della
Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti - UAAR, in persona del suo Segretario nazionale Giorgio Villella, domiciliato ai fini del presente atto in via San Biagio 8, 35121 Padova,
contro:
Ministero della Istruzione, università e ricerca scientifica, in persona del Ministro in carica,
per l’annullamento
della nota 3 ottobre 2002, prot. n. 2667 e della direttiva 3 ottobre 2002, prot. n. 2666, del Ministro della Istruzione, università e ricerca scientifica, aventi a oggetto l’esposizione obbligatoria del crocifisso nelle aule scolastiche.
La nota 3 ottobre 2002, prot. n. 2667, esordisce affermando la vigenza delle disposizioni che disciplinano l’esposizione obbligatoria del crocifisso nelle aule scolastiche, disposizioni contenute nell’art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965, recante disposizioni sull’ordinamento interno degli istituti di istruzioni media, e nell’art. 119 del r.d. 26 aprile 1928, n. 1297, che detta il regolamento generale sull’istruzione elementare, nonché nella tabella C a quest’ultimo allegata.
Sommariamente richiamate pronunce e pareri resi da organi giurisdizionali e consultivi in ordine all’attuale vigore delle disposizioni in parola, la nota invita i destinatari del provvedimento a richiamare l’attenzione dei dirigenti scolastici sull’esigenza che sia data attuazione alle norme indicate mediante le iniziative idonee ad assicurare la presenza del Crocifisso nelle aule scolastiche e sull’opportunità di riservare appositi ambienti alle attività di raccoglimento e di riflessione, nel rispetto delle diverse convinzioni e credenze.
Con la direttiva prot. n. 2666, in pari data, il Ministro invita il competente Dipartimento del Ministero dell’Istruzione, università e ricerca a impartire le occorrenti disposizioni perché sia assicurata da parte dei dirigenti scolastici l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche e perché ogni istituzione scolastica, nell’ambito della propria autonomia e su delibera dei competenti organi collegiali, renda disponibile un apposto ambiente da riservare, fuori dagli obblighi e orari di servizio, a momenti di raccoglimento e di meditazione dei componenti della comunità scolastica che lo desiderino.
Dell’esistenza dei provvedimenti indicati in epigrafe la ricorrente Unione ha avuto notizia da un articolo pubblicato sul quotidiano La Repubblica il giorno 14 dicembre 2002 (doc. 3), mentre ha potuto conoscere il contenuto degli stessi soltanto in data 23 dicembre 2002, tramite la consultazione del sito internet www.edscuola.it, che riproduce il testo delle due circolari qui impugnate (doc. 1), le quali non risultano invece essere pubblicate nel sito del Ministero della Istruzione, università e ricerca scientifica.
Benché l’intenzione di adottare provvedimenti diretti a reintrodurre il crocifisso nelle aule scolastiche fosse stata preannunciata dal Ministro della Istruzione in risposta a un’interrogazione parlamentare alla Camera, le due circolari del 3 ottobre sono rimaste sconosciute all’opinione pubblica fino a quando non ne ha dato notizie il citato articolo di La Repubblica del 14 dicembre 2002. Prima di tale data, era ignoto il fatto stesso che il Ministro avesse già assunto delle determinazioni conformi alle intenzioni dichiarate alla Camera.
Sull’interesse legittimo e sulla legittimazione al ricorso dell’UAAR.
L’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti - UAAR, associazione costituita con atto n. 1925 di rep. not. Doria di Padova in data 27 marzo 1991 (doc. 2), ha per scopo statutario la riaffermazione e la difesa della laicità dello Stato italiano. Ogni atto o comportamento di una pubblica amministrazione che contraddica a questo carattere lede perciò l’interesse di cui l’UAAR è portatrice.
Trattasi di un interesse personale, perché riferibile direttamente a un soggetto: la ricorrente Unione, che ha per scopo proprio la tutela di quell’interesse. E si tratta di un interesse legittimo, perché può essere soddisfatto soltanto da un’attività in certa misura discrezionale della pubblica amministrazione.
Con analogo ordine di argomentazione, del resto, si è ritenuta la legittimazione delle associazioni ambientaliste a ricorrere in via giurisdizionale avverso atti e comportamenti omissivi delle pubbliche amministrazioni competenti a gestire gli interessi pubblici che a esse stanno specificamente a cuore. In questo tipo di interventi si iscrive pure il presente ricorso.
