di Baldo Conti
Abbiamo tutti quanti celebrato a Roma, il 17 febbraio scorso, il 400° anniversario della morte sul rogo di Giordano Bruno. Molti di noi sono venuti da lontano ed hanno trascorso le tre giornate in Campo de’ Fiori sotto la sferza di una tramontana implacabile, pur di rendere omaggio al filosofo nolano e testimoniare e rivendicare così il diritto alla libertà d’opinione ed alla laicità dello Stato italiano, e per esprimere contemporaneamente tutto il proprio disgusto e la nausea di fronte all’inquisizione, al papato, al clero ed alla religione cattolica che, solo per bramosia di potere e di denaro, hanno infangato più del necessario l’umanità, contravvenendo ai più elementari canoni di civiltà e di rispetto per il prossimo. Bruno rimane per tutti noi, quindi, a prescindere dalle personali posizioni filosofiche (tra l’altro sempre molto discutibili e modificabili), simbolo inalienabile per tutto il libero pensiero, che va aldilà della sua semplice vita, delle torture e del rogo. Penso che ogni anno, ogni 17 febbraio, qualcuno metterà ai piedi della statua che lo ricorda, un mazzo di rose rosse o di semplici fiori di campo, perché chi passa dalla piazza non dimentichi mai che l’uomo ha diritto a vivere la propria vita, a pensare ciò che preferisce, senza essere inquisito per le sue idee, e perché si faccia memoria dell’infausta presenza della religione nella società civile, unico vero ostacolo al progresso e all’evoluzione umana.
Aldilà del corteo semi-carnevalesco, della musica, degli slogan, delle bancarelle con libri anticlericali, degli anarchici, dei calendari che al posto di un santo ci ricordano la data di un rogo o di una tortura, degli squatter dei Centri sociali, dei bicchieri di vino e dei panini, del tavolinetto dell’UAAR con i suoi volontari, Campo de’ Fiori rimarrà per sempre impressa nella nostra mente; e così ricorderemo Roma, non certo per il Vaticano o la cupola di san Pietro, ma per quel volto scuro e bronzeo, seminascosto dal cappuccio, quasi a meditare sulla malvagità ed sull’idiozia dell’animo umano. Sicuramente ci sarà un qualche papa che gli chiederà scusa, per stomachevole opportunismo, qualcuno forse ci crederà anche; ma i fatti sono l’unica cosa che rimangono nella storia dell’uomo e non potranno mai essere cancellati: un po’ come i preti sostengono che sia il battesimo. Tutti noi, comunque, conosciamo molto bene la storia di Bruno e quella italiana, per avere dubbi in proposito.
Tornando a casa, dopo la manifestazione romana, mi ha catturato la lettura di un volumetto raro e certo non molto importante, che narra le vicende di un povero giovane di Bormio, nell’Alta Valtellina, decapitato e poi arso sul rogo sotto accusa di stregoneria, da inquisitori dilettanti, ma crudeli come i professionisti di Roma. Era il 20 dicembre 1673, tre quarti di secolo dopo il supplizio di Giordano Bruno: il momento, per i credenti cristiani, di festeggiare il natale. Giovanni Merenda - detto Marendin - finisce nelle grinfie della giustizia «divina» perché amava una ragazza la cui sorella sembra non condividesse un eventuale loro matrimonio. Una spiata, un accenno a maleficî e stregoneria, un orrendo interrogatorio ed un allucinante processo, ed il gioco è fatto. Sì, si poteva morire a vent’anni anche per questo, tra le montagne e l’ignoranza, tra il terrore di un dio intollerante e la credulità, tra un amore perduto ed un incerto paradiso, tra la superstizione umana e la benedizione di un clero immondo. Il libro, molto ben documentato negli archivi del Comune, riporta testi e frasi del processo ed è sicuramente uno strumento utile per lo storico di queste nefandezze.
