Ateismo e senso del vivere

di Calogero Martorana

Sul quotidiano Il Giornale dell’8 marzo 2001 comparve un’intervista al filosofo Remo Bodei, autore del libro I senza Dio. Vi si sviscerava, tra l’altro, la contraddizione dell’ateismo, quella dell’essere, in fondo, nient’altro che un episodio secondario della storia delle religioni. «Sono ateo per motivi religiosi», diceva il comico Francesco Salvi, sintetizzando tale contraddizione. Eppure, chiedersi perché si è atei è fuorviante. Il “perché”, per quanto naturale e spontaneo, non attiene al razionalismo, di cui l’ateo di solito si nutre, semmai alle religioni. La domanda del razionalismo è “come”, non “perché”. La questione, naturalmente, non si può esaurire in una battuta. Lo scrittore Gaetano Tumiati afferma «Io sono ateo semplicemente perché Dio non esiste». Si propone cioè anche l’ateo per motivi atei, che non sostituisce Dio con un superuomo, col proprio io, con una sequela di dubbi, ma semplicemente constata, come si constata l’esattezza di un’equazione.

C’è un ateismo teorico (panteisti, epicurei, fino a Giordano Bruno) che sostiene nessun senso del mondo di là dal mondo stesso; c’è quello pratico, che sostiene l’indifferenza degli dèi. Ci sono i libertini, che custodiscono l’incredulità contro una società bigotta; Nietzsche e la “morte di Dio”; Leopardi e l’ateismo tragico; Bonhöffer, che porta l’incredulità alle estreme conseguenze. Certo è che l’essere atei è una condizione esistenziale che si assume, si accetta, si elabora, si connette a una Weltanschauung (concezione del mondo) e infine si testimonia. Questa condizione non si presenta all’improvviso come fosse una “conversione”. Di solito, è il frutto di un travaglio esistenziale in cui le parti di un mosaico si compongono e si aggregano in una configurazione atea definitiva e irreversibile.

La “cosa” uomo

Se ci accreditiamo, come umanità, un ruolo privilegiato e centrale, commettiamo un grosso errore. La nostra esistenza è esattamente come quella di qualunque altra cosa, riunendo in questa parola (cosa) tutte le mutevoli espressioni della materia, animata o inanimata che essa sia. L’Uomo che pensa non è superiore alla pietra che non pensa, la sua vita non è sacra, diversa in senso migliorativo, rispetto a qualunque altra epifanìa. Si tratta soltanto di combinazioni di fattori molteplici, che ora si aggregano a formare un chiodo, ora si aggregano in altro modo onde mettere in opera un sentimento, o una stella, o l’atmosfera del Natale, o un serial killer. L’illusione che la vita debba essere qualcosa di speciale è colpa della nostra prospettiva d’esseri viventi, nonché della concezione caparbiamente antropocentrica che custodiamo; e per argomentare quest’illusione, siamo disposti a pescare innumerevoli esempi-cavolata: l’amore, il pensiero, l’etica, l’autocoscienza, la parola, l’arte e via autoreferenziando.

La recente (maggio 2001) scoperta circa le basi neurologiche dell’Io va proprio nella direzione di una demitizzazione dell’esistenza. Il gruppo del neurologo Bruce L. Miller, infatti, verificando che la sede del Sé è il lobo frontale destro, afferma che anche la spiritualità ha basi biologiche, che l’anima è una questione neurale, che i tratti distintivi della personalità sono contenuti in una ben determinata e fisica area del cervello, tant’è vero che ledendo quell’area si mutano radicalmente sia la personalità sia il pensiero. Cos’è, quindi, quest’uomo, se non una scimmia nuda? Di cos’è fatto, quest’uomo, se non unicamente dalla fisicità che lo rappresenta?

Certamente amore, pensiero, etica, arte, per quanto non siano in grado di fornire una giustificazione alla nostra vita, sono “utili” alla nostra esistenza (William James: «È vero quello che funziona»), giacché la rendono ricca, interessante, varia, feconda, un’esperienza entusiasmante e, non a caso, piacevole. Bisogna guardare le cose dall’interno, non dall’esterno, e dal minimo al massimo, non viceversa. Che ne sa l’atomo interno a un tessuto che compone un corpo che siamo “noi”, che Les Demoiselles d’Avignon è un bel dipinto?

Vita

Senza il carapace mitologico, l’Uomo (ri)diventa un semplice animale fra animali; vengono meno tutti i Super-Io costruiti con l’unica funzione di tenere in pressione moralità, responsabilità, etica, valori. Svuotato d’ogni significato altro da sé, l’uomo-cosa rimane un guscio perso in un universo senza valore, di fronte al più totale dei nichilismi. E allora può anche chiedersi cos’è la vita senza più illudersi con una risposta mitica. L’Islam crede che la vita entri nel feto nel 120° giorno di gestazione; l’Ebraismo indica il 40°. Tutte le concezioni mitiche dell’esistenza sproloquiano nel vano obiettivo di fissare un inizio e una sede per il loro presunto spirito vitale. La scienza non si pone la questione in questi termini, per la scienza non c’è uno spirito che entra nella carne e la rende vivente. La vita è un insieme d’attività, come la nutrizione, la respirazione, l’irritabilità, mediante le quali una cosa vivente si distingue da un’altra non vivente. Eppure, anche questa definizione non ci soddisfa, ai fini della comprensione del presunto “valore” che avrebbe la vita.

Un buon metodo di verifica per distinguere una vita di valore da una vita priva di valore è la sua soppressione. Lo spermatozoo è tecnicamente vivo, come qualunque altro organismo unicellulare. Eppure, uccidere uno spