L’UAAR ha aperto il sito www.icostidellachiesa.it dedicato alla stima aggiornata dei costi pubblici della Chiesa.
di Marcello Vigli
Fin dalla sua costituzione lo Stato italiano ha contribuito al sostentamento del clero cattolico «in cura d’anime» con un finanziamento pubblico, che si configurava come risarcimento per la perdita dei molti beni ecclesiastici da esso confiscati con le leggi cosiddette eversive. Lo Stato si faceva carico, in pratica, della volontà dei «fedeli», che con i loro lasciti avevano costituito il patrimonio delle chiese, sostituendo le rendite, che ne sarebbero derivate, con il suo contributo diretto al mantenimento dei parroci. Chiamato congrua perché integrava le offerte dei fedeli per renderle adeguate alle necessità delle parrocchie, tale contributo era progressivamente rivalutato senza più un rapporto reale con le rendite perdute.
La situazione non cambiò molto con i Patti Lateranensi del 1929 che, mentre con la Convenzione finanziaria risolsero definitivamente il contenzioso economico tra l’Italia e la Santa Sede, con il Concordato mantenevano il pagamento della congrua ai parroci in cura d’anime, non quindi a tutti sacerdoti. Convenzionalmente considerata ancora come restituzione dei beni ecclesiastici continuò ad essere rivalutata negli anni.
Il sistema è, invece, radicalmente mutato con l’Accordo del 1984 di revisione del Concordato, voluto da Bettino Craxi, e con la legge 222/85 di applicazione dell’intesa finanziaria in esso contenuta che configura un sistema di finanziamento pubblico affidato alla gestione della Conferenza episcopale italiana, Cei.
Non si tratta, infatti, di autofinanziamento, come si tentò di far credere in un primo momento, ma di autentico finanziamento diretto da parte dello Stato che copre non solo le spese del sostentamento dei parroci, come ai tempi della congrua, ma l’intera attività della Chiesa cattolica.
Per di più su tale modello si sono definite le norme di finanziamento delle altre confessioni religiose che hanno stipulato Intese con lo Stato italiano. Esse, eccetto l’Unione delle Comunità ebraiche, dichiarano, però, di non usare le somme ricevute dallo Stato per il mantenimento delle loro strutture, ma solo per attività assistenziali e culturali in Italia all’estero.
Otto per mille e deduzione fiscale
La suddetta legge 222/85 configura due forme di finanziamento.
La prima prevede la sottrazione dell’otto per mille del bilancio dello Stato alla giurisdizione del Parlamento per affidarne la destinazione alle scelte dei contribuenti, che quindi nulla pagano in più delle imposte dovute, la seconda prevede che i contribuenti possano dedurre dal loro imponibile fiscale un esborso diretto a favore di una confessione religiosa. Anche questo grava, ugualmente, sul bilancio dello stato sotto forma di «lucro cessante».
In conformità a questa normativa ogni anno una percentuale pari all’otto per mille del gettito complessivo dell’Irpef (non delle imposte di ciascuno), va alla Chiesa cattolica sulla base delle scelte dei contribuenti. Tale percentuale, in costante aumento per la diminuzione dell’evasione e per l’aumento dell’inflazione, è accresciuta dalla successiva ripartizione dell’ammontare annuo dell’otto per mille su cui non si sono esercitate scelte e che è ridistribuito, in base a quella percentuale, tra gli enti (Chiesa cattolica, Governo, e altre confessioni) che la legge prevede come destinatari dell’otto per mille. Nel corso degli ultimi anni solo il 45% degli aventi diritto hanno in media effettuato la scelta. Di questi circa il 75% ha destinato l’otto per mille alla Chiesa cattolica, a cui viene attribuito, grazie alla norma suddetta, la stessa percentuale della quota di quanti non hanno scelto.
Nei primi quattro anni (1989-1993), dopo l’entrata in vigore della nuova normativa, non essendo possibile calcolare l’entità delle scelte sono stati erogati ogni anno 406 miliardi di acconto, pari all’ammontare annuo della somma delle congrue alla firma dell’accordo, poi si sono avviati i versamenti regolari delle quote di pertinenza attraverso un complesso sistema di acconti e conguagli.
Per l’anno 1999 il finanziamento è stato pari a 1461 miliardi, 1.043 in acconto e 418 di conguaglio. Per il 2000 sono previsti 1.550 miliardi, 1.100 d’acconto e 450 di conguagli.
Dal 1989 sono stati erogati in tutto 9.408 miliardi, invece dei 4.060 se fosse restato in vigore il vecchio sistema, nel 2000 saranno 10.958 con la media annua di 1.000 miliardi.
Una seconda forma di finanziamento è costituita dal diritto, riconosciuto ai contribuenti, alla deduzione fiscale per le somme, fino a due milioni, erogate a favore della Chiesa cattolica o delle altre confessioni. Ne derivano contributi che nel corso degli anni, per la prima, si sono aggirati tra i quaranta e i quarantasei miliardi. Dal confronto tra il gettito delle due forme di finanziamento si può dedurre che quando si tratta di un esborso diretto i contribuenti sono meno generosi, non hanno mai superato il numero di 180.000 sui venti e più milioni di contribuenti.
Nella dichiarazione dei redditi del 1999 sono stati sottoscritti 42 miliardi. È difficile calcolare il lucro cessante per lo Stato, ma si può ipotizzare che si aggiri intorno ai 15 miliardi l’anno.
Finanziamento indiretto
Al finanziamento diretto alla Cei, si aggiungono altre forme di finanziamento che, seppure indirette, costituiscono pur sempre un onere per le pubbliche finanze in primo luogo gli stipendi dei ministri di culto (insegnanti di religione cattolica nelle scuole e cappellani nelle caserme, nelle carceri e negli ospedali) impegnati per motivi pastorali in strutture pubbliche.
Gli insegnanti di religione cattolica nelle scuole pubbliche costano circa mille miliardi l’anno. Nell’anno in corso sono a carico del bilancio della Pubblica Istruzione precisamente 976 miliardi per circa 20.000 insegnanti: 1415 nelle materne, a coprire 33.969 ore, 7.996 nelle elementari, a coprire 175.912 ore, e 10.486 insegnanti nelle medie inferiori e superiori.
Essi, oltre a rappresentare un’ingombrante presenza confessionale nella scuola pubblica, costituiscono anche una riserva di operatori pastorali a disposizione delle diocesi. La pressoché piena discrezionalità delle curie diocesane nelle nomine e nelle conferme in servizio, mentre offre facili occasioni di favoritismi e di clientelismo, costituisce un forte strumento di pressione.
Gli stipendi dei cappellani militari, che recentemente sono stati estesi alla Polizia di Stato pur demilitarizzata, non raggiungono una cifra così elevata. Difficile è il calcolo del loro ammontare perché nei bilanci dei ministeri della Difesa e dell’Interno sono inseriti tra le voci concernenti le strutture finalizzate al benessere dei militari. Lo stesso si può dire per i cappellani delle carceri e degli ospedali.
È anche difficile, se non impossibile, valutare le somme che lo Stato non incassa per gli usi illegittimi delle forme di esenzione fiscale garantite alle attività e alle strutture destinate al culto. Queste, equiparate con la legge 121/85 alle attività culturali e assistenziali, godono di un particolare regime fiscale, esenzione dall’IVA e dall’imposta sui terreni. Va aggiunto il regime speciale di esenzione dall’Invim degli atti di compra-vendita di immobili di proprietà ecclesiastica. È innegabile che in questo regime sono facili le occasioni, che diventano tentazioni, di usare le finalità di culto come copertura di attività lucrative, pur se a maggior gloria di Dio. È facile che questo accada trattandosi di 16.500 istituti religiosi, 27.000 parrocchie e 16.000 enti di varia natura. Meno facile che siano indagati o perseguiti se si pensa alle difficoltà di far luce sulle attività finanziarie del cardinale Giordano, pur inquisito per fatti accertati di rilevanza penale, e se si ricorda l’omertà che ha coperto le vicende che hanno accompagnato la truffa dello Ior.
