di Francesco Remotti
Per la vita sociale in Italia l’11 maggio 2016 è senza dubbio una data storica, avendo il Parlamento della Repubblica italiana approvato una legge che consente alle coppie di omosessuali di vedere riconosciuta la propria convivenza sotto forma di unione civile e quindi di acquisire in tal modo buona parte dei diritti di cui fruiscono le coppie eterosessuali unite in matrimonio. Non è questa la sede per prendere in considerazione il faticoso iter di questa legge, né per analizzare in maniera circostanziata i suoi aspetti più innovativi, i suoi limiti, le sue carenze, i suoi profili più problematici. Qui ci limitiamo a rilevare che si tratta di una legge frutto di notevoli compromessi e che questi provengono da un lato dall’esigenza (tipica dei proponenti) di “avvicinarsi” il più possibile al quadro normativo che regola i matrimoni e le famiglie delle coppie eterosessuali e dall’altro dalla resistenza che gli avversari della legge hanno opposto al fine di “differenziare” il più possibile i diritti delle coppie omosessuali da quelli delle coppie eterosessuali unite ufficialmente in matrimonio e costituenti famiglie regolari.
Il compromesso tra le due tendenze si evince da alcuni aspetti significativi della legge, tra cui soprattutto (a) l’assenza di una regolamentazione circa la possibilità di adozione dei figli di un componente della coppia omosessuale da parte dell’altro componente; (b) l’assenza dell’obbligo di fedeltà tra i membri della coppia omosessuale; (c) l’assenza di termini come “matrimonio” e “famiglia”, sostituiti dalle espressioni “unione civile” e “formazione sociale specifica”, per descrivere la convivenza omosessuale regolamentata dalla nuova legge. Queste “assenze” vogliono infatti precisare che, per quanto le coppie omosessuali possano ora fruire — se unite civilmente — di buona parte dei diritti delle coppie eterosessuali unite in matrimonio e costituenti famiglie regolari, esse non potranno mai risultare sposate in un vero matrimonio e dare luogo a una vera famiglia: la diversità di terminologia lo attesta e lo sancisce in maniera inequivocabile.
Rimane vero però che, al di qua di questi accorgimenti di differenziazione, i diritti ora acquisiti, in buona parte identici a quelli delle coppie eterosessuali regolari, formano una notevole base di condivisione e di sovrapposizione tra le “famiglie” regolari per un verso e le nuove “formazioni sociali specifiche” per l’altro verso. Proprio per questo motivo gli avversari di questa legge manifestano intenti di soppressione della legge stessa mediante iniziative referendarie: per gli avversari le due configurazioni sono troppo simili tra loro e ciò che essi temono è che questa eccessiva somiglianza sia la premessa per un ulteriore e intollerabile avvicinamento. Aggiungiamo che gli avversari della legge — per lo più di estrazione cattolica — intravedono in questa paventata progressiva assimilazione il rischio di un pericoloso “snaturamento” della famiglia vera e autentica, la quale dunque va protetta e difesa da queste minacce di alterazione e contaminazione.
A motivare questo atteggiamento vi sono almeno tre presupposti di base: (a) l’esistenza di un’unica vera e autentica forma di famiglia; (b) l’idea che la nostra società sia, per merito o per fortuna, depositaria di questa forma di famiglia di per sé inalienabile; (c) la possibilità che sorgano qua e là, da noi, come nel resto del mondo e della storia, forme di famiglia spurie, solo abbozzate, inquinate, distorte e comunque inautentiche. Da questo insieme di presupposti scaturisce l’esigenza di stabilire, una volta per tutte, la forma autentica di famiglia e quindi di custodire e salvaguardare quest’ultima rispetto alle deviazioni e alterazioni che possono emergere nei più diversi contesti culturali.
Ai fini di ulteriore approfondimento, vorremmo ora offrire un’illustrazione di questa concezione della famiglia, prendendo in esame un editoriale di Francesco D’Agostino (professore di filosofia e teoria del diritto), pubblicato su Avvenire, in data 12 maggio 2016, il giorno successivo all’approvazione della legge in Parlamento. In primo luogo, egli manifesta delusione e rammarico per il fatto che non sia stata intrapresa «una “via italiana” […] limpidamente “non matrimoniale”» alla regolazione dei rapporti tra persone omosessuali, nonché timore che la nuova legge preluda a una «definitiva assimilazione “egualitaria” delle unioni gay a quelle coniugali». In secondo luogo, egli esprime la convinzione che, nonostante gli «stravolgimenti» a cui sono sottoposti dalla «secolarizzazione» imperante, matrimonio e famiglia siano tuttavia caratterizzati da una forte e indomabile «resilienza» [1]. Questa caratteristica sarebbe dovuta al fatto che «il matrimonio e la famiglia hanno un fondamento non meramente storico-politico, ma antropologico-strutturale». Matrimonio e famiglia non possono dunque essere ridotti a meri prodotti storici, variabili a seconda dei contesti culturali e delle vicissitudini sociali, in quanto affondano le loro radici nella struttura dell’essere umano. D’Agostino è ben consapevole che una considerazione di ordine storico ed etnologico ci porrebbe di fronte a una grande varietà di forme che matrimonio e famiglia possono assumere, e tuttavia «è convinto» che esse non siano altro che «variabili tutto sommato estrinseche», fenomeni superficiali, transeunti ed evanescenti rispetto a strutture solide e permanenti. È vero che noi oggi assistiamo — egli aggiunge — a «una colossale sperimentazione della possibilità di dar vita e consistenza a nuove relazioni interpersonali parafamiliari»; ma proprio perché si tratta di «sperimentazioni» inconcludenti a fronte di strutture «incredibilmente “resistenti” e resilienti», è inevitabile giungere a «condannare in modo conclusivo e inappellabile» questi sperimenti arbitrari e di superficie.
È importante rilevare che, pur scrivendo su un «quotidiano di ispirazione cattolica», come Avvenire si autodefinisce, D’Agostino non utilizzi nel suo editoriale alcun riferimento teologico: gli è sufficiente dare alla sua concezione di matrimonio e famiglia un fondamento antropologico, coincidente — come si è visto — con strutture permanenti e, per ciò stesso, universali della condizione umana. In linea con questa impostazione, è altrettanto significativo notare che egli presenta la sua argomentazione come una «lotta per la famiglia»: non però a favore della famiglia «tradizionale» (come molti amano dire), bensì a favore della famiglia «costituzionale». Si comprende bene come, non essendo matrimonio e famiglia meri prodotti storici, per D’Agostino sia del tutto fuori luogo fare appello a una famiglia tradizionale, che sarebbe pur sempre un’eredità legata a un passato particolare. Decisivo è invece il ricorso a una concezione costituzionale. E ciò in un duplice senso: da un lato, costituzionale rinvia alle strutture antropologiche che costituiscono l’essere umano; dall’altro, lottare per la famiglia costituzionale significa, per D’Agostino, difendere la famiglia quale viene definita dalla Costituzione della Repubblica italiana. Ciò significa allora che per D’Agostino anche la Costituzione italiana considera matrimonio e famiglia non già meri prodotti storici, ma strutture antropologiche permanenti, caratterizzanti la condizione umana a prescindere dalla variabilità culturale e dai condizionamenti politici. È così?
D’Agostino ci conduce a uno snodo di grande rilievo e alla necessità di prendere in attenta considerazione le implicazioni antropologiche della Carta costituzionale per quanto riguarda il tema cruciale della famiglia. Proviamo a rileggere l’articolo 29, limitatamente al comma iniziale: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». Come molti commentatori hanno rilevato, la preoccupazione dei costituenti nel definire la famiglia quale società “naturale” era quella di rivendicare la sua autonomia e la sua priorità rispetto allo Stato e alle sue ingerenze.
A settant’anni circa da quella formulazione, è importante adottare un approccio critico, con il quale si possono porre in luce almeno tre implicazioni. La prima è un presupposto sottinteso, condiviso — vi è da presumere — da tutti i costituenti, ossia che la famiglia, di cui si sostiene il carattere naturale, sia la famiglia monogamica e nucleare, quella costituita dai due coniugi e dai loro figli. Come concepire allora gli altri tipi di famiglia, a cominciare, per esempio, dalle famiglie poligamiche? Sono anch’esse naturali o rappresentano invece «variabili tutto sommato estrinseche», come direbbe D’Agostino, fenomeni culturalmente devianti, prodotti di costumi aberranti, di istituzioni storicamente superate, che non meritano in quanto tali particolare attenzione sul piano politico?
