di Graziella Priulla
L’uguaglianza tra i sessi è la partita del nuovo umanesimo: non il principio d’una guerra tra uomini e donne, ma il seme di un nuovo e più solido contratto sociale in un mondo più vivibile. E possibile uscire dalla rigidità imposta dal pensiero binario. L’impatto dei processi di cambiamento sociale potrebbe essere un arricchimento, l’occasione di ricongiungersi con dimensioni dell’identità a lungo soffocate.
Ciascuno di noi possiede all’interno della propria personalità una parte femminile e una parte maschile. Crescendo, svilupperemo una delle due in maniera predominante, continuando tuttavia a serbarle entrambe per far fronte agli adattamenti sempre più impegnativi che la vita man mano richiede. Così un uomo potrà giovarsi della sollecitudine e della tenerezza per accudire i suoi figli e dedicarsi alla sua compagna, senza per questo svirilizzarsi. Così una donna, senza perdere in femminilità, potrà servirsi della sua parte maschile per affrontare una sfida professionale.
Tutto questo comporterà un arricchimento del rapporto con se stessi e con gli altri, e insegnerà ad amare senza trasformare in oggetto chi si ama (come fanno spesso gli uomini), e senza cercare la fusione con chi si ama (come fanno spesso le donne). Se il genere ha a che fare con il potere, poiché oggi i rapporti di potere tra gli uomini e le donne hanno iniziato a ridislocarsi, la nostra concezione del genere e le definizioni che ne diamo devono cambiare a loro volta. Il gender work è un processo in pieno sviluppo e comprende questo processo di riformulazione e trasformazione radicale.
Negli ultimi decenni molto è cambiato: ognuno lo sperimenta, con maggiore o minore consapevolezza, nelle relazioni private e intime, nei rapporti professionali e sociali, negli scambi, nelle condivisioni, nei confronti culturali e politici. Nelle donne giovani colpiscono l’energia, la libertà con cui si muovono nonostante le difficoltà: un’energia e una libertà che in altre generazioni erano state soffocate. Non abbassano più gli occhi, quando sono guardate.
Oggi la costruzione delle identità è più complessa e più ricca rispetto al passato, eppure in molti punti è ancora influenzata dalle antiche modalità di costruzione dei generi, e i capitoli che precedono l’hanno dimostrato. Viviamo in una società tecnologicamente avanzata ma molti sono ancora analfabeti sul piano comunicativo, emozionale, relazionale.
Se l’accesso agli approcci, al consumo, al godimento è alla portata di tutti, non altrettanto si può dire per la costruzione di relazioni positive, che richiedono tempo, sensibilità, risorse psicologiche, capacità di confronto, disponibilità all’ascolto e al mutamento di sé. L’amore si fa forse più facilmente, non meglio. Eppure, così come educhiamo l’intelligenza razionale, potremmo — con metodi opportuni — educare anche le altre forme di intelligenza, quali l’emotiva e la comunicativo-relazionale. Una libertà senza strumenti non è libertà.
Questo è il terreno in cui si gioca — nell’infinita varietà dei percorsi individuali — la qualità della vita degli uomini e delle donne: l’affermarsi di una nuova civiltà delle relazioni nella vita quotidiana, lontana per ambedue tanto dalla logica antica del patriarcato quanto da quella recente del mercato. Un modello univoco ostacola la democrazia e la crescita di tutti, e molti uomini se ne sono già accorti.
Per una parte di loro è però ancora difficile confrontarsi con il fantasma inatteso della libertà femminile. Il silenzio su se stessi è intimamente legato alla loro funzione sociale e al modello di soggettività connesso: per poter parlare del mondo, per poterlo governare, il maschile ha considerato necessario rimuovere il rapporto con le proprie emozioni, con le relazioni che ci costituiscono, con l’assunzione della parzialità.
