di M.E.Z.
L’etica tradizionale della sacralità della vita, ferocemente difesa dalla chiesa cattolica, ormai non regge più. Applicata nei contesti delle società avanzate o ai problemi della sovrappopolazione del pianeta, porta a esiti ripugnanti per qualsiasi persona di buon senso e incompatibili col progresso scientifico e tecnologico. Lo dimostra il testo della legge sulla fecondazione assistita in corso di approvazione in Parlamento. Quel testo, voluto dai cattolici di entrambi gli schieramenti politici in conformità ai diktat del vaticano ed esplicitamente animato dalla volontà di imporre a tutti, con la forza del diritto, il dogma cattolico della sacralità dell’embrione, prevede tra l’altro che possano essere creati, per ogni intervento di fecondazione, solo tre embrioni, da impiantarsi contemporaneamente senza poter effettuare alcuna selezione.
La limitazione al numero di embrioni da creare comporta che, in caso di fallimento del primo tentativo, non essendo stati accantonati embrioni di riserva, per riprovare, la donna dovrà riprendere da capo tutta la fase preparatoria, fatta di pesanti terapie ormonali. L’obbligo di impiantare i tre embrioni contemporaneamente, la esporrà al rischio di gravidanze multiple. Inoltre, se l’embrione ottenuto con la fecondazione in provetta risulterà malformato o portatore di malattie, andrà lo stesso obbligatoriamente impiantato nell’utero per dare corso a una gravidanza. Già un’altra norma del resto esclude che i portatori di malattie genetiche possano ricorrere alla fecondazione assistita per evitare di trasmetterle ai figli. Ben vengano tutti gli handicap, purché non si distrugga nemmeno un solo embrione!
Tutto questo appare contrario a ogni deontologia medica. Diciamo pure che è una infamia ai danni di tutte le persone sterili, delle donne e dei malati in particolare. Tuttavia, applicando coerentemente l’etica della sacralità della vita, queste norme sono una conseguenza inevitabile. Per rifiutare questa e altre assurdità dello stesso tipo abbiamo bisogno di un’altra etica. Questo articolo vuole mostrare come una nuova etica sia già profondamente entrata nelle convinzioni diffuse e come abbia già determinato delle svolte epocali, senza che quasi ce ne rendessimo conto.
La legalizzazione dell’aborto, avvenuta in quasi tutti i paesi avanzati nel corso degli anni ’70-’80, è stata una delle prime e più eclatanti sconfitte dell’etica cattolica a vantaggio di una concezione alternativa emergente che considera valore da tutelare non la vita meramente biologica, come quella degli embrioni, ma la vita personale e la sua qualità. Questa nuova etica ha sviluppato una forte capacità di risposta ai problemi della vita nelle società avanzate e ha ormai raggiunto, sia pure con diverse formalizzazioni, una notevole forza concettuale. La sua portata va molto al di là dell’aborto, ovviamente: investe tutto il complesso delle questioni bioetiche, dall’eutanasia alla ricerca sugli embrioni, dalla fecondazione assistita ai trapianti d’organo… Il dibattito sull’aborto è però un bell’esempio sia di come venga adottata implicitamente, sia delle difficoltà che la politica ancora incontra nel farla propria in modo coerente e corretto.
Gli argomenti usati a favore della legislazione abortista sono stati soprattutto i seguenti due: (i) quello che dice che l’aborto è certo un male, ma meglio una legge che lo regolamenti piuttosto che lasciare la “piaga sociale” a se stessa, cioè piuttosto che lasciare le donne ad abortire in cattive condizioni igieniche (argomento di riduzione del danno sociale); (ii) quello, più coraggioso, che afferma la libertà di scelta della donna, per cui gli abortisti si dicono pro-choice. Su questo si basava in parte anche la storica sentenza Roe vs Wade, con cui la Corte Suprema USA nel 1973 radicò il diritto all’aborto nel diritto costituzionale alla privacy: la privacy comprende la libertà di abortire fino al momento in cui il feto diventa vitale, cioè in grado di vivere autonomamente al di fuori del corpo della madre.
Entrambe le argomentazioni, centrate come sono sulla salute e sull’autodeterminazione della donna, glissano sulla questione che i cattolici hanno invece sempre considerato (giustamente) decisiva, e cioè sullo status etico di embrione e feto. Certo: quegli argomenti presuppongono che embrione e feto non siano organismi a cui riconoscere gli stessi diritti che riconosciamo agli esseri umani dopo la nascita (altrimenti il diritto della donna ad abortire equivarrebbe al diritto dell’assassino di uccidere). Ma non spiegano il perché.
