di Marirosa Di Stefano
Negli anni più recenti moltissimi studiosi delle scienze umanistiche e delle scienze sociali sono stati irretiti dalle sirene delle neuroscienze. L’idea veicolata dai media che con la risonanza magnetica funzionale (RMf) sia possibile vedere “il cervello al lavoro” mentre il soggetto esegue un compito motorio o mentale ha fatto credere che con questa tecnica sia facilissimo trovare i correlati neurali non soltanto di comportamenti più o meno complessi (ad es. risposte visuomotorie o scelte cognitive) ma anche di stati emozionali e attitudini psichiche.
Spiegare in dettaglio i limiti della tecnica di RMf e le difficoltà interpretative dei risultati sarebbe lunghissimo: basti dire che le affascinanti immagini colorate del cervello in attività che illustrano gli esperimenti sono sempre il prodotto di un elaborato processo di trasformazione dei dati bruti in cui un ruolo chiave è giocato dalle analisi statistiche (molto sofisticate ma spesso insufficienti) oltre che dagli assunti (non sempre universalmente condivisi) circa la funzione delle diverse aree cerebrali implicate nell’attività che si registra. È per questo che nonostante il loro alto valore euristico i risultati degli esperimenti di RMf hanno prodotto finora principalmente stimolanti ipotesi di lavoro — più che certezze assolute — su come funziona il cervello.
Tra le discipline che si sono rivolte alle neuroscienze nel tentativo di dipanare i loro nodi concettuali c’è anche la religione. E l’approccio sperimentale attraverso tecniche di brain imaging è stato così massivo da far nascere una nuova denominazione — neuroteologia — sotto cui accomunare le ricerche sulla religiosità e sulle pratiche spirituali più diffuse. La neuroteologia si fonda sul presupposto che il sentimento religioso possa essere riportato a processi e meccanismi cerebrali che sono gli stessi per tutte le forme di religiosità e di credo individuali. In breve, credere in dio sarebbe un tratto caratteristico del genere umano, come la capacità di parlare, e il senso religioso dipenderebbe, come il linguaggio, da specifiche strutture funzionali del cervello che tutta l’umanità condivide.
Poiché non è possibile mettere nella macchina della RMf un credente e un ateo e semplicemente confrontare la loro attività cerebrale mentre l’uno rivolge il pensiero a dio e l’altro riflette sulla sua inesistenza, è stato necessario affrontare il problema del senso religioso in maniera indiretta. E così sono fiorite le ricerche sull’attività del cervello durante le pratiche meditative a scopo spirituale in contrasto a quelle mirate al puro rilassamento psicofisico; oppure durante le pratiche religiose più comuni come la recitazione di preghiere e la lettura della Bibbia contrapposte a compiti analoghi ma privi di valenza religiosa.
I monaci buddisti tibetani, i fondamentalisti protestanti cristiani, le suore carmelitane sono stati i soggetti d’elezione di questi esperimenti il cui obiettivo era quello di identificare una o più aree cerebrali specificamente attive durante l’esperienza spirituale. Ma questa ricerca di un ipotetico comune denominatore di tutte le credenze religiose ha prodotto finora risultati inconsistenti e spesso contraddittori.
Nei soggetti posti in una condizione meditativa o, più genericamente, in uno stato di tensione spirituale l’attività cerebrale non presenta nessuna vera specificità, cioè non si possono attribuire all’esperienza religiosa correlati neurali specifici e localizzati. L’attivazione cerebrale più alta si osserva in una rete di aree, soprattutto frontali e prefrontali, le quali però si attivano anche quando vengono eseguiti compiti cognitivi senza risvolti religiosi, sia di natura soggettiva che sociale; oppure quando il compito richiede al soggetto di focalizzare l’attenzione.
