I risultati di un’indagine
e la loro verifica sul campo
di Raffaele Carcano, Milano
1. Premessa
L’ateo e il prete non sono portati, quasi per definizione, a dialogare fra loro. Hanno però in comune l’essere forse un po’ fuori dal tempo, in una società che non si sofferma granché sui massimi sistemi: con il risultato che, certe volte, fanno la figura del marziano e del venusiano che tentano di parlarsi nella lingua di un terzo pianeta. Ultimamente capita che il “contatto” si stabilisca su iniziativa dell’acattolico, che scrive alla parrocchia dove fu battezzato per comunicare ufficialmente il proprio abbandono. La novità scuote il destinatario della missiva, che reagisce talvolta imprevedibilmente. Questo testo nasce per documentare alcune significative risposte, cercando di analizzarle alla luce di una recente pubblicazione sui sacerdoti e tentare così di dare una valutazione, per quanto sommaria, della qualità del clero italiano.
2. Un’indagine sul clero
A cura del sociologo Franco Garelli, nel 2003 è stata pubblicata per i tipi del Mulino la ricerca Sfide per la Chiesa del nuovo secolo - indagine sul clero in Italia (356 pagine, 22 €). Condotta da Eurisko su un campione di 800 sacerdoti impegnati nell’attività di base, è commentata in otto saggi di diversi autori (fra cui due teologi), preceduti da un’introduzione dello stesso Garelli. Nel testo non si accenna quasi mai ai non credenti. Sono tuttavia presenti, quasi come un convitato di pietra, nella disamina del fenomeno della secolarizzazione, fin dall’incipit della prima analisi: «Quando si parla di secolarizzazione convenzionalmente si fa riferimento alla perdita d’influenza della religione delineatasi con l’avvento della modernità. Per varie ragioni si è verificato il passaggio da un mondo tradizionale, in cui la religione costituiva la principale risorsa simbolica per spiegare e legittimare l’esperienza, a un contesto socio-culturale in cui si affermano visioni non religiose del mondo e della realtà».
I sacerdoti sembrano consci della situazione. I tre più rilevanti problemi ecclesiali sono secondo loro la crisi delle vocazioni1 (per il 53,6% del campione), la difficoltà di trovare il linguaggio adeguato per annunciare il Vangelo (43,5%), la difficoltà di proporre il Vangelo in una società secolarizzata (41,7%). «Per contro, i preti italiani sembrano meno preoccupati delle minacce che derivano alla fede cristiana da fattori ritenuti esterni, rappresentati dalla concorrenza di altre fedi religiose e dalla presenza di nuove offerte tipica di una società pluralistica». Ne consegue che uno dei maggiori problemi pastorali per la Chiesa è agire come se l’Italia fosse ancora cattolica (67%). Secondo Raffaella Ferrero Camoletto, «con il raggiungimento della condizione adulta, i soggetti si emancipano dal mondo parrocchiale, alimentando l’erosione di quell’asse famiglia-Chiesa che costituiva il tessuto connettivo della vita ecclesiale. Ciò considerato, pare velleitario continuare a considerare l’Italia un paese cattolico», e «sembra prevalere una mentalità che mal si concilia con il nucleo del Vangelo, in una società che di fatto pare sconfessare l’identità cattolica che pur ancora proclama».
Secondo Garelli, «nella percezione del clero vi sono numerosi indizi che il cattolicesimo vissuto e partecipato è ormai un fenomeno di minoranza anche nel nostro paese; e ciò guardando sia ai grandi numeri sia all’esperienza quotidiana». Tale percezione porterebbe i sacerdoti alla constatazione che «le società occidentali stanno perdendo la loro ispirazione cristiana». Garelli, benevolmente, sostiene che «il prete non è solo un uomo del sacro, ma anche un acuto sensore (diretto o indiretto) delle dinamiche del nostro tempo». Egli percepisce che gran parte dei parrocchiani si rivolge a lui richiedendo soprattutto un aiuto materiale, oltre a qualche sacramento ogni tanto: e constata come la presenza dei giovani, la pratica della confessione, la frequenza alla messa domenicale siano notevolmente calate negli ultimi 10-15 anni2. Per quanto riguarda la partecipazione alle funzioni, solo il 12,1% dei sacerdoti ritiene che essa superi il 30% della popolazione di riferimento della parrocchia. Va rilevato, al proposito, che una recente indagine della stessa Eurisko ha stimato al 29,3% la percentuale di popolazione che si reca a messa almeno una volta alla settimana3. Tale cospicua differenza viene giustificata dagli autori o come una sottostima del fenomeno da parte del clero, oppure come l’inizio di un processo di erosione nella frequenza sulla falsariga di altri paesi europei, anche cattolici, dov’è precipitata sotto il 10% della popolazione adulta: ritengo invece più persuasivo pensare che le stime dei sacerdoti siano maggiormente vicine al vero, e che nei vari sondaggi demoscopici le persone contattate si definiscano cattoliche praticanti anche quando non lo sono.
Le conseguenze che traggono i prelati dalle loro stesse riflessioni non sono però quelle che ci aspetteremmo: «Qualora fossero chiamati a compiere una scelta netta fra una Chiesa fortemente testimoniale e ben curata ma minoritaria e una Chiesa più dimessa e meno lucida nel proporre il messaggio evangelico, ma più accogliente e meno esigente, la maggior parte di loro opterebbe per la seconda». È il tema, discusso tante volte e inevitabilmente riproposto anche da questa indagine, della mancanza di coerenza della Chiesa cattolica, della frattura netta tra le impegnative richieste ai propri fedeli e la supina accettazione di qualsiasi rito di passaggio (battesimi, comunioni, cresime, matrimoni, funerali) venga richiesto da persone che si recano in parrocchia solo in tali occasioni. Un sacramento lo si concede a tutti: solo il 9,5% del campione sostiene di averlo «talvolta» negato.
La strategia adottata per fronteggiare la secolarizzazione non può quindi che essere conservativa, come si evince da diverse affermazioni degli autori dei saggi. «Alla difficoltà oggettiva di parlare di Dio in una società secolarizzata fa dunque da contraltare la tendenza al ripiegamento difensivo, per cui l’obiettivo diventa mantenere le posizioni consolidate e non perdere terreno», così che i problemi sembrano risolubili «con un disegno di aggiornamento», senza che si metta in discussione «la plausibilità stessa della fede cristiana nella società contemporanea». E nessun esame di coscienza: certo sono soprattutto «i sacerdoti più anziani e che operano in contesti più tradizionali che sottolineano come il problema sia più nella gente e nel mondo che nella Chiesa». Ma comune al clero giovane o urbano è l’opinione che «la sfida trasversale è contrastare la secolarizzazione delle coscienze attraverso un’azione pastorale sinergica nei confronti delle famiglie da un lato e dei singoli dall’altro», e che «la “missio ad gentes” (l’annuncio del Vangelo a chi ancora non lo conosce) sia la vera vocazione degli ambienti religiosi». Il 34,6% dei sacerdoti si sente e si percepisce come un missionario in una società secolarizzata: è con costoro, probabilmente, che finiscono per impattare gli atei e gli agnostici.
3. Una verifica sul campo
Sembrerebbe che gli italiani non nutrano un’opinione lusinghiera nei confronti della parrocchia: il voto che le darebbero, in una scala da 0 a 10, è ad esempio 5,14, mentre secondo il 56,7% della popolazione, se la parrocchia chiudesse, la vita sociale della comunità non ne risentirebbe5. Giudizio probabilmente condiviso da coloro che hanno incontrato problemi nel vedere soddisfatta la propria volontà di non essere più considerati cattolici6. In qualità di responsabile del sito, attraverso il quale l’UAAR ha diffuso il facsimile di richiesta, ho avuto modo di raccogliere molte lamentele verso le parrocchie. La stragrande maggioranza di queste riguarda ancora oggi la mancanza di una risposta: nonostante diversi parroci abbiano perso tutti i ricorsi davanti al Garante della privacy che abbiamo suggerito di fare a coloro che non ricevono risposta o la ricevono negativa, nonostante la stampa si sia interessata alla questione, nonostante la Conferenza Episcopale abbia divulgato circostanziate istruzioni per il trattamento delle istanze7. Quando le risposte vengono fornite, però, anche il contenuto lascia talvolta perplessi.