Possiamo aggiungere all’elenco la parte dei finanziamenti alle scuole private confessionali. Sono da respingere i tentativi di chiamarle «libere», perché in verità esse sono ideologicamente «orientate», o di assimilarle a quelle degli enti locali, non governative ma pur sempre pubbliche, perché la loro gestione è totalmente privata. Tali finanziamenti sono stati erogati fin qui in deroga alle leggi, mentre d’ora in avanti saranno legittimati, seppure in forma ambigua, dalla legge sulla parità scolastica approvata recentemente dal Parlamento. Si tratta della parte assolutamente maggioritaria dei 550 miliardi in essa stanziati per le scuole private dell’infanzia e per le scuole elementari. Per la media restano ancora fuori legge 10 miliardi pronti a moltiplicarsi legittimamente non appena le scuole confessionali cominceranno a chiedere e ad ottenere di diventare paritarie, cioè abilitate a svolgere «un servizio pubblico», con buona pace dell’articolo 33 della Costituzione.
Meno rilevanti, pur se significativi, i contributi statali alle Università confessionali cattoliche nel quadro di quelli attribuiti alle private.
A questo stesso capitolo vanno iscritti i contributi che le leggi regionali hanno fin qui concesso, e che si apprestano a concedere, agli alunni delle scuole private sotto forma di sostegno del diritto allo studio, in verità in applicazione del principio di sussidiarietà. Preferiscono erogare risorse a scuole confessionali, specie alle scuole per l’infanzia, piuttosto che incrementare l’istituzione di scuole pubbliche. Il Friuli, l’Emilia Romagna e la Lombardia sono all’avanguardia, ma, in diversa forma, anche le altre sono avviate ad imitarle.
Analogamente possono essere considerati costi le sovvenzioni erogate alle organizzazioni confessionali all’interno dei contributi che lo Stato sociale, Governo ed Enti locali - tanto vituperato se eroga pensioni o sostegno alla disoccupazione - distribuisce per promuovere cultura e qualità della vita. Dall’uso degli obiettori di coscienza alle convenzioni, un incontrollato flusso di risorse si trasforma in finanziamento pubblico di attività private con buona pace dei principi liberisti e del carattere «volontario» di molte delle organizzazioni assistenziali. A quelle confessionali cattoliche tocca una grossa fetta della torta. Esse sono la punta di diamante del rivendicazionismo che anima l’intero settore associativo.
Non per questo sono meno benemerite perché finanziate. Il loro impegno interviene in settori che lo Stato non può raggiungere o costituisce una supplenza in quelli in cui gli interventi pubblici, spesso malgestiti, sono poco efficienti. Si può dire, quindi, che tale esborso di pubbliche risorse non è del tutto a fondo perduto. Non si può neppure negare che i cappellani svolgano un utile servizio nelle carceri e negli ospedali, un po’ meno nelle caserme. Perfino 132 miliardi dello stesso otto per mille attribuito alla Chiesa cattolica quest’anno sono destinati ad opere assistenziali in Italia.
Anche dell’eccezionale finanziamento erogato dallo Stato in occasione del giubileo pari a 3.500 miliardi una parte è stata utilizzata per opere pubbliche d’interesse generale, pur se la maggior parte è stata destinata al rifacimento/ammodernamento di strutture ecclesiastiche. Ad essi si devono aggiungere i costi a carico dei bilanci statale o locali, relativi al servizio d’ordine, ai trasporti, al servizio pubblico radiotelevisivo, per consentire lo svolgimento e la spettacolarizzazione delle manifestazioni liturgiche e delle apparizioni papali. Solo alla fine dell’anno santo si potrà dire se hanno costituito un investimento redditizio o un gratuito contributo a sostegno del primato papale nella Chiesa cattolica.
Costi «politici»
Questo articolato e complesso sistema di finanziamento non è paragonabile con nessuno dei sistemi in vigore nei paesi europei siano i paesi scandinavi, i länder luterani tedeschi o l’Inghilterra, dove la chiesa è di Stato, siano i paesi cattolici come la Spagna, il Portogallo e il Belgio dove pure sono previste forme di finanziamento diretto alla Chiesa cattolica. In nessuno di questi ultimi, eccetto il Lussemburgo, si raggiungono forme così capillari di integrazione, con gravi conseguenze sul piano istituzionale, e livelli così elevati di deresponsabilizzazione dei fedeli nei confronti del mantenimento della loro Chiesa.
Si può, infatti, rilevare che, ai costi economici del finanziamento dell’apparato ecclesiastico cattolico, sono da aggiungere i riflessi negativi che esso ha sul piano istituzionale e politico.