Nel vocabolario maschile non ci sono mai stati i gesti e le parole per dire la paura e lo smarrimento, la fragilità e i desideri. Coloro che per millenni sono stati i dominatori del mondo da tempo non lo sono più, e oscillano tra gli orizzonti inediti, che li inquietano perché sono sconosciuti, e la nostalgia degli antichi privilegi e delle antiche certezze, che però li privavano di interi pezzi di vita.
Come si fa a riconoscere le proprie emozioni, a essere empatici verso gli altri, a crescere adulti sereni e responsabili, se fin da bambini non possiamo essere noi stessi? L’imperativo sii uomo non ha dato spazio ai gesti, alle parole e alle responsabilità della cura; ha voluto creare maschi che non solo “non devono chiedere mai”, ma non devono neppure rispondere alle domande di chi ha bisogno di relazioni. Questo imperativo ha in realtà creato figure maschili vulnerabili, sempre nella necessità di dimostrare la loro virilità. Il modello tradizionale è un feticcio non più proponibile, ma allontanarsene troppo è un rischio, mette in discussione la propria identità.
I ragazzi che vivono cercando di misurarsi con l’espressione dei desideri femminili, gli uomini che tentano di reinventare la propria relazione con i figli sono parte di un mutamento in corso che non ha ancora sufficiente visibilità, ma che si sta diffondendo. E nato un filone di studi volti a indagare e problematizzare la dimensione della mascolinità.
Oggi molti coltivano il proprio cambiamento nel modo di essere padri e compagni, nel rapporto con il lavoro, nell’incontro con l’altro sesso. Spesso purtroppo questo cambiamento resta invisibile, o viene interdetto dal potente strumento del ridicolo, quando non del sospetto omofobo di non corrispondere alle aspettative standard di virilità. E ancora troppo poco apprezzata e conosciuta la mobilitazione di uomini che hanno accolto il moltiplicarsi delle domande di altri soggetti, e in particolare delle donne, non come un limite al proprio potere ma come un’occasione per ripensarsi e ripensare il rapporto con il potere.
Stanno scoprendo ogni giorno, e in un numero di culture sempre maggiore, che la sofferenza che deriva dal tentativo di vivere all’altezza di livelli di virilità improponibili supera di gran lunga i vantaggi che ottengono. In altre parole, il patriarcato non è un problema solo per le donne. Sempre meno prigionieri dell’immagine di forza e autorità a ogni costo in cui erano stati ingessati dalla retorica ottocentesca e dai totalitarismi del Novecento, molti giovani maschi stanno ritrovando spontaneità e sicurezza. Non più costretti nel pesante obbligo del comando, stanno scoprendo la bellezza delle emozioni, e la possibilità di mostrarle anziché nasconderle.
I maschi “nuovi” coltivano l’autoanalisi; si interrogano sui danni derivati agli uomini stessi sul terreno della percezione di sé, del proprio corpo, della propria sensibilità e capacità di stare in modo pieno e soddisfacente nelle relazioni tra uomini e con le donne. Vogliono darsi la possibilità di differire da modelli di mascolinità imposti, vetusti e dannosi per la qualità della propria vita: non ne sopportano più i costi e le miserie. Con loro si rapportano le “nuove” donne: quelle che rifiutano l’assenza o la deformazione della memoria, lo scarso approfondimento, il rifiuto della complessità; che non si rassegnano all’eterodirezione, all’uso irriflesso delle parole, ai fraintendimenti e alle confusioni rispetto a quel che significa libertà.
Ciò che potrà accadere in futuro dipende da loro. Io spero che anche questo libro possa servire a stimolare qualche dubbio e a suggerire una voglia di cambiamento più profonda di qualche blando mutamento dei ruoli meccanici nei quali ci troviamo a convivere con l’altro sesso.
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Graziella Priulla ha insegnato Sociologia dei Processi Culturali presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Catania. Il brano che presentiamo è il capitolo conclusivo del volume “C’è differenza”. Della stessa autrice, e su analoghe tematiche, segnaliamo “Parole tossiche. Cronache di ordinario sessismo”, edito da Settenove nel 2014.
Da L’ATEO 1/2016