A.A.8 ad esempio, riceve una lettera con cui il suo parroco rifiuta di effettuare l’annotazione sul registro, se non in presenza di «un’ingiunzione» da parte del vescovo. Aggiunge istintivamente, da buon confessore, di volerne conoscere il motivo, per poi piazzare la zampata: «Mi tengo la “risposta” che istintivamente mi sorge», concludendo poi con un «mi perdoni, ma la freddezza del suo “documento” 9, non riesco a qualificarlo come una lettera, non mi stimola ad aggiungere altro».
B.B. riceve anche una lezione di catechismo: «Il battesimo è indelebile, come lei ben sa. D’altra parte un fatto che è avvenuto, come il battesimo, non può essere dichiarato non avvenuto, a capriccio; fa parte del passato e non può più essere cambiato; lei, naturalmente, può decidere di non vivere più secondo il battesimo ricevuto, è una sua responsabilità davanti a Dio, anzitutto, e davanti alla sua famiglia e alla chiesa, ma io, per fedeltà al mio compito di parroco e, quindi di custode del patrimonio documentale della parrocchia, non sono abilitato a fare ciò che lei mi chiede».
Anche il parroco di C.C. insiste che non si può modificare l’atto di battesimo: «Nessuno può modificare il Registro o l’Atto storico. Le faccio presente che in ogni caso di fatto il Sacramento del Battesimo rimane in eterno. Come credente e parroco, pur prendendo atto con grande dolore della sua richiesta e rispettando la sua libertà, le assicuro che se lei a questa richiesta intende rifiutare la Chiesa Cattolica, né la Chiesa e tanto meno Dio, la rifiutano».
Anche la richiesta di D.D. s’imbatte in un parroco teologo: «Mi dispiace che lei sia così tormentato al punto da ricorrere al tribunale civile per affrontare una questione religiosa e facile da risolversi senza scomodare l’art. 13 della legge n. 675/1996. Le faccio presente che i suoi dati sono nell’archivio parrocchiale e io non posso manometterli né stracciarli. Se pur tutti i documenti siano distrutti, la “copia originale” del Battesimo è in Dio e Dio non cancellerà mai un atto sancito anche se nella pratica c’è rifiuto e non si vive: nessun atto umano è tanto potente da superare un atto divino. Nella mia libertà posso rifiutarlo, però». In tutti questi casi, dunque, si fraintende palesemente il contenuto della richiesta (di annotazione e non di cancellazione): si rimprovera la non conoscenza della dottrina al richiedente, quando invece è il parroco a ignorare la giurisprudenza e la stessa normativa interna ecclesiastica.
Talvolta dall’invio della lettera scaturisce un faccia a faccia. E.E., in mancanza di una risposta, si reca dal parroco, che gli ribadisce però che “non se la sente” e che «non può scrivere niente sul registro dei battezzati». Nel caso di F.F. è invece lui a ricevere la visita: «Il parroco mi ha fatto riavere la lettera dicendo che lui dai suoi superiori non ha avuto disposizioni per annotazioni nel registro dei battezzati e che la mia volontà di rinunciare alla fede cattolica è ben testimoniata dalla lettera che gli ho fatto avere (e che mi ha restituito!). E poi ha detto che se in un futuro io rinunciassi a questa volontà (cioè volessi tornare ad essere battezzato) lui non saprebbe come muoversi». G.G. segnala: «Il parroco si presenta a casa mia comunicando di aver ricevuto la lettera, ma di non essere in grado di dar seguito alla mia richiesta. Egli così sostanzialmente motiva il diniego: (1) è custode del registro, ma non può apporvi note se non viene espressamente autorizzato dalla curia; (2) non essendo stato lui l’estensore dell’atto non può modificarlo. Io avrei indirizzato il modulo alla persona sbagliata: il parroco anziché il vescovo».
Abbiamo quindi un’altra serie di testimonianze nelle quali il rifiuto dell’annotazione viene motivato con l’assenza di istruzioni dall’alto: istruzioni peraltro già in possesso dei parroci, risalendo infatti il Decreto CEI addirittura all’ottobre del 1999. Se ne può trarre una prima conclusione: in presenza di un’istanza redatta ai sensi di legge, e in assenza di cognizioni sulla stessa, il clero italiano non si informa sui contenuti della legge, ma cerca conforto nella dottrina cattolica: e non essendo quest’ultima una fonte riconosciuta dalla giurisprudenza italiana, si espone così ai ricorsi presso il Garante.
