Ate…a? Ate…o? Atee!

di Emi(Lia) Venturato

Tutto nasce da una riunione della UAAR Toscana in cui uno di noi ha raccontato di essersi recato presso la «Libreria delle donne» a proporre di vendere L’Ateo. La risposta è stata che se il periodico si chiamasse L’Atea andrebbe bene, ma avendo un titolo maschile non intendono tenerlo. Premetto che capisco perfettamente ciò che spinge a queste posizioni, perché noi donne viviamo in un mondo in cui le cose si chiamano al maschile per ragioni linguistiche (sicuramente non indipendenti da quelle storico-culturali) e s’intendono anche al maschile in un buonissimo numero di casi.

 

A volte le nostre prese di posizione sui termini sembrano «puntigli» privi di senso; e invece è anche grazie a queste cose che noi donne siamo attualmente in una posizione, se non di parità con l’altro sesso, decisamente migliore rispetto al passato. Per fare un esempio, riferirsi ad una platea con «compagne e compagni», «signore e signori», «ragazze e ragazzi», sembra bassa demagogia, ma fino a quando ciò non si diceva si parlava davvero solo pensando agli uomini. Ci sono state leggi scritte al maschile che si riferivano solo all’Homo maschio (vedi ad esempio la «libertaria» Costituzione americana) e farle valere per le donne non è stato affatto facile. In Italia fino al 1945 (e… aprite gli occhi, in Svizzera fino al 1971) quando ci si riferiva agli «elettori» ci si riferiva solo agli uomini maschi.

 

Per questo capisco e condivido l’atteggiamento della «Libreria delle donne» e di Patrizio, il nostro associato che ha proposto loro L’Ateo e che poi ha difeso durante la riunione a Firenze la loro posizione. Io sono piuttosto giovane come associata alla (fatemi notare che qui ci va l’articolo femminile) UAAR, ma mi è stato detto che mozioni per la variazione del titolo del giornale ne sono già state fatte parecchie. Ora, questa è una cosa da affrontare eventualmente durante un Congresso nazionale, e sappiamo bene che i cambiamenti si fanno se c’è la volontà di farli e se ci sono proposte alternative. Per questo invito le donne a pensarci su, ed eventualmente a partecipare e fare proposte. Per quanto mi riguarda, il nome L’Ateo mi sembra buono, in quanto richiama l’attenzione di tutti coloro che si considerano atei, ma anche degli agnostici e di tutti coloro che hanno qualcosa da ridire sulle religioni. Il sottotitolo poi delinea la rivista in modo più preciso; e qui potrebbe esserci forse spazio per una variazione o un’aggiunta.

 

Mi piacerebbe quindi lasciare questo titolo un po’ dirompente che ha attratto me, ma anche molte altre persone, la prima volta che mi è capitato di leggerlo. «Ateo», fra l’altro, significa «senza dio»; e la prima obiezione ad una «femminilizzazione» del termine sarebbe che «senza dia» vuol dire poco o nulla. OK, cosa ne direste però di toglierci l’articolo? Io lancio questa proposta, poi la cosa resta aperta ad eventuali interventi da parte di altre/altri.

 

Al di là dei termini, vorrei portare l’attenzione sul fatto che la UAAR nel suo volantino di presentazione dice: «basta con l’invadenza della chiesa cattolica che cerca di imporre a tutti i cittadini i valori […] quali la sessuofobia, la sudditanza della donna…»; dice poi in un suo volantino: «No alla crociata antisesso del misogino Stato del Vaticano. Un paese è civile anche nella misura in cui anche la donna cessa di essere discriminata, accettando le sue capacità di decisione nell’esercizio delle sue libertà»; infine tra le mozioni approvate nel Congresso nazionale del 1995 c’è la seguente: «L’UAAR respinge senza riserve ogni tentativo di limitare per legge o di fatto la possibilità per tutte le donne di interrompere la propria gravidanza nei primi mesi dal concepimento, e sostiene senza riserve il varo da parte degli stati di una corretta e capillare propaganda anticoncezionale e per la sicurezza del rapporto sessuale» e tutte noi sappiamo come tali posizioni siano alla base della vera parità dei diritti tra i sessi.

 

Per contro, ho sfogliato cinque numeri de L’Ateo che ho qui a portata di mano e ho notato che solo 3 articoli su 23 sono stati scritti da donne (in particolare da due donne) e anche le lettere rispecchiano la stessa tendenza. Nel Comitato di redazione risulta una donna su dieci persone (ed è fra l’altro una delle due che hanno scritto nei numeri da me analizzati). Ora mi viene da pensare che un’associazione con questo tipo di indirizzo e che difende in modo chiaro la posizione della donna non sia costituita da «sporchi maschilisti» (lo voglio anche sperare visto che ne faccio parte). Forse siamo anche noi donne che facciamo sentire la nostra assenza? Abbiamo una vita difficile e poco tempo per metterci a scrivere (io, questo pezzo, lo sto programmando da un mese e lo sto scrivendo durante la pausa pranzo, augurandomi di farcela a finire prima che squilli il telefono o che torni qualcuno affamato a casa); questo è vero. Ma uno sforzo dovremmo farlo; ebbene sì, un altro sforzo, altrimenti rischiamo di cadere nel solito «accontentiamoci che potrebbe andare peggio» o del «portiamo pazienza»: atteggiamenti che la nostra cultura - e soprattutto la «nostra» chiesa - ci hanno (ahimè) insegnato così bene ad assumere. Troviamo almeno il tempo per una lettera al giornale ogni tanto, per una denuncia o una segnalazione di diritti violati; questo comporta meno lavoro e ci permette di partecipare di più.