Il valore però da attribuire a questo libro è senz’altro i pensieri che può suscitare in ognuno di noi, uomini del 2000 (secondo un’arbitraria datazione, ma pur sempre significativa), che ancora combattono contro la prepotenza di un’ecclesia e di un improbabile dio, accoppiata un tempo vincente, che non è più in grado ora, come una volta, di assassinare i cittadini impunemente. La prima cosa che viene in mente però - scorrendo le pagine e ripensando alle giornate romane - è la disparità di trattamento tra Bruno e Marendin. Anche tra coloro che sono morti sul rogo c’è forse, e purtroppo, una disparità di valutazione: ci sono i martiri di prima categoria e quelli di seconda, i privilegiati ed i relegati ad un livello inferiore, i meglio ed i peggio.
Qui desidero considerare e ricordare, appassionatamente, tutti gli assassinati con quest’orrenda procedura, alla stessa stregua, senza priorità né privilegî, senza tanti onori né manifestazioni pubbliche, ma solo con quella tristezza e con quell’angoscia di stampo medievale, intessute d’incubi da terrorismo teologico, di soprusi e di sangue. Noi non sapremo mai quante vittime innocenti sono finite sul rogo o sui ceppi del boia dopo aver baciato il crocifisso; ma sappiamo però che ognuno di loro ha contribuito e contribuisce tuttora, con il proprio martirio, al riscatto della civiltà umana dall’oscurantismo, dagli angeli e dai diavoli. Basterebbe rivedere quel vecchio capolavoro di Ingmar Bergman, Il settimo sigillo, per avere una visione non completamente astratta dei secoli passati.
Gli associati all’UAAR e quindi io stesso, siamo sicuramente dei privilegiati, visto che viviamo in quest’epoca, fatta di benessere ed anche di violenza, ma che ci permette tuttavia di dichiarare apertamente il nostro pensiero: certamente la scomunica non ci spaventerebbe, il rogo forse sì. Ed il tutto, grazie a coloro che ci hanno preceduto, arsi o decapitati, noti e meno noti, con la loro sete di libertà e di ribellione, che ci hanno aperto la strada. In cambio di tutti questi nostri attuali benefici e di questa gioia di vivere, abbiamo però tutti il dovere minimo di non deviare da quella strada tracciata, di continuare a lottare per una società migliore, laica e civile, di combattere i privilegi, l’arroganza, l’oro camuffato da una bibbia, l’ipocrisia, la falsa spiritualità svenduta nei riti pagani in uno sfarzo industrializzato.
Io ringrazio, apertamente, ancora una volta, qui, di fronte al mondo, Bruno e Marendin e, se fosse possibile, direi loro ed a tutti gli altri martiri per la libertà che il sacrificio compiuto non è stato inutile. Essi hanno contribuito al miglioramento della specie umana, come del resto cerchiamo disperatamente di fare anche noi oggi; una specie umana caduta così in basso per una ragione che effettivamente ci sfugge, sfugge alle nostre capacità di raziocinio e d’astrazione, sfugge alla logica; e non certo per una questione divina, ma solo per un’imperdonabile sindrome di demenza precoce, diffusasi improvvisamente come un’epidemia nell’antichità e contro la quale, purtroppo, non è stato ancora sintetizzato un vaccino adeguato.
Ringrazio, infine, una nostra associata di Scandicci (Firenze) che, molto gentilmente, mi ha segnalato e prestato l’introvabile libro di Massimo Bormetti Al tempo delle streghe, Bissoni Editore, Sondrio, ristampa giugno 1990, la cui lettura mi ha suggerito l’idea di scrivere questo contributo. Tra l’altro, ho il dovere di ricordare che il Bormetti era un semplice impiegato comunale che, frugando tra carte gialle e polverose dell’archivio, scoprì quell’orribile realtà, così come non posso tralasciare il fatto che la nostra amica fiorentina pose un mazzo di fiori sul luogo del rogo, in una piazza di Bormio, tra la meraviglia dei presenti e di un vigile urbano che ignoravano completamente la loro storia e le tragiche vicende dei loro antenati.