Sarebbe però semplicistico pensare che l’intimazione a procedere li persuada. È assurto agli onori della cronaca nazionale il caso del nostro socio Gianni C., il cui parroco ha addirittura denunciato il Garante stesso, prima di ritirarsi in buon ordine su invito della stessa CEI10. Ma H.H. ci ha informato che «sul registro dei battezzati era stato anche annotato, inspiegabilmente, che ero entrato a far parte dei testimoni di Geova, il che è assolutamente falso», e deve quindi proseguire nel ricorso. Il parroco di I.I., che già in precedenza, sollecitato dal Garante, aveva presentato come memoria difensiva un patchwork di frasi di un monsignore, dopo aver perso il ricorso riceve la richiesta di pagamento delle spese. Così replica a I.I.: «Ritengo la sua estremamente offensiva e che poco si addice alle buone regole di comportamento che devono regolare i rapporti tra le persone (bastava una telefonata oppure recarsi presso l’ufficio parrocchiale). Se non ha percepito i 125 Euro a lei dovuti questo è semplicemente da imputarsi al fatto che lei non mi ha mai fatto pervenire la banca d’appoggio per relativo bonifico: quindi non mia negligenza!!! (N.d.A.: il parroco sembrerebbe non conoscere altre forme di pagamento). Provvederò dunque entro “dieci giorni” al bonifico a suo favore: La informo altresì che le spese relative all’annotazione a margine del registro e altri disguidi arrecatimi ammontano a 350 Euro da liquidarsi al più presto». Richiesta strampalata a cui, ovviamente, non è stato dato alcun seguito.
Diverso ancora il caso di chi ottiene soddisfazione, magari dopo alcuni solleciti. Si riceve conferma dell’avvenuta annotazione, non senza però che venga ammannita una solenne predica. Ad esempio L.L., atea, riceve da un monsignore della Curia di Torino questa missiva: «Spero che la Sua ricerca di fede abbia un seguito e che Lei possa un poco alla volta riscoprire il valore oggettivo di molte realtà che al presente possono risultarLe per tanti motivi, anche contingenti, offuscate. Mi unisco volentieri nella preghiera e La ossequio». M.M. viene invece considerato un emarginato: «Il parroco mi ha fatto un lungo resoconto cronologico sulle tappe del mio “cammino spirituale nella sua chiesa”, con ripetuti richiami alle intenzioni dei miei genitori, dei padrini, della comunità ecc. nonché al fatto che “a 13 anni, e precisamente in data 23 aprile 1978, M.M. fa richiesta di prima persona al parroco di allora di accostarsi al sacramento della confermazione”, concludendo che avrei richiesto l’auto esclusione dalla “comunità di xy”, concetto quest’ultimo ribadito più volte, nel tentativo oltretutto maldestro di creare un’uguaglianza e una simbiosi tra la comunità in cui vivo e la chiesa che egli rappresenta».
Certo è che la peggior situazione si crea quando il parroco, violando la legge, avvisa la famiglia del richiedente. N.N. scrive: «Con mia grande sorpresa, vengo informato da mia madre in persona, decisamente scioccata a giudicare dal tono di voce, che mi dice che il Parroco ha ricevuto la mia lettera e ha pensato bene di chiedere conferma a lei delle mie intenzioni… Sinceramente non ho parole». Ancora peggio va a O.O.: «Questo prete ha ricollegato di chi ero figlio, ha contattato mia nonna, mettendola in agitazione (ha 87 anni), dicendole che suo nipote aveva rinnegato la fede cattolica. Mia nonna, allarmata, telefona a mia madre amplificando ancor di più l’accaduto, dicendole che avevo combinato un macello. Io quel giorno rientro a casa (ancora non sapevo niente), mi ritrovo mio padre e mia madre incazzati neri, con la tipica faccia che assumono quando mi devono sfornare il sermone di rimprovero. Nonostante i miei 20 anni, ho dovuto lasciar cadere la questione per evidenti contrasti in casa; mia madre ha telefonato al prete dicendogli che mi ero sbagliato; io per adesso ho deciso di non insistere, almeno fino a che non me ne vado di casa».
Si può notare come la casistica sia assai variegata. Potrà forse cambiare la forma, ma la sostanza è quella di uno smaccato fastidio per le richieste ricevute. Sono casi isolati, o spie di un atteggiamento diffuso? Per rispondere alla domanda può tornare ancora una volta utile l’Indagine sul clero. Scrive Enzo Pace nel contributo dedicato all’identità del prete: «Tornare di tanto in tanto ad ascoltare voci esterne al mondo strettamente clericale, per capire che cosa accade nella società, appaiono attività non essenziali alla maggior parte degli intervistati»11. Leggiamo anche quali requisiti siano oggi ritenuti necessari per svolgere al meglio la missione di prete: l’86,1% risponde «una spiritualità e una vita di preghiera», ma solo l’11,3% «uno spirito sereno con capacità di sdrammatizzare» e solo il 10,7% «l’intelligenza e il buon senso». Infine, analizziamo meglio la statistica dei problemi ritenuti più rilevanti: le vocazioni e la secolarizzazione, come già detto, ma non la qualità dei sacerdoti; solo il 17,6% del campione cita l’impreparazione del clero e solo il 13,1% pensa che i vescovi non siano all’altezza. Il quadro che emerge è quindi sufficientemente delineato: siamo in presenza di un clero molto “spirituale”, che non ritiene che la formazione, la preparazione e il confronto siano qualità fondamentali. Le risposte sono peraltro in sintonia con la strategia conservativa di cui si parlava in precedenza: la “colpa” è dei cittadini, non certo della Chiesa. Sono i non più credenti che non se ne rendono conto. E il loro comportamento non è comprensibile, alla luce della dottrina12.
Rimane un ultimo dubbio: quanto in alto si spinge questo atteggiamento? Abbiamo già visto che sono pochi i sacerdoti a ritenere i loro vescovi non all’altezza. Eppure le segnalazioni pervenuteci coinvolgono anche le più alte gerarchie. P.P. è costretto a sollecitare l’arcivescovo di Spoleto, che da quasi un anno non evade la richiesta trasmessagli dal parroco. Esattamente all’opposto, Q.Q. riceve l’invito dalla diocesi di Padova a rivolgersi al parroco, con la richiesta perentoria di indicare esattamente la data di battesimo: data che gli è evidentemente sconosciuta, essendo i genitori da tempo defunti. Lo stesso monsignore di Torino che ha appioppato una predica a L.L. deve essere sollecitato più volte da R.R. a rispondere per iscritto e non verbalmente, cosa che infine esegue clonando la risposta precedente. La signora S.S., non conoscendo il nome della parrocchia dove era stata battezzata da neonata, ha inoltrato la richiesta alla Curia di Napoli: questa, oltre a dichiararsi incapace di individuare la parrocchia, si è rifiutata di procedere ad alcuna annotazione, restituendo anzi la missiva originale alla richiedente. Un vescovo toscano solletica T.T.: «Se vorrà presentarsi personalmente potrò darle una mia lettera ragionata su la vera identità di Gesù che scrissi tre anni or sono…». La diocesi di Milano invita U.U. a recarsi personalmente presso la parrocchia di battesimo. Esponenti del vicariato di Roma hanno chiesto a V.V., Z.Z. e altri ancora di presentarsi presso di loro per discutere personalmente la questione.
La situazione descritta presenta poche rose e molte spine. Il clero italiano si rivela impreparato di fronte a una delle sfide che la proteiforme società contemporanea gli presenta. Al di là della tematica specifica, che riveste indubbiamente caratteristiche peculiari, andrebbe sempre tenuto presente che i sacerdoti sono, per quanto indirettamente, stipendiati dallo Stato attraverso il gettito dell’8 per mille. E lo Stato è formato da tutti i cittadini, anche da quelli non cattolici. Quantomeno dovrebbero essere assicurati una maggiore consapevolezza del proprio ruolo, un più alto rispetto verso il prossimo, una migliore conoscenza della legge. Basterebbe soltanto, forse, convincersi che agli italiani, in materia di fede, è concesso da tempo pensarla diversamente.
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