Gli atti impugnati provocano un pregiudizio alla ricorrente, perché - pur rappresentando istruzioni interne all’amministrazione - producono l’effetto di conformare l’azione degli organi gerarchicamente sottoordinati al Ministro in una maniera che è contraria all’imperativo costituzionale della laicità dello Stato, alla cui affermazione l’azione della UAAR è diretta.
I due atti contro cui l’UAAR ricorre appaiono illegittimi sotto molteplici profili, che si vanno a illustrare.
Incompetenza del Ministro della Istruzione, università e ricerca scientifica.
Stante la competenza regionale e quella dei minori enti locali in materia di edilizia e di arredamento scolastico, competenza riconosciuta già dagli artt. 83 e 85 del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, recante il testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado, e considerando altresì l’autonomia riconosciuta ai circoli didattici e agli istituti di istruzione secondaria in ordine alle scelte relative all’arredamento delle aule, non sembra residuare spazio per un potere di direttiva quale è quello esercitato dal Ministro con gli atti che qui si censurano.
L’incompetenza dell’organo statale si impone oggi direttamente in forza della legge cost. 3/2001, che conserva in capo allo Stato la potestà legislativa relativa alle Norme generali sull’istruzione (art. 117, comma 2, Cost.), lasciando per il resto alle Regioni l’intera materia della scuola.
Violazione di legge, data l’abrogazione delle norme poste a fondamento degli atti impugnati.
Il fondamento normativo della nota e della direttiva impugnate è individuato dall’autorità emanante in risalenti disposizioni regolamentari: il r.d. 30 aprile 1924, n. 965, ove si disponeva, all’art. 118, che ogni istituto d’istruzione media e secondaria avesse la bandiera nazionale, ogni aula il crocifisso e il ritratto del Re; e il r.d. 26 aprile 1928, n. 1297, che all’allegato C, indicava tra gli arredi e il materiale occorrente nelle varie classi della scuola elementare, accanto al ritratto del Re e agli strumenti didattici in dotazione alle varie classi (lavagna, pallottoliere, ecc.), anche il crocifisso.
Le disposizioni indicate, tuttavia, nella parte in cui prevedono l’esposizione obbligatoria del crocifisso debbono ritenersi incompatibili con la Costituzione repubblicana e pertanto da questa abrogate, esattamente come le norme che prevedono l’affissione nelle aule scolastiche del ritratto del Re.
Il punto è stato affrontato dalla Corte di cassazione, sez. IV penale, nella sent. 1 marzo 2000, n. 2925, Montagnana, in Foro it. 2000, II, 527, nella quale si afferma l’avvenuta abrogazione delle richiamate norme regolamentari che prevedono l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche per effetto del venire meno del loro presupposto, rappresentato dal principio della religione cattolica come religione di Stato. Dal momento in cui tale principio non è più in vigore - e il superamento di esso va ricondotto all’entrata in vigore della Costituzione o, comunque, al sopravvento dell’Accordo del 1984 di revisione dei Patti Laternanensi, nel quale si dichiara (nel preambolo del Protocollo addizionale) che le parti riconoscono di comune intesa non più vigente l’art. 1 dello Statuto Albertino - viene a mancare il fondamento logico delle norme che imponevano l’apposizione del simbolo.
Né varrebbe obiettare che, in virtù di una eterogenesi dei fini, queste disposizioni che facevano corpo con un principio che non appartiene più all’ordinamento giuridico possono trovare la loro giustificazione nella valenza della religione cattolica quale religione della maggioranza, con una conversione analoga a quella subita dalla nozione penalistica di «religione dello Stato». Il richiamo di questa ratio è precluso dal fatto che in materia di religione non vale l’argomento della maggioranza. Come ha avuto modo di ribadire ancora di recente la Corte costituzionale, «in forza dei principî fondamentali di uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (art. 3 della Costituzione) e di uguale libertà davanti alla legge di tutte le confessioni religiose (art. 8 della Costituzione), l’atteggiamento dello Stato non può che essere di equidistanza e imparzialità nei confronti di queste ultime, senza che assumano rilevanza alcuna il dato quantitativo dell’adesione più o meno diffusa a questa o a quella confessione religiosa (sentenze nn. 925 del 1988, 440 del 1995 e 329 del 1997) e la maggiore o minore ampiezza delle reazioni sociali che possono seguire alla violazione dei diritti di una o di un’altra di esse (ancora la sentenza n. 329 del 1997), imponendosi la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede quale che sia la confessione di appartenenza (così ancora la sentenza n. 440 del 1995), ferma naturalmente la possibilità di regolare bilateralmente e quindi in modo differenziato, nella loro specificità, i rapporti dello Stato con la Chiesa cattolica tramite lo strumento concordatario (art. 7 della Costituzione) e con le confessioni religiose diverse da quella cattolica tramite intese (art. 8)» (Corte cost., sent. 508/2000, in Giur. cost. 2000, 3968 s., relativa al reato di vilipendio della religione dello Stato).
Anche qualora non si ritenesse che le disposizioni regolamentari richiamate siano state caducate per il solo fatto del superamento del principio della religione di Stato, le medesime debbono ritenersi abrogate ai sensi dell’art. 15 delle pre-leggi, in quanto contrastanti con le norme costituzionali relative al fenomeno religioso, come si dirà subito.
È appena il caso di notare che non rappresenta in alcun modo un argomento a favore della vigenza delle disposizioni in discussione la circostanza - fatta valere dal Ministro - che esse non siano dichiarate espressamente abrogate o modificate dal testo unico sull’istruzione (d.lgs. 297/1994), che raccoglie soltanto le fonti di rango legislativo o dal d.lgs. 6 marzo 1998, n. 59, che ha a oggetto la dirigenza scolastica: tali atti, in ogni caso, non avrebbero avuto motivo di occuparsi di norme da considerarsi già abrogate in precedenza.
Violazione degli art. 3, 7, 8, e 19, Cost. e del principio supremo della laicità dello Stato.
- Il trattamento privilegiato accordato al simbolo di una determinata confessione religiosa appare incompatibile con il principio generale di eguaglianza, che assume proprio la religione tra gli indici specifici che non possono essere assunti a fondamento di disparità normative. L’imperativo di eguaglianza è ribadito, con riguardo alle confessioni religiose, anche nell’art. 8, comma 1, Cost., e pertanto anche questa disposizione risulta direttamente lesa dagli atti impugnati.
- La presenza di un simbolo religioso nelle aule delle scuole pubbliche configura poi una violazione del diritto alla libertà religiosa degli alunni. Anche senza bisogno di condividere la dogmatica fatta propria dal Tribunale costituzionale federale tedesco nella sent. 16 maggio 1995 (pubblicata in Quad. dir. pol. eccl. 1995/3, 808 ss.), che sviluppa dal diritto fondamentale alla libertà religiosa anche il profilo della «protezione dall’esposizione» (Konfrontationsschutz), non è difficile vedere come la garanzia di cui all’art. 19 Cost. tuteli direttamente anche il momento negativo.
- Sotto un diverso profilo, la violazione dell’imperativo di laicità dello Stato va ravvisata nella violazione del principio secondo cui lo Stato è incompetente in materia religiosa, non potendo riconoscere maggiore pregevolezza a un determinato credo rispetto agli altri. Assumere a proprio simbolo quello di una religione significa manifestare adesione a questa, preferenza che è preclusa, oltre che dal principio di eguaglianza in materia di religione, dalla regola della separazione tra ordine civile e ordine spirituale, affermata espressamente nell’art. 7 e implicita negli artt. 8 e 19 Cost.
A far salva la legittimità dei provvedimenti non è sufficiente la compensazione rappresentata dalla concessione di spazi di preghiera e di meditazione da offrire, all’interno della scuola ma fuori dagli obblighi e dagli orari di servizio, anche agli alunni appartenenti a culti diversi da quello cattolico. Altro è, infatti, la messa a disposizione di locali per attività extrascolastica, altro l’adozione di un simbolo che, assunto come proprio dall’istituzione-scuola, implica adesione e condivisione da parte di questa.