In primo luogo c’è da rilevare che lo stesso meccanismo dell’otto per mille inquina il sistema istituzionale esautorando il Parlamento dalla gestione di una parte solo percentualmente determinata delle risorse ricavate dalle imposte, che invece devono essere destinate in conformità a precise norme legislative, affidandone la destinazione a singoli cittadini, per di più solo se contribuenti e dichiaranti. È leso con ciò un principio fondamentale dello stato democratico.
Per di più l’attribuzione alla Presidenza del Consiglio dei ministri della gestione della quota spettante allo Stato crea ogni anno un fondo di circa 150 miliardi di cui essa può disporre a discrezione. Il Capo del governo deve, infatti, solo indicare i criteri d’impiego in tempo utile perché il Parlamento possa esprimere il suo parere, obbligatorio non vincolante. Per di più non è svolta nessuna azione pubblicitaria per sollecitare i contribuenti, opportunamente informati, ad orientare le loro scelte verso lo Stato. Molti preferiscono astenersi nella scelta anche perché ignorano le norme, ribadite e precisate nel recente DPR 76/98, che vincolano il governo a destinare queste risorse, gestite fuori del bilancio ordinario, a precisi settori di impiego: la fame nel mondo, le calamità interne, l’assistenza ai rifugiati, la conservazione dei beni culturali.
In verità molti altri sono scoraggiati per l’uso distorto e discrezionale che ne hanno fatto i Presidenti del Consiglio. In generale sono stati dispersi in mille rivoli molti dei quali sono tornati a confluire verso strutture ecclesiastiche o organizzazioni confessionali. Talvolta le loro finalità sono state stravolte: Andreotti nel 1991 ha attinto al fondo per fronteggiare l’emergenza dell’immigrazione albanese di massa, e D’Alema otto anni dopo per finanziare la missione arcobaleno e la guerra «umanitaria» in Jugoslavia
Non meno negative sono le conseguenze che il finanziamento diretto dello Stato comporta nei rapporti interni alla Chiesa cattolica intesa come Comunità dei fedeli.
La Cei fissa annualmente l’ammontare lo stipendio mensile per tutti i sacerdoti, circa quarantamila, e lo eroga per intero a quelli che non hanno altre fonti di sostentamento. A quelli, che per la loro attività in strutture ecclesiali, o extraecclesiali percepiscono emolumenti, viene concessa una integrazione per raggiungere la quota fissata. Nessuna integrazione è dovuta a quelli che la raggiungono con il loro lavoro. Nel 1999 solo 103 sono stati a pieno carico, 36.509 hanno ricevuto un’integrazione, 3.200 sono stati autosufficienti.
In tal modo per tutti i sacerdoti cattolici, anche per i parroci, si conferma il ruolo di funzionari alle dipendenze della Cei dalla quale ricevono regolare stipendio: il suo Istituto Centrale Sostentamento del Clero paga i loro sostituti d’imposta. Con l’abolizione della congrua è venuta meno la pur limitata autonomia formale goduta dai parroci che, ricevendola direttamente dallo Stato, potevano esserne privati solo se formalmente destituiti dall’autorità ecclesiastica attraverso una procedura molto garantista.
Si può quindi affermare che la gestione dell’apparato ecclesiastico italiano si avvia ad diventare pienamente aziendalistica.
Questa concentrazione nelle mani della Cei dei poteri di gestione del finanziamento non aumenta solo il controllo sul clero, ma fa della sua Presidenza, del suo Presidente in particolare, un soggetto economico forte all’interno della comunità ecclesiale capace di condizionare anche le attività e gli orientamenti di gruppi e singoli per la discrezionalità di cui gode nell’elargizione di contributi. Si deve, infatti, tenere conto che solo 1/3 del finanziamento ricevuto come percentuale, in aggiunta alle scarse risorse ricavate dall’elargizione diretta, è impegnato per il sostentamento del clero. Restano circa mille miliardi da destinare a sostenere la pastorale nelle diocesi, ma anche le attività sociali, culturali e di comunicazione, locali e nazionali, a tutto vantaggio di una gestione autoritaria della comunità ecclesiale. La gerarchia cattolica, affrancata dalla necessità di essere sostenuta economicamente dai fedeli, si costituisce come un soggetto autoreferenziale e antidemocratico sulla scena politica italiana capace di egemonia nella società, anche per l’acquiescenza nei suoi confronti delle pubbliche autorità e di gran parte della classe dirigente.
Roma 5 giugno 2000