Dalla sentenza Roe vs Wade si potrebbe dedurre che, finché il feto non è vitale, va considerato una propaggine del corpo materno su cui la donna esercita gli stessi diritti che ha sul resto del proprio organismo. Ma è bastato che passassero alcuni decenni: lo sviluppo tecnologico consente oggi di far sopravvivere fuori dal corpo della madre feti sempre più prematuri, tanto che si ritiene possibile, in un futuro prossimo, far svolgere tutta la gravidanza in un utero artificiale (cosiddetta ectogenesi) dopo una fecondazione in provetta: a questo punto non è plausibile sostenere che embrione e feto siano un’appendice del corpo femminile. Ma l’argomento era povero in partenza: il fatto che una vita non sia autonomia (perché ha bisogno del supporto di un altro corpo o di una struttura artificiale di sostegno) non significa che abbia meno valore se è caratterizzata da quel livello di coscienza che ha la vita di un adulto.
Sono stati usati cioè argomenti di per sé insufficienti a giustificare l’aborto e con portata limitata: si interviene oggi sull’embrione in situazioni in cui la questione della salute della donna o non si pone (esempio, ricerca sulle staminali) o si pone in tutt’altri termini (esempio, fecondazione assistita): le cattive argomentazioni hanno le gambe corte. Salute e autodeterminazione delle donne non sono affatto irrilevanti, sia chiaro. Ma restano sulle sabbie mobili finché non si affronta la questione vera che sta al fondo. Cioè: qual è la vita umana che per noi rappresenta un valore da tutelare anche di fronte a interessi contrapposti. E perché. Un’etica plausibile deve farsi carico di questo più vasto problema, di cui la questione dell’aborto è solo una delle tante punte emergenti.
C’è un filosofo che, a mio parere, più di chiunque altro ha saputo vedere il fondale unitario delle questioni bioetiche e ha compreso e messo sotto la lente di ingrandimento la profonda crisi dell’etica tradizionale, la sua inadeguatezza rispetto alla medicina moderna, facendo insieme emergere il chiaro profilo dell’etica nuova di cui abbiamo bisogno. Si tratta di Peter Singer. Un ebreo australiano nato nel 1946 a Melbourne da genitori di origine austriaca sfuggiti al genocidio. Attualmente è, tra le tante altre cose, docente di Filosofia Morale a Princeton. Il suo pensiero in materia, che qui posso illustrare solo in alcuni punti, è magistralmente espresso in Rethinking Life & Death del 1994 (ed. it.: Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più. Il Saggiatore 1996, ristampa 2000). Sono 230 pagine di una sorprendente capacità di fare filosofia dal basso, in stile giornalistico e senza perdere un grammo di rigore. Si divora come un romanzo giallo, ma lascia una intelaiatura concettuale di straordinaria chiarezza e forza. Un cult capace di cambiare il modo di pensare di chi lo legge.
«Dopo aver regolato per quasi duemila anni i nostri pensieri e le nostre decisioni sulla vita e sulla morte, l’etica tradizionale dell’Occidente è andata incontro a un collasso». Il collasso viene raccontato passando tra le sale di terapia intensiva, le vicende personali e le aule di tribunale in cui si sono svolti e dibattuti gli atti di questa crisi in corso. Il primo scenario sono due casi di donne che hanno portato avanti una gravidanza in stato di morte cerebrale. L’adozione della morte del cervello come criterio di morte legale è stato «il primo di una serie di mutamenti drammatici» della nostra etica, non meno significativo della legalizzazione dell’aborto. Eppure non ha sollevato quasi nessuna reazione avversa perché la morte cerebrale è stata presentata come una ridefinizione, scientificamente aggiornata, del concetto tradizionale di morte, anziché come una decisione squisitamente etica sulla qualità della vita, quale in realtà è.
La Commissione di Harvard, che nel 1968 avanzò la proposta di ridefinizione, mirava a risolvere due problemi molto sentiti da tutti: (a) evitare di tenere in vita gli individui col cervello morto, che riempivano le unità di terapia intensiva senza alcuna speranza di tornare alla coscienza; (b) avere organi a disposizione per i trapianti. La Commissione sostenne che la morte è un processo graduale e che la scelta di un momento piuttosto che un altro è arbitraria. Quindi suggerì di scegliere come momento della morte legale una fase in cui la perdita della coscienza fosse irreversibile e al tempo stesso fosse ancora possibile prelevare gli organi per i trapianti. Dato che all’epoca non c’era altro modo di accertare la perdita irreversibile della coscienza che accertando la morte di tutto il cervello, quello fu il criterio di morte suggerito e in seguito adottato quasi ovunque.