La seconda implicazione del dettato costituzionale è una sorta di contraddizione: se la famiglia è una società naturale, perché mai dovrebbe essere fondata sul matrimonio? Che cos’è infatti il matrimonio? Non già una semplice unione fisica tra un uomo e una donna, bensì un’unione riconosciuta e sancita dalla società, ovvero un atto squisitamente sociale e tipicamente rituale, uno di quegli atti per i quali vale appieno la formula “come fare cose con le parole” di John Austin [2]. Sostenere che tale rito — non importa se civile o religioso, né quanto semplice o elaborato esso sia — è a fondamento della famiglia getta un forte dubbio sul carattere naturale di quest’ultima.
La terza implicazione consiste nello scorgere nella definizione data dalla Costituzione una convergenza (una sorta, anche qui, di compromesso storico, è proprio il caso di dire) tra due visioni della famiglia in apparenza molto diverse, che definiremo in termini di presupposto naturalistico e di presupposto storico-stadiale (progressistico). Questa convergenza è del tutto evidente nell’argomentazione con cui Aldo Moro, durante i lavori preparatori della Costituzione italiana, faceva sua e reinterpretava la definizione di famiglia come “società naturale” avanzata da Palmiro Togliatti. Per Moro la famiglia, pur essendo una società naturale, con le sue leggi e i suoi diritti, conosce anche infatti «un suo processo di formazione storica», una sorta di perfezionamento nel tempo [3]. Il presupposto naturalistico, depurato da implicazioni storicistiche, è oggi difeso da autori cattolici come Francesco D’Agostino o come Roberto de Mattei, i quali si rifanno, su questo punto, ad affermazioni perentorie di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, e che si riconoscono nello slogan «la famiglia solo secondo natura», sbandierato nel Family Day romano del 12 maggio 2007.
Il presupposto storico-stadiale non è poi così lontano da queste posizioni. È il caso di rifarsi al fondatore dell’antropologia sociale e degli studi di parentela in antropologia, cioè all’americano Lewis Henri Morgan, il quale, dopo avere disposto lungo una linea di progresso vari tipi di famiglia, collocava la famiglia monogamica all’ultimo stadio, affermando che essa «è stata insegnata dalla natura attraverso il lento sviluppo dell’esperienza delle varie epoche» [4]. Utilizzando a piene mani l’impostazione di Morgan, Friedrich Engels considerava pure lui la famiglia monogamica come un momento terminale e il progresso successivo come un perfezionamento di questa acquisizione storica [5]. Che sia stata scritta da Dio nella natura umana — come sostiene il recente pensiero cattolico — o che invece sia stata acquisita per via storica, attraverso un processo lento e progressivo, la famiglia monogamica e nucleare viene comunque concepita come “la” famiglia tipicamente umana, incontestabile e universale.
Finora abbiamo visto come la concezione qui esposta, specialmente da parte cattolica, si configuri come una strategia difensiva: la famiglia nucleare — inevitabilmente monogamica e avente un’irrinunciabile funzione procreativa — ha da essere isolata e protetta rispetto ad altre forme che cercano un’indebita equiparazione. La famiglia autenticamente umana è una, una sola; non possono esservi altre famiglie all’infuori di essa. Come Dio, il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, che il Cristianesimo ha ereditato dall’Ebraismo: «non avrai altri dèi davanti a me» (Esodo 20, 3).
Come non ricordare, a questo proposito, che l’evangelizzazione a livello mondiale ha comportato non soltanto la diffusione dell’unico Dio con relativa distruzione degli idoli locali, ma anche l’imposizione dell’unica famiglia con relativa distruzione delle forme di famiglia indigene? E per sottolineare la più o meno segreta convergenza tra ciò che abbiamo chiamato presupposto naturalistico e presupposto progressistico, sarà bene fare presente l’analoga aggressività dei regimi comunisti nei confronti delle forme di famiglia giudicate arretrate, tipiche di stadi barbarici o comunque pre-moderni. Fin dal 1956 e con successive riforme e campagne di modernizzazione, la Repubblica Popolare della Cina ha voluto sradicare la tradizionale famiglia dei Na (provincia dello Yunnan, nella Cina meridionale), sostituendola con la famiglia nucleare, concepita come lo stadio più avanzato della storia della famiglia umana, simbolo delle conquiste del socialismo in campo famigliare [6]. Secondo le testimonianze raccolte da Cai Hua, i membri dei gruppi di lavoro inviati dal Partito Comunista «hanno disfatto a forza, una dopo l’altra, le stirpi [le famiglie tradizionali] che erano in buona salute», smembrandole e distruggendo la solidarietà dei loro componenti [7].
