I quattro esperimenti che spiegano la religione, il nazismo e tanti altri fenomeni

di Raffaele Carcano

 

La psicologia della religione è una disciplina ormai affermata e sono tanti i ricercatori che realizzano studi veramente interessanti [1]. A mio avviso, però, gli esperimenti che meglio spiegano cos’è la religione non sono direttamente legati alla religione. E non sono nemmeno recenti. Ma sono stati ripetuti molte volte: i loro risultati sono dunque consolidati e ci mostrano quanta potenza è in grado di dispiegare una fede.

Il primo degli esperimenti fu condotto nel 1954 da Muzafer Sherif a Robbers Cave, nell’Oklahoma. Portò degli undicenni in un parco e li divise in due gruppi, le Aquile e i Serpenti a sonagli. Li dotò di simboli e li mise in competizione serrata. Dopo pochi giorni il senso di appartenenza aveva già prodotto risultati eclatanti, facendo dilagare il pregiudizio, l’aggressività, l’odio, la violenza verbale e persino fisica nei confronti dei componenti dell’altro gruppo. Anni dopo Henri Tajfel mostrò che la suddivisione arbitraria di alcuni individui sulla base di differenze assolutamente risibili (quali una blanda preferenza per la pittura di Klee rispetto a quella di Kandinskji) genera comunque atteggiamenti di preferenza per chi ne fa parte e di discriminazione verso chi non ne fa parte. Abbiamo un’irriducibile tendenza a dividere il mondo in Noi e gli Altri (ingroup e outgroup, se vogliamo usare i termini tecnici della disciplina).

Nel 1956 fu Solomon Asch a condurre un esperimento destinato a dargli larga fama. In questo caso i partecipanti erano in combutta con il ricercatore: tranne uno, completamente all’oscuro della macchinazione ordita nei suoi confronti. Il compito assegnato consisteva nell’effettuare comparazioni tra una scheda con una sola linea e un’altra scheda che ne aveva invece tre, indovinando quale di esse era identica alla prima. Semplice, no? Il colpo di genio consisteva nel fatto che, a un certo punto, i complici cominciarono sistematicamente a dare la stessa risposta palesemente errata. Il partecipante al test che non faceva parte della combine, vedendo che tutti gli altri erano concordi nel dare una risposta errata, cominciò pertanto a uniformarsi, dando a sua volta la soluzione sbagliata (ma condivisa da tutti). Circa il 75% dei soggetti sottoposti all’esperimento tende a uniformarsi al parere della maggioranza, anche se è perfettamente conscio che la maggioranza sta sbagliando.

Cinque anni più tardi un allievo di Asch, Stanley Milgram, inventò un esperimento ancora più famoso (ne sono stati tratti un romanzo, diversi documentari e una canzone di Peter Gabriel). In questo caso l’ignaro partecipante veniva messo ai comandi di quello che gli veniva presentato come un generatore di corrente, in realtà inattivo. Un’altra persona, complice dello sperimentatore, era seduta su una sorta di sedia elettrica ed era chiamata a rispondere ad alcune domande. Quando sbagliava, lo sperimentatore chiedeva al partecipante di somministrargli scosse elettriche a scopo educativo. Anche quando la “vittima” fingeva dolore e implorava di finirla “l’insegnante”, incentivato dallo sperimentatore, continuava a somministrare le scosse, di intensità crescente. I risultati variano in dipendenza della distanza fisica dalla “vittima”, ma fino a due terzi dei soggetti testati arriva a rilasciare la scossa ritenuta più forte. Una sua variante più recente, di cui ha dato notizia il Journal of Personality di giugno, ha mostrato che le persone più facilmente disponibili a fare del male al prossimo sono quelle descritte come più coscienziose e gentili.

L’ultimo esperimento che voglio ricordare è quello condotto nel 1971 da Philip Zimbardo. Lo psicologo ricostruì nel seminterrato dell’Università di Stanford un carcere, e divise arbitrariamente i volontari in guardie e detenuti, con tanto di relativa divisa regolamentare. Le guardie furono dotate di manganelli e ricevettero l’incarico di assicurare a ogni costo la disciplina. Risultato: tutti si calarono nel ruolo assegnato loro. Le guardie si dimostrarono sempre più violente, i “detenuti” divennero remissivi e disturbati. L’immedesimazione era tale che si dovette interrompere l’esperimento [2].

Anche il film L’onda è basato su un esperimento (peraltro non molto documentato) che mostra come sia possibile far nascere dal nulla un’ideologia totalitaria nazista. Un esperimento più recente, molto succoso, è stato invece realizzato a cura dell’Università dell’Alabama. Ha coinvolto persone che dichiaravano di soffrire di continui attacchi di dolore. I ricercatori hanno detto loro che non potevano fare granché per alleviarlo, a parte dar loro pillole palesemente false. Ha funzionato. Pare proprio che l’effetto placebo dia effetti positivi anche quando è chiaramente all’opera. E che cercare di convincere le persone che qualcosa è falso sia veramente molto difficile …

A mio avviso, gli esperimenti di Sherif, Asch, Milgram e Zimbardo costituiscono però una sorta di pietra angolare. Ci mostrano la vera personalità degli esseri umani, ci insegnano che i loro meccanismi cerebrali li predispongono (o, per essere più precisi, predispongano la maggior parte di essi) a far parte di un gruppo che non hanno scelto, a calarsi nel ruolo assegnato loro in quel gruppo, a demonizzare gli altri gruppi e chi ne fa parte, ad adeguarsi al gruppo anche quando il gruppo è manifestamente in errore, a obbedire all’autorità anche quando l’autorità richiede comportamenti assolutamente ingiustificati.

Questi quattro esperimenti ci dicono tanto di tanti, se non tutti, i gruppi in cui si aggregano gli esemplari della nostra specie. Vale per un sindacato come per un partito, per un movimento ecologista come per l’Uaar. Sta dunque a chi ne fa parte avere la capacità di preservarlo dalle derive, possibili perché profondamente inscritte nel nostro Dna.

Anche una confessione religiosa è un gruppo organizzato. Tuttavia, è anche un gruppo in cui, nella stragrande maggioranza dei casi, si nasce e si muore, e in cui si passa il tempo a fare quello che fanno anche gli altri fedeli. Anche se si tratta di gesti orrendi. La differenza è di scala: nelle comunità di fede questi fenomeni hanno luogo in modo più potente che in qualsiasi altra tipologia di gruppo umano. Condividerne le convinzioni non è l’aspetto preponderante, anzi. Prevalgono di gran lunga l’identità e il senso di appartenenza.

Morale della favola: non pensate che basti scrivere un argomentato articolo su una rivista per far cambiare idea a chi fa parte di un gruppo religioso.

 

Note

[1] Per una introduzione alla disciplina consiglio per esempio questi libri: Benjamin Beit-Hallahmi e Michael Argyle, The Psychology of Religious Behaviour, Belief and Experience, Routledge 1997; Bernard Spilka, Ralph W. Hood Jr, Bruce Hunsberger e Richard Gorsuch, Psicologia della religione. Prospettive psicosociali ed empiriche, Centro Scientifico Editore 2001; Ara Norenzayan, Grandi Dei. Come la religione ha trasformato la nostra vita di gruppo, Raffaello Cortina 2014.

[2] Anche in questo caso sono stati realizzati diversi film sull’esperimento. Di Zimbardo vale tra l’altro la pena leggere il libro L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Raffello Cortina 2007.

Da L’ATEO 5/2015