Conversazione con Patricia Marino su filosofia, sesso e piacere
di Stefano Bigliardi
Patricia Marino è Professore di Filosofia presso la University of Waterloo, in Canada. Si occupa di etica, epistemologia, filosofia del sesso e dell’amore e filosofia dell’economia. Ha conseguito il Dottorato presso la University of California, Irvine, nel 2002. È autrice di Moral Reasoning in a Pluralistic World (McGill-Queens University Press, 2015) e di numerosi articoli su temi come i dilemmi morali, l’ambivalenza, l’oggettificazione sessuale. Attualmente lavora a un libro il cui titolo provvisorio è The Philosophy of Sex and Love: An Opinionated Introduction. La professoressa Marino è l’esperta a cui ci siamo rivolti per fare il punto sul dibattito filosofico contemporaneo su sesso e amore [1].
Stefano Bigliardi (SB). Storicamente, quali filosofi, nella loro riflessione, hanno affrontato sesso e amore? Le loro idee in merito riflettevano la morale della società del loro tempo?
Patricia Marino (PM). Nella tradizione analitica occidentale, che è poi la stessa in cui mi pongo io, non molti filosofi hanno scritto apertamente di sesso. È sì vero che alcuni filosofi della Grecia antica discutevano il sesso insieme ad altri temi di rilevanza quotidiana, ma in generale, e per secoli, i pensatori in questa tradizione hanno avuto poco o nulla da dire sul sesso. Questo fatto ha sempre destato in me sorpresa e interesse, poiché le questioni che hanno a che fare con il sesso sono legate ad alcuni dei temi filosofici più importanti. Per esempio, la relazione tra ragione ed emozione, la domanda se a riflettere meglio il vero “io” di una persona siano i desideri o la razionalità, la natura dell’autonomia e dell’interdipendenza, la natura duale delle persone, che sono tanto individui quanto esseri sociali. Un’eccezione di tutto conto è, nel XVIII secolo, Immanuel Kant (1724-1804), il quale sviluppò un’articolata concezione della natura dell’appetito sessuale e del modo in cui il sesso è relazionato ai legami e agli obblighi del matrimonio.
Parlando in termini molto generali, prima del XX secolo il sesso, nelle culture occidentali, era letto attraverso concetti come “appropriatezza” e “castità”: il sesso tra un uomo e una donna sposati era considerato appropriato, tutto il resto no. La “castità” era ritenuta una virtù: la capacità di gestire i propri impulsi sessuali in modo da adeguarsi alle norme sociali. Il contesto sociale era patriarcale, e in larga misura la sessualità di una donna era concepita come di spettanza di suo marito, se sposata, o di suo padre, se nubile. Il matrimonio era l’unione di un uomo e di una donna, con la volontà di quest’ultima che però veniva per lo più assorbita da, e subordinata a, quella del marito. Per questa ragione, il concetto di violenza sessuale all’interno del matrimonio era visto come una contraddizione in termini, perché l’uomo aveva il diritto di fare sesso con sua moglie ogniqualvolta gli aggradava.
Storicamente, nella società anglofona lo stupro era definito come sesso forzato e contro la volontà di una donna. Questa per esempio era la definizione nei Commentaries on the Laws of England di William Blackstone (1723-1780), centrali nella tradizione della common law [il modello britannico, basato sui precedenti giurisprudenziali]. Le leggi sullo stupro facevano riferimento a segni ovvi di resistenza fisica vigorosa, e persino straordinaria, intesi come prove richieste per procedere legalmente contro un uomo. Il motivo? Si riteneva, generalmente, che una donna avrebbe sempre opposto una resistenza di facciata all’atto sessuale, e che a un uomo spettasse il compito di indurla a cedere. Le leggi e le norme sociali su sesso e consenso sono cambiate nel corso del ventesimo secolo. Con l’emergere dell’individualismo e del femminismo è diventata inaccettabile la negazione della personalità della donna: il suo diritto a gestire corpo e sessualità non ha più potuto essere negato. Si è arrivati a riconoscere che una donna sotto la minaccia di stupro non è tenuta a rischiare di essere ferita gravemente o di essere uccisa per dimostrare la violenza sessuale. E si è arrivati a capire che non si devono fare eccezioni per il matrimonio, cioè che lo stupro da parte del coniuge è pur sempre stupro.
