparsi liberamente. La Costituzione repubblicana del 1891 ha organizzato la separazione tra Chiese e Stato. Elaborata alla luce delle idee del secolo dei Lumi e della filosofia positivista di Auguste Compte, non è tuttavia la conseguenza di una battaglia anticlericale. Non avendo mai smentito la realtà dei credi religiosi sul terreno istituzionale, non ha ostacolato il mantenimento di una religiosità profonda, spesso sincretica, nella società brasiliana.

In Turchia la laicità, componente essenziale della politica di Mustafà Kemal, si presenta come un fattore della modernizzazione e dell’occidentalizzazione della società, alla luce dei valori della Rivoluzione francese. Tra il 1922 e il 1924, il sultanato e il califfato sono stati successivamente aboliti e l’Islam ha perso il suo statuto di religione di Stato. Contemporaneamente sono state prese alcune misure per trasformare le mentalità. Così prende forma un insegnamento laico, ispirato al modello francese. La costituzione del 1924 dichiara che «lo Stato turco è repubblicano, nazionalista, populista, statalista, laico e rivoluzionario». Istituisce la libertà di coscienza e di culto. Il carattere laico dello Stato si è mantenuto senza interruzione, ma attualmente la laicità turca non si basa su un principio di separazione, né su una reale neutralità dello Stato: si basa sull’esistenza di un Islam nazionale sunnita, messo sotto il controllo di organismi direttamente legati al primo ministro. Gli iman sono salariati dallo Stato. Le altre religioni e le altre correnti musulmane sono libere di svilupparsi, ma si trovano in una situazione di reale inferiorità. La società turca, inoltre, resta impregnata da una cultura largamente influenzata dall’Islam.

Anche se la laicità appare per molti aspetti una componente della modernità occidentale, altri tentativi di presa di distanza dalle religioni si sono verificati in altri universi culturali, spesso legati a scelte congiunturali. È il caso del Giappone e dell’India.

Dopo la capitolazione del Giappone, gli americani imposero un sistema democratico e pluralista, la cui conseguenza principale fu far perdere all’imperatore le principali prerogative che discendevano dal suo status di divinità vivente. In realtà si trattò più di un abbandono del potere teocratico che di una reale laicizzazione. Del resto le speranze che nascevano da questa vera e propria rivoluzione sono oggi largamente smentite dal ritorno d’interesse che conosce lo shintoismo e dall’inquietante sviluppo di sette di ispirazione buddista.

Considerazioni simili s’impongono per l’esempio indiano. All’indomani dell’indipendenza, l’India scelse di dotarsi di un regime politico affrancato dall’induismo e dal sistema delle caste: si trattava essenzialmente di ridurre il potere dei bramini e di permettere a tutti i cittadini di accedere alle cariche pubbliche. La costituzione era fondata sulla «uguaglianza civile dei cittadini senza distinzione di sesso, casta, razza, religione, espressione e culto». Programma lodevole, la cui attuazione si è però sempre scontrata con la resistenza delle vecchie pastoie culturali e che non ha potuto arginare l’emergere di un integralismo induista con chiare pretese politiche.

Se l’allargamento dello sguardo permette di evitare di chiudersi in un modello esclusivo e dà la misura della fragilità delle conquiste laiche e dei progressi che devono ancora essere compiuti perché la laicità attinga concretamente quella dimensione di universalità che caratterizza la sua essenza, il discorso non è concluso. Se la questione dei rapporti tra potere religioso e potere dello Stato resta centrale, occorre interrogarsi sugli altri cantieri che la società contemporanea impone di aprire per dare piena efficacia alla laicità.