In effetti, la famiglia tradizionale dei Na era qualcosa di molto diverso dalla famiglia nucleare imposta da Pechino. Ne abbiamo già parlato abbastanza diffusamente nel nostro Contro natura [8]. Qui potremmo dire in estrema sintesi che (1) i Na, società a discendenza matrilineare, concepivano la famiglia come fatta soltanto di consanguinei, coincidente con il gruppo di fratelli e sorelle che coabitavano nella stessa casa; (2) questo gruppo famigliare (lhe) si riproduceva mediante la pratica delle “visite furtive” con cui amanti occasionali mettevano incinte le giovani; (3) questi amanti non potevano vantare alcun titolo genitoriale sulla prole; (4) i figli che nascevano erano allevati ed educati dalla madre e dai fratelli e sorelle di lei all’interno del lhe. Come afferma chiaramente Cai Hua, l’etnografo cinese che li ha studiati, i Na hanno inventato un tipo di famiglia, in cui sono del tutto assenti la figura del padre e la figura del marito: una famiglia che è comunque durata a lungo nei secoli e a cui i Na avrebbero voluto fare ritorno dopo lo sfacelo prodotto dalle politiche famigliari del governo centrale; una famiglia che — come si vede molto bene — non è affatto fondata sul matrimonio. Ma allora il lhe è davvero una famiglia?
Certo, «Carta vigente alla mano» (come direbbe D’Agostino) il lhe non sarebbe una famiglia. Ma chi può sensatamente brandire la Costituzione italiana — quasi fosse un trattato di antropologia della famiglia — per decidere se gruppi domestici di altre parti del mondo siano o no famiglia? Altra obiezione sarebbe quella di mettere in discussione la rilevanza del lhe: che importa a noi di uno strano gruppo domestico inventato da una sconosciuta popolazione in un angolo sperduto del mondo? Il fatto è che il lhe dei Na non è un unicum antropologicamente irrilevante, un’eccezione solitaria, di cui potremmo tranquillamente fare a meno. Nel mondo esistono altre composizioni domestiche che somigliano molto al lhe, come, per esempio, tra i Nayar del Malabar (India meridionale). Fin dal 1936 Ralph Linton, un antropologo americano, aveva messo in luce come esistano almeno due grandi tipi di famiglie: le famiglie “coniugali”, le quali si costruiscono effettivamente sulla base di matrimoni (sia essi monogamici o poligamici), e famiglie “consanguinee”, le quali invece si costruiscono sui legami di consanguineità — o per meglio dire, di co-discendenza — che intercorrono tra fratelli e sorelle. Linton non conosceva il caso dei Na; ma a proposito dei Nayar egli non aveva esitazione ad affermare che essi «non hanno posto per i padri e per i mariti nel loro sistema sociale», ovvero nelle loro famiglie [9].
Sotto il profilo antropologico, è sufficiente rendersi conto dell’esistenza di diverse regole di residenza, che determinano i vari tipi di famiglia. Nella nostra società prevale nettamente la regola della residenza “neo-locale”, che è a fondamento della famiglia nucleare; in altre società — come quelle dei Na, dei Nayar e di altre ancora — si impone invece la regola della residenza “nato-locale”: una regola semplice e tutto sommato anche plausibile, secondo la quale gli individui continuano a risiedere nella casa, ossia nella famiglia, in cui sono nati. Flavia Cuturi, che ha studiato in maniera comparativa questi casi, parla espressamente di famiglia congiunta natolocale, anche in assenza di matrimonio [10]. In antropologia è bene però guardarsi dall’uso di tipologie rigide. Così ci possono essere società che, pur adottando la regola di residenza nato-locale, praticano il matrimonio. Tra i Senufo della Costa d’Avorio un uomo sposa normalmente più mogli (poliginia); ma tutti i coniugi continuano a risiedere nelle proprie famiglie di origine, con i propri fratelli e le proprie sorelle, salvo il fatto che il marito fa visita di sera alle proprie mogli, una per sera, a turno: è l’istituzione del cosiddetto visiting husband [11]. Qui abbiamo senz’altro a che fare con un matrimonio, anzi con più matrimoni, a cui però non fa seguito una famiglia corrispondente.