Kant, notoriamente, aveva una concezione negativa del sesso. La sua etica sessuale probabilmente rifletteva la morale e la religione della sua società, con i loro obblighi. È famoso per l’affermazione secondo cui il sesso, inevitabilmente, comporta l’uso di una persona e la mancanza di rispetto verso quella stessa persona come essere umano. Solo gli inscindibili contratti matrimoniali valevano a rendere il sesso appropriato. Il suo modo di pensare si ricollega alla sua particolare concezione dell’appetito sessuale. Nel desiderio sessuale, a suo dire, una persona ne rende una seconda oggetto del proprio appetito e, una volta che la persona concupita sia stata posseduta, e che l’appetito sia stato soddisfatto, la persona in questione viene gettata via come si getta un limone dopo averne spremuto il succo. Tra le idee di Kant sul sesso, però, ne troviamo anche di moderne, o comunque non tanto negative quanto ci si aspetterebbe. Secondo lui il matrimonio non è importante per ragioni religiose, ma perché le protezioni legali proprie di tale istituzione obbligano alla cura reciproca, il che, a suo modo di vedere, è rilevante proprio in considerazione del fatto che il sesso, secondo lui, ci rende rispettivamente e reciprocamente vulnerabili. Gli obblighi matrimoniali agiscono da contenimento. La sua teoria, inoltre, anticipa quella sull’oggettificazione sessuale elaborata dalle femministe negli ultimi cinquant’anni.
SB. Com’è cambiato l’atteggiamento della società in materia di sesso? Ci sono filosofi che hanno apprezzato il sesso inteso come piacere?
PM. L’etica sessuale contemporanea tende sempre più a concentrarsi sul consenso e sul rispetto per l’autonomia. Le persone devono poter decidere da sole come e quando fare sesso. Quello che varia, però, è il grado in cui le società sostengono la libertà sessuale. La questione del piacere, a mio avviso, è più complicata. Almeno nella tradizione anglofona i filosofi si sono pronunciati soprattutto sui processi decisionali autonomi, sul modo di rispettarli e sui loro limiti, più che sul piacere in sé e per sé. Su quest’ultimo tema un precursore è stato Jeremy Bentham (1748-1832), uno dei primi sostenitori dell’utilitarismo, che scriveva nel XIX secolo. L’utilitarismo prescrive la realizzazione della massima felicità possibile per il massimo numero possibile di persone. Pur scrivendo nell’Inghilterra vittoriana, in cui gli omosessuali potevano essere giustiziati o vedersi rovinati da un tribunale e svergognati dalla società, Bentham si pronunciò a favore del sesso omosessuale. Il suo ragionamento procedeva così: era ovviamente un piacere per chi lo praticava, e apparentemente non causava danno a nessuno. E allora qual era il problema?
SB. Nella morale contemporanea qual è il ruolo del piacere sessuale? E come si relaziona il piacere al consenso sessuale?
PM. Nell’America del Nord, la relazione tra piacere e consenso ha teso a complicarsi, e in un modo che io ritengo interessante. Si nota che spesso le persone acconsentono a fare sesso anche se non sono motivate dal desiderio o non si aspettano di trarne godimento. Questo accade per le ragioni più svariate. Le donne possono sentirsi sotto pressione rispetto a una cultura in cui ci si aspetta da loro deferenza e compiacenza. Oppure possono concedersi perché gli uomini a cui si rapportano hanno il controllo dell’economia domestica. Gli uomini, dal canto loro, possono essere spinti al consenso dall’aspettativa sociale secondo cui essere maschio e desiderare continuamente il sesso vanno di pari passo. Ma si è fatto strada un nuovo concetto, quello di “consenso affermativo”: l’idea, cioè, che non è sufficiente avere il consenso del partner, ma bisogna avere anche buone ragioni di pensare che il partner vuole davvero fare sesso, che prova desiderio e piacere. Il consenso sessuale, in questo senso, dovrebbe essere “entusiastico”.
Si può dire che questa ridefinizione sia molto positiva. Troppo spesso, quando si pensa al consenso, si dimentica il piacere, specialmente quello femminile. La concezione a cui ho appena accennato ci ricorda che il sesso non è far sì che qualcuno faccia quello che tu vuoi che faccia, ma è un’interazione desiderata da tutte le persone coinvolte.
Per altri versi, però, trovo che l’importanza attribuita al desiderio (o, per esprimersi nel linguaggio di queste nuove teorie, all’“entusiasmo”) non colga completamente nel segno. Si fa sesso per molte ragioni, alcune delle quali buone, e che pure non derivano dal desiderio sessuale stesso. Per esempio, si può voler far l’amore con qualcuno perché ci sta a cuore e sappiamo che l’atto lo rende felice. E ancora, recenti ricerche empiriche sul desiderio nelle donne mettono in luce qualcosa di importante: non è detto che il sesso proceda sempre e comunque secondo le tappe desiderio-eccitazione-attività sessuale-orgasmo. Esiste il concetto di desiderio “reattivo” [responsive], ossia l’idea per cui a volte il desiderio emerge nel contesto dell’attività sessuale stessa: si parte freddini, poco convinti, ma poi il desiderio scaturisce dai baci, dalle carezze e così via, e aumenta. A una donna la cui sessualità segua questa dinamica non si applica la giustificazione del sesso solo sulla base di un desiderio iniziale e precedente all’atto. Il piacere e il desiderio sono complessi, non si prestano a una discussione senza sfumature.
SB. Il sesso è un tema filosofico importante?