Accanto alle attivazioni nel lobo frontale alcuni lavori riportano il blocco, la deattivazione di regioni del lobo parietale (PSPL). Queste aree vengono considerate cruciali per garantire l’immagine di noi stessi come persona, la consapevolezza di essere ciascuno un individuo distinto dagli altri con un corpo separato. Alla deattivazione del PSPL durante la pratica religiosa viene attribuita la sensazione di annullamento del sé, il senso di trascendenza e di unità col tutto che sembra accompagnare le esperienze mistiche. Però — anche se il blocco di attività del PSPL si dovesse dimostrare un dato consistente e ripetibile — sono comunque possibili altre spiegazioni del fenomeno.
Una linea di ricerca che ha incontrato grande favore tra i media, soprattutto americani, riguarda quello che è stato chiamato “l’elmetto di dio”. Si tratta di una cuffia, del tipo usato in encefalografia, che invece di elettrodi ha inseriti al suo interno dei solenoidi che generano un debole campo magnetico. Attraverso l’elmetto arrivano al cervello piccole stimolazioni magnetiche con un andamento temporale analogo a quello dell’attività elettrica spontanea del sistema limbico.
Per comprendere lo scopo dell’apparecchio e la ragione della procedura sperimentale è necessaria qualche informazione sulla malattia epilettica. Esiste una forma di epilessia — più complessa e meno trattabile delle altre — che colpisce le strutture limbiche situate nel lobo temporale. In alcuni, rari, casi i malati di epilessia temporale sperimentano sensazioni mistiche durante le crisi e riferiscono di avvertire la presenza di dio o almeno di avere esperienze extrasensoriali. M.A. Persinger, lo psicologo canadese che ha messo a punto l’elmetto di dio (per inciso il nome è stato coniato da uno dei primi giornalisti che si è interessato alla sperimentazione) ha la ferma convinzione che le basi neurali della religiosità si trovino nelle strutture del lobo temporale e che perciò stimolando magneticamente queste regioni si possano indurre in individui sani quelle sensazioni legate all’esistenza di dio che alcuni epilettici dicono di provare durante le crisi.
Le ipotesi oltre che i risultati sperimentali di Persinger sono stati duramente criticati. E l’unica replica delle stimolazioni attraverso l’elmetto di dio, effettuata da un laboratorio indipendente, non ha prodotto in quelli che si sono sottoposti all’esperimento nessuno degli effetti mistici che Persinger sostiene di evocare nei suoi soggetti.
In conclusione i ricercatori che hanno fondato e alimentano la neuroteologia ritengono — indipendentemente dal loro credo religioso — che dio sia nel cervello: la religiosità dipenderebbe dall’attività di specifici circuiti cerebrali che a loro volta sarebbero una sorta di prodotto collaterale dello sviluppo cognitivo peculiare del genere Homo. L’ipotesi è in linea con la corrente visione della mente come risultato dell’attività neuronale e non può essere esclusa, ma nemmeno ha trovato conferma nei lavori che hanno affrontato il problema con le tecniche di brain imaging.
Infine, per dovere di cronaca, bisogna riferire che c’è anche chi — come C. Foster — vede il cervello non già come il generatore dell’idea di dio quanto piuttosto come il veicolo di dio. Per Foster le esperienze e i sentimenti religiosi — anche quelli che compaiono a seguito di malattie o all’uso di sostanze psicoattive — sarebbero comunque una manifestazione della presenza di dio che attraverso il ricevitore che abbiamo nel cervello si è sintonizzato con noi.
Nel campo della neuroteologia il dibattito è aspro: le diverse fazioni difendono ciascuna i propri dati e le proprie teorizzazioni mentre con scarso fair play accademico svalutano quelli degli altri attraverso libri, blog e interviste televisive. Forse sarebbe più produttivo interrogarsi sui limiti di un approccio puramente neuroscientifico ad un tema come quello della religiosità che per le sue molteplici sfaccettature (psicologiche, culturali, sociali, ambientali) richiederebbe piuttosto una modalità di studio interdisciplinare.
Marirosa Di Stefano, laureata in Medicina, già professore associato di Neurofisiologia all’Università di Pisa. I suoi principali temi di ricerca hanno riguardato la plasticità corticale e le interazioni interemisferiche. Attualmente si occupa di divulgazione scientifica.
Da L’ATEO 2/2019