Il privilegio attribuito alla religione cattolica, o al gruppo di religioni di matrice cristiana, contrasta poi con il principio di laicità dello Stato. Questo, pur non significando indifferenza dello Stato innanzi alla religione, comporta però «equidistanza e imparzialità della legislazione rispetto a tutte le confessioni religiose» (Corte cost., sent. 329/1997, in Giur. cost. 1997, 3340).
Proprio facendo riferimento a questi parametri costituzionali la Corte costituzionale ha reputato illegittima la tutela più intensa accordata dalla legge penale ai simboli (e alle persone) venerate dalla religione cattolica, annullando pertanto l’art. 724 c.p. nella parte in cui punisce la bestemmia contro i Simboli e le Persone con riferimento esclusivo alla religione cattolica, con conseguente violazione del principio di uguaglianza (Corte cost., sent. 440/1995, in Giur. cost. 1995, 3482).
Né varrebbe obiettare che l’esposizione coattiva a un simbolo non rappresenta una lesione della libertà negativa di religione dei singoli, in quanto non costringe nessuno al compimento di atti di culto o all’adozione di comportamenti che possano contrastare con il proprio credo.
È la valenza simbolica - e dunque la specifica funzione che è propria dell’oggetto - a rappresentare un’intrusione nella sfera di libertà negativa del singolo; e se tale intrusione deve essere sopportata allorché l’esibizione simbolica proviene da un soggetto privato che esercita in questo modo la propria libertà di religione, lo stesso non può dirsi allorché sia un potere pubblico a esporre simboli religiosi in luoghi in cui il privato sia costretto a recarsi in osservanza di un obbligo giuridico. Del resto, accedere all’idea che sottoporre una persona a pratiche od atti religiosi non rappresenta una violazione della libertà di religione di costei, se non le è richiesta una partecipazione attiva, conduce alla conseguenza inaccettabile di ritenere legittima l’imposizione, da parte del potere pubblico, di celebrazioni religiose a soggetti che a esse non intendono assistere.
Certo un emblema rappresenta qualcosa di meno di una funzione religiosa: ma si tratta di distinzione attinente al grado e non alla sostanza.
La lesione della libertà di religione dei singoli a opera di istruzioni che pretendono di imporre l’esposizione del crocifisso va colta anche nella circostanza che esse promuovono determinate convinzioni religiose, reputandole implicitamente più pregevoli delle altre, con violazione del principio - discendente dall’art. 19 Cost. e dall’incompetenza dello Stato in materia di scelte religiose - della pari dignità delle convinzioni di coscienza.
Se lo specifico effetto dei simboli con cui l’autorità pubblica si presenta all’esterno è quello di svolgere una funzione di integrazione materiale nei confronti dei cittadini, nella forma della rappresentazione di contenuti di valore storico-attuali, come vuole una assai autorevole dottrina costituzionalistica (R. SMEND, Costituzione e diritto costituzionale [1928], Milano 1988, 102), è palese come tale compito non possa essere assolto da un emblema che rappresenta una parte soltanto dei consociati. L’adesione ai valori ai quali esso allude non può, infatti, che essere frutto di una scelta individuale e personalissima, che non può essere imposta, e nemmeno suggerita, dallo Stato.
Diverso, per esempio, è il caso della bandiera nazionale che è «espressione della dignità dello Stato medesimo nell’unità delle istituzioni che la collettività nazionale si è data» (così Corte cost., sent. 531/2000, in Giur. cost. 2000, 4167 s.) e che è l’unico simbolo che la Costituzione riconosce e tutela (art. 12 Cost.). E non a caso tutti i simboli dello Stato italiano - retto da una Costituzione che aspira a essere la «casa comune di tutti gli Italiani» - sono neutrali da un punto di visto religioso, perché in essi possano riconoscersi tutti i cittadini, in un’appartenenza che non discrimina.
A ben vedere, poi, il vero fattore di integrazione va ravvisato proprio nelle libertà, che permettono a ciascuno un’adesione convinta, priva di riserve mentali, all’ordinamento, in quanto esso consente a tutti l’esplicazione della propria personalità entro i limiti in cui questa non viene a collidere con quella degli altri; non invece in simboli che, per lo stesso motivo per cui aggregano taluni, escludono altri e creano divisione.
Violazione degli artt. 1 e 2 del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297 e dell’art. 33 Cost.