PM. Certo che sì! Nessun’altra attività personale è, al tempo stesso, così rilevante per l’individuo, così centrale nella morale, e così altamente regolata dallo Stato. La cultura nordamericana è pervasa, quanto alla vita sociale, dal liberalismo. Si dà per scontato che gli adulti consenzienti che non stiano facendo male, direttamente, a qualcun altro, siano liberi di fare quello che gli pare. Ma questo principio non sempre è applicato al sesso. La domanda se il sesso sia speciale, e che cosa lo renda tale, è una domanda filosofica e centrale. Il sesso, inoltre, è al centro di alcune delle più accese dispute contemporanee tra culture. Basti pensare a quanto disaccordo ci sia (e a quanta violenza si scateni) attorno a temi caldi come l’indipendenza sessuale e l’autonomia delle donne, o l’eguaglianza e il rispetto per le persone LGBTQ+ .
SB. Lei su che temi lavora, e quali sono le sue posizioni filosofiche?
PM. Il mio lavoro si concentra sull’oggettificazione e sull’autonomia sessuale. Negli ultimi decenni, il concetto di “oggettificazione sessuale” è stato usato nei contesti più svariati, per esempio discutendo le rappresentazioni mediatiche, la moda, la pornografia, la prostituzione e il sesso occasionale. Si applica di solito al trattamento delle donne, in determinate società, esclusivamente o primariamente come oggetti sessuali, e ha una connotazione negativa, ma penso che la questione abbia molte più sfaccettature.
Ho già citato Kant, secondo il quale il sesso comporta l’uso di una persona e un non completo riconoscimento della sua umanità: un’idea apparentemente legata a quella di oggettificazione. Ma negli anni ‘70 e ‘80 teoriche del femminismo come Andrea Dworkin (1946-2005) e Catherine MacKinnon (1946) hanno affrontato il tema in particolare relazione alle donne: a loro dire, il problema non è il sesso in sé e per sé, ma il modo in cui la nostra società tratta le donne come oggetti, e che le danneggia profondamente. In particolare la pornografia, a loro modo di vedere, rafforza l’abitudine mentale degli uomini a considerare le donne come oggetti di godimento e non come persone complete, dotate di pensiero, sentimenti, e desideri propri. Più recentemente, altri filosofi hanno elaborato il concetto concentrandosi sulle pressioni sessiste esercitate sulle donne per fare sì che, quanto al corpo e all’aspetto, si conformino a determinati ideali sociali.
Secondo altri filosofi come Martha Nussbaum (1947) l’oggettificazione sessuale non è sempre un problema. Nel contesto giusto, l’essere trattati come oggetti sessuali può essere considerato positivo, come parte di una buona attività sessuale. E su questo sono d’accordo: a quanto pare l’attività sessuale, molto spesso, comporta un qualche tipo di oggettificazione o di uso, secondo modalità moralmente permesse e anche piuttosto allettanti: succede quando gli amanti sono talmente infiammati dalla passione che dimenticano, temporaneamente, l’umanità e la complessità dei partner. È una questione di contesto. Ovviamente la difficoltà sta nella domanda: qual è il contesto giusto?
Nussbaum pone l’accento sul rispetto reciproco nella relazione. Quando si ha piena consapevolezza e un apprezzamento completo dell’umanità di una persona non c’è niente di male nell’oggettificarla. Il problema sorge quando una persona è sempre e solo trattata come un puro oggetto. Nel mio lavoro mi concentro soprattutto sull’autonomia. La domanda è se una persona acconsente ad essere oggettificata, e in tal caso se le ragioni del consenso sono determinate dalla persona stessa o se sono il risultato di una pressione sociale o culturale. A mio modo di vedere una persona può scegliere di essere usata come un oggetto sessuale. Quando la scelta in tal senso è del tutto autonoma, l’oggettificazione non è un problema. È anche vero, però, che le pressioni socioculturali possono rendere impossibili le scelte autonome: è il caso delle società in cui le donne sono viste come meri oggetti sessuali e non hanno alternative: la pressione le priva della libertà di scegliere se farsi oggettificare o meno. Il contesto sociale è essenziale per decidere se un atto di oggettificazione è etico o meno. In generale, nella nostra società questo problema riguarda appunto le donne. Gli uomini hanno la possibilità di essere trattati come esseri umani in tutto e per tutto, di essere rispettati per i risultati che hanno ottenuto nella vita, ecc. In sostanza, per me il “contesto” è quello sociale, più che quello della relazione (posto che ce ne sia uno) tra le persone in questione. È per questo che nel mio lavoro affronto sesso e amore più come temi sociali e politici che come temi etici relazionati all’individuo.
Note
[1] Questa è la traduzione dell’intervista svolta via e-mail tra il 22 dicembre 2017 e il 28 febbraio 2018 (sono state necessarie diverse e-mail con aggiustamenti, ecc.). I messaggi originali sono a disposizione di chi sia interessato. Ringrazio la professoressa Marino per la pazienza e la disponibilità.
Da L’ATEO 5/2018