Un approccio diverso fu indicato vari anni dopo dalla Consulta etica danese, che tenne separate tre questioni: (1) Quando muore un essere umano? Con la cessazione di respirazione e circolazione (criterio tradizionale). (2) A che condizioni è lecito sospendere le cure? Quando sono cessate tutte le funzioni del cervello. (3) A che condizioni è lecito espiantare gli organi? Quando sono cessate tutte le funzioni cerebrali e il paziente è registrato tra i donatori di organi o i parenti non si oppongono… Questa soluzione conseguiva gli stessi risultati. Implicava però l’abbandono esplicito dell’etica della sacralità della vita umana e l’altrettanto esplicita adozione di un’etica della qualità della vita. Il Governo danese, per evitare imbarazzi, nel 1990 preferì allineare la sua legislazione a quella degli altri paesi europei e adottò il criterio della morte cerebrale.
Il criterio della morte cerebrale è dunque una finzione conveniente perché permette di lasciare formalmente salvo il principio di sacralità della vita. È tuttavia una finzione instabile perché ormai sottoposto alla pressione di chi vorrebbe spostare il momento della morte più indietro, alla fase della cosiddetta morte corticale, che è la vera fine della persona (cioè dell’io, della possibilità di coscienza) e che oggi, a differenza del 1968, può essere accertata con le nuove tecnologie disponibili. Questo consentirebbe ad esempio di sospendere le cure a coloro che si trovano in stato vegetativo persistente. Costoro hanno la corteccia cerebrale (sede della coscienza) distrutta, ma il tronco cerebrale (che controlla le funzioni vegetative e riflesse che non passano per la coscienza, come il battito cardiaco, la respirazione, la secrezione di ormoni…) ancora funzionante e quindi sono ancora considerati legalmente vivi.
La morte corticale avrebbe molti vantaggi, ma presentarla come una ridefinizione della morte significherebbe spingere la finzione a un livello inaccettabile: come si fa a dichiarare morto qualcuno che respira ancora autonomamente? La scelta di ovviare alle proibizioni dell’etica della sacralità della vita spostando i confini della vita biologica, è astuta ma ha le gambe corte. La soluzione proposta dalla consulta danese è più in grado di rispondere alle nostre esigenze. Però implica l’abbandono aperto della vecchia etica.
Qualcosa di simile accade all’altro capo della vita. La posizione etica contraria all’aborto in termini formali è espressa da questo sillogismo:
- Premessa maior: la vita umana è sacra ed è sempre proibita la sua soppressione.
- Premessa minor: dal concepimento in poi l’embrione è una vita umana.
- Conseguenza: la vita dell’embrione è sacra ed è sempre proibita la sua soppressione.
In questo caso la chiesa cattolica ha deciso di fissare da sé quando inizia la vita umana, cioè al concepimento, senza lasciarlo decidere a una commissione scientifica. Chi è favorevole all’aborto, alla ricerca sulle staminali… spesso ritiene di dover contestare la premessa minor e sostiene che l’embrione non è una vita umana in senso biologico. Ma fino a dove può essere spinto il punto di inizio della vita umana? Neanche il feto è una vita umana? È il momento della nascita (per molti aspetti casuale) che trasforma improvvisamente un feto non umano in un neonato umano? Dice Singer: questa linea debole non è convincente: bisogna contestare la premessa maior, perché è quella che genera ogni sorta di problemi e che, se cambiata, ci offre un nuovo quadro etico complessivo.
La linea forte si articola in questi termini:
- Premessa maior: va tutelata non la vita umana in senso meramente organico, ma la vita (solo umana?) personale, cioè caratterizzata dalla presenza della capacità di sentire dolore o piacere (soglia minima perché si costituisca un diritto a non soffrire), e di avere autocoscienza (soglia minima perché si costituisca un diritto a continuare a vivere).
- Premessa minor: l’embrione e il feto sono organismi che appartengono alla specie Homo sapiens, ne sono le prime fasi di sviluppo, ma non hanno ancora raggiunto quel livello che giustifica la tutela della loro vita.
- Conseguenza: è lecito sopprimere gli embrioni e anche i feti fino a un certo livello del loro sviluppo.
La linea di Singer ha conseguenze molto vaste, che nello spazio di questo articolo non possono essere trattate. Essa offre una base etica coerente per i problemi della bioetica. Si tratta di una linea che è già inconsapevolmente accolta da molti, forse dalla maggioranza degli occidentali. Finalmente impugnata in modo aperto dai laici consentirebbe loro di contestare dalle fondamenta l’impostazione cattolica, che resta in piedi solo perché manca il coraggio di lanciarle la sfida al cuore. Rattrista vedere, anche di recente, che alcuni sono convinti di poter contestare la legge sulla fecondazione assistita con meri appelli al buon senso, al rischio che la gente corra all’estero et similia… senza sfidare la chiesa cattolica sul piano etico. Anzi, magari criticandola perché pretende di sottomettere la scienza all’etica. Nessuna persona di buon senso può volere una scienza sganciata dall’etica, senza limiti. Ci vuole altro: bisogna contestare sul piano etico e con argomenti etici che quella della chiesa cattolica sia una buona etica. E indicarne un’altra.