La nota e la direttiva impugnate, nella parte in cui invitano l’autorità scolastica ad assicurare l’affissione nelle aule del simbolo di una determinata confessione, sono incompatibili con gli art. 1 e 2 del d.lgs. 297/1994, che individuano la finalità dell’insegnamento, e quindi dell’istituzione scuola, nella promozione attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, della piena formazione della personalità degli alunni, nel rispetto della loro coscienza morale e civile e contrastano altresì con il principio obiettivo di libertà dell’insegnamento (art. 33 Cost.), che ne importa la neutralità e l’aconfessionalità. Lo svolgimento delle lezioni sotto il segno di una determinata confessione, invece, può indurre a pensare che l’insegnamento sia soggetto all’influenza di quella religione. Con considerazioni analoghe il Tribunale federale svizzero, I corte di diritto pubblico, sent. 26 settembre 1990 (in Quad. dir. pol. eccl. 1990/1, 352 ss.) ha reputato incompatibile con il carattere non confessionale dell’insegnamento, prescritto dall’art. 27, comma 3, della costituzione federale (e correlato alla garanzia della libertà di religione di cui all’art. 49 della carta costituzionale svizzera), di far appendere il crocifisso nelle aule scolastiche, adottata da un municipio: pur dando atto che il provvedimento dell’autorità poteva essere inteso come espressione dell’attaccamento alla tradizione e ai fondamenti cristiani della civiltà e cultura occidentale, il Tribunale federale ha osservato come lo Stato garante della neutralità confessionale della scuola pubblica non può avvalersi della facoltà di manifestare in ogni circostanza, nell’ambito dell’insegnamento, il proprio attaccamento a una confessione e deve evitare di identificarsi con una confessione maggioritaria o minoritaria, pregiudicando così le convinzioni dei cittadini con religioni diverse.
È appena il caso di dire che l’esigenza di serbare il carattere neutrale dell’insegnamento non è menomata della presenza nei programmi scolastici di autori ed eventi della civiltà cristiana, oggetto di studio storico-critico, bensì dall’adesione anche solo simbolica a un sistema confessionale.
Violazione del principio di imparzialità dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.).
La preferenza accordata al simbolo di una religione particolare appare poi - indipendentemente dalle considerazione svolte in ordine ai principi costituzionali in materia di religione - inconciliabile con il canone di imparzialità dell’azione amministrativa, che impone di serbare un’equidistanza rispetto a soggetti che l’ordinamento impone di trattare in modo eguale.
Non ignora il ricorrente che il Consiglio di Stato, sez. II, nel parere reso al Ministro della pubblica istruzione in data 27 febbraio 1988, n. 68, (in Quad. dir. pol. eccl. 1989/1, 197 ss.) in ordine agli effetti del superamento del principio della religione di Stato sulla permanenza in vigore delle norme sull’esposizione del crocifisso, ha affermato che il simbolo in parola è espressione di una tradizione culturale che non necessariamente va identificata con la religione cattolica.
Benché non possa essere contestato che, in astratto, l’apposizione del crocifisso nei locali pubblici possa essere giustificata con argomenti diversi da quello della religione dello Stato, è da segnalare che nell’ordinamento italiano l’introduzione del simbolo in parola non si lega affatto a una tradizione culturale, ma risponde - storicamente, ma anche attualmente - a un preciso intento religioso. Significativamente, è lo stesso Ministro ad affermarlo nella nota impugnata, in cui correla l’obbligo di esporre il crocifisso alla predisposizione di spazi di preghiera e per lo svolgimento di attività religiosa, manifestando quindi che l’ordine entro il quale intende muoversi è quello spirituale non quello della cultura e della storia. La stessa giurisprudenza, ai fini della repressione penale del delitto di offesa alla religione dello Stato mediante il vilipendio di cose di cui all’art. 404 c.p., ha sempre considerato il crocifisso come oggetto di culto della religione cattolica (si veda Cass., sez. III, 28 ottobre 1966; Pret. Roma, sent. 6 novembre 1980, in Rep. Foro. it. 1994, 5660, n. 2).
In secondo luogo, pur ammettendo che il crocifisso sia anche un simbolo culturale, ciò non toglie che esso obiettivamente conservi un significato religioso (disconoscerlo significherebbe ledere la libertà religiosa dei cattolici): e dal momento che ogni simbolo o cerimonia si presta a essere giustificato in modo laico (se non altro dal punto di vista antropologico), l’importanza culturale non è sufficiente perché alla collettività sia imposto un simbolo religioso. Anche laddove l’affissione obbligatoria del crocifisso perseguisse una finalità secolare, l’esibizione del simbolo avrebbe l’effetto immediato di favorire una confessione e di sfavorirne altre e implicherebbe una commistione eccessiva tra Stato e Chiesa, inconciliabile con la separazione dell’ordine civile da quello religioso.
Il parere citato del Consiglio di Stato, inoltre, risale a un’epoca in cui il principio costituzionale di laicità dello Stato non era ancora stato «scoperto» e in cui l’interpretazione giurisprudenziale del principio di eguale libertà delle confessioni religiose, di cui all’art. 8, comma 1, Cost., ne limitava la portata ai profili negativi della libertà stessa, di talché la tutela privilegiata e, in generale, i trattamenti preferenziali accordati a una confessione religiosa erano reputati non in contrasto con il principio medesimo. La successiva giurisprudenza costituzionale ha invece chiarito come l’eguale libertà vada estesa - salva la legittimità delle discipline derogatorie adottate ai sensi degli artt. 7, comma 2 e 3, e 8, comma 3, Cost. - anche ai risvolti positivi e promozionali, dal momento che il concetto costituzionale di libertà comprende anche la dimensione positiva, come si ricava dall’art. 3, comma 2, Cost.; a partire dagli anni Novanta, sono state così dichiarate incostituzionali, per violazione del principio dell’eguale libertà, le norme che prevedevano l’attribuzione di provvidenze economiche a talune soltanto delle confessioni religiose (così nella sent. 195/1993, in Giur. cost. 1993, 1335, che fa riferimento al principio di eguaglianza «nella sua più ampia accezione, comprendente la considerazione dei contenuti di libertà ’in positivo’ giusta la formulazione del secondo comma del citato art. 3»; nel medesimo senso si veda anche la sent. 346/2002, in Foro it. 2002, I, 2937 s.) e quelle che riconoscevano una tutela penale più intensa alla religione cattolica di quella accordata ai culti acattolici (cfr. le già citate sent. 440/1995 e 508/2000, aventi a oggetto rispettivamente il reato di bestemmia e di vilipendio della religione dello Stato; nonché le sent. 329/1997, in Giur. cost. 1997, 3338 ss., e 327/2002, in Foro it. 2002, I, 2941 s., che dichiarano l’illegittimità della diversa quantificazione della pena per il reato di vilipendio della religione e per quello di turbato delle funzioni religiose, a seconda che la condotta abbia a oggetto la religione cattolica o un culto diverso).
Per provenire possibili obiezioni giova sottolineare come sarebbe del tutto inconferente - a sostegno della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche - il richiamo all’art. 9, comma 2, dell’Accordo di revisione del Concordato, che dichiara i principî del cattolicesimo «parte del patrimonio storico del popolo italiano». L’affermazione, infatti, anche per il suo tenore letterale e per l’inciso in cui si colloca, ha la portata limitata di fungere da ratio giustificativa della permanenza dell’insegnamento religioso impartito nella scuola pubblica, che rimane comunque - per necessità costituzionale - facoltativo, e non è certo idonea a dare copertura a una confessionalizzazione dell’istruzione o dei comportamenti dell’autorità scolastica. Un’interpretazione estensiva del disposto evocato lo esporrebbe del resto a censure di legittimità per contrasto con principî supremi dell’ordinamento costituzionale.
Per i motivi esposti la ricorrente UAAR chiede che, in accoglimento del presente ricorso, siano annullati i provvedimenti impugnati indicati in epigrafe.
Padova, 11 aprile 2002
Il Segretario Nazionale dell’UAAR Giorgio Villella
Si producono i seguenti documenti:
- copia dei provvedimenti impugnati, reperiti sul sito www.edscuola.it;
- statuto dell’UAAR;
- copia dell’articolo pubblicato sul quotidiano La Repubblica il giorno 14 dicembre 2002.