Si potrebbe continuare in questo “giro lungo” tra le diverse forme di famiglia che le società umane hanno inventato e costruito: molti temi importanti emergerebbero al di là di qualunque esotismo. Qui però siamo costretti a concludere in maniera sintetica.
- Se si potessero bloccare gli antropologi nei loro giri lunghi e chiedere loro in maniera perentoria che cosa sia famiglia, è probabile che la soluzione migliore che ci proporrebbero sarebbe quella di rifiutare l’idea dell’esistenza di un nucleo. Sylvia J. Yanagisako ha affermato l’opportunità di «abbandonare la nostra ricerca di un nocciolo irriducibile della famiglia e di una sua definizione universale» [12].
- È normale che da ciò derivi un certo grado di disorientamento. Ma proprio nel campo della famiglia risulta molto efficace l’approccio che Ludwig Wittgenstein denominava come “somiglianze di famiglia” e che il filosofo austriaco applicava alla nozione di gioco. Ne abbiamo discusso a lungo in Contro natura [13], dove si è cercato di porre in luce l’opportunità epistemologica di “connettere” tra loro le diverse forme di famiglia mediante reti di somiglianze e differenze. Se aveva ragione Linton nel 1936, e cioè che non esistono solo le famiglie coniugali e tanto meno “la” famiglia nucleare e monogamica come modello a cui rapportare tutte le altre formazioni domestiche, allora ha senso fare nostro il principio di Wittgenstein: «Non dire: “Deve esserci qualcosa di comune a tutti, altrimenti non si chiamerebbero ‘giuochi’ [famiglie]” … se li osservi, non vedrai certamente qualche cosa che sia comune a tutti, ma vedrai somiglianze, parentele, e anzi ne vedrai tutta una serie» [14]. L’antropologo è colui che, nel suo giro lungo tra le società, intreccia i fili delle somiglianze e delle differenze tra le diverse forme di famiglia. Non si tratta di mero relativismo, e tanto meno di nichilismo, in relazione a questo atteggiamento: «tessere […], collegare, cucire, connettere» è il mestiere, non facile, ma proficuo, dell’antropologo, il quale è tenuto ad andare oltre i confini che ogni società impone alle proprie famiglie o alle proprie idee di famiglia.
- In Contro natura si è detto che il sapere che l’antropologo sviluppa nel campo della famiglia «deve comprendere non solo le famiglie [le varie forme di famiglia costruite dagli esseri umani], ma anche i modi mediante cui noi e gli altri “decidiamo” che cosa esse siano» [15]. È vero infatti che per noi, antropologi, così come per i Na, il loro lhe era indiscutibilmente famiglia, così come è vero che essi ammettevano la possibilità (perché no?) che un uomo e una donna potessero dare luogo a una famiglia a parte. Ma per il Partito Comunista cinese solo la famiglia nucleare, non il lhe, era “la” famiglia. Qualcuno, con il suo potere, ha “deciso”. In modo analogo, coloro che nella nostra società “decidono” che vi è, e non vi può essere che, un’unica forma di famiglia — nucleare, monogamica, eterosessuale — non possono sopportare che si costruiscano forme di convivenza (le unioni civili) che tendono ad essere equiparate alla famiglia. Il cardinale Bagnasco ha senz’altro ragione a cogliere le somiglianze tra le “unioni civili” omosessuali e le famiglie nucleari eterosessuali, al di là dei «piccoli espedienti nominalisti» e degli «artifici giuridici», così come coglierebbe forti somiglianze tra la famiglia costituita da due donne e le famiglie eterosessuali presso i Nuer del Sudan, o le famiglie di “due spiriti” (omosessuali) e le famiglie eterosessuali presso gli Indiani delle Pianure nord-americane [16]. Solo che per Nuer e per Indiani delle Pianure quelle somiglianze erano buone e andavano ricercate: erano vere e proprie “somiglianze di famiglia”, mentre per Papa Francesco, per il cardinale Bagnasco, per il filosofo D’Agostino e chissà per quanti altri cattolici quelle somiglianze sono intollerabili.
- Questa discussione ci conduce all’ultimo punto. Dopo avere compiuto un certo tratto del nostro “giro lungo” tra le famiglie in Contro natura, ci era sembrato di poter concludere nel seguente modo: «(a) ci sono società che ammettono […] una molteplicità di modelli famigliari al loro interno; (b) ci sono società che ammettono una pluralità e tuttavia stabiliscono una gerarchia tra i modelli; (c) ci sono società infine in cui si ammette un unico modello» [17]. A questo punto è stato inevitabile chiedersi: «“Noi” a quale di queste categorie apparteniamo, o decidiamo di appartenere?». Con la legge approvata dal Parlamento l’11 maggio 2016 potremmo dire di collocarci in qualche modo nella categoria (b), anche se parecchi autorevolissimi esponenti del mondo cattolico, a cominciare dal Sommo Pontefice, vorrebbero che ritornassimo alla categoria (c). Per completare il quadro delle possibilità — si diceva nel 2008 — occorre non dimenticare che esiste «una quarta categoria (d), quella delle società che non soltanto ammettono un unico modello, ma fanno di tutto per imporlo alle altre». C’è dunque anche «un imperialismo di “famiglia”», di cui siamo stati maestri presso di noi e presso gli altri, in tutto il mondo. Con quanti scempi istituzionali e con quanta sofferenza personale, forse è ancora tutto da valutare.
(In forma lievemente diversa, questo articolo è già stato pubblicato con lo stesso titolo nella seguente rivista: Archivi di Psicologia Giuridica, 5, 2016, pp. 161-170)
Note
[1] D’Agostino Francesco, L’approvazione delle unioni civili. Ora e sempre resilienza, in Avvenire, 12 maggio 2016, anno XLIX, n. 112, pp. 1-2.
[2] Austin John L., Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 1987 (How to do Things with Words, Clarendon Press, Oxford 1962).
[3] Cit. in Saporiti Michele Esiste la famiglia naturale?, Mimesis, Milano-Udine 2010.
[4] Morgan Lewis H., Systems of Consanguinity and Affinity of the Human Family, Smithsonian Institution, Washington 1871, p. 469.
[5] Engels Friedrich, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. In rapporto alle indagini di Lewis H. Morgan, Editori Riuniti, Roma 1963, p. 109 (Der Ursprung der Familie, des Privateigentums und des Staats. Im Anschluss an Lewis H. Morgans Forschungen, Verlag der Schweizerischen Volksbuchhandlung, Hottingen-Zürich 1884).
[6] Cfr. Cai Hua, Une société sans père ni mari. Les Na de la Chine, Presses Universitaires de France, Paris 1997, p. 290; Remotti Francesco, Contro natura. Una lettera al Papa, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 165-166.
[7] Cai Hua, op. cit., pp. 297-298.
[8] Remotti Francesco, op. cit., pp. 146-161.
[9] Linton Ralph, Lo studio dell’uomo, Il Mulino, Bologna 1973, p. 171 (The Study of Man, Appleton, New York 1936).
[10] Cuturi Flavia, I fratelli inseparabili. Conflitti tra natolocalità e matrimonio, Bagatto, Roma 1988, pp. 30-33.
[11] Remotti Francesco, op. cit., p. 160.
[12] Yanagisako Sylvia J., Family and Household: The Analysis of Domestic Groups, in Annual Review of Anthropology, VIII, 1979 (pp. 161-205), p. 200.
[13] Remotti Francesco, op. cit., pp. 102-108.
[14] Wittgenstein Ludwig, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1980, p. 46 (Philosophische Untersuchungen, Blackwell, Oxford 1953).
[15] Remotti Francesco, op. cit., p. 108.
[16] Ivi, pp. 168-193, 187-192.
[17] Ivi, p. 161.
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Francesco Remotti è professore emerito di Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Torino.
Da L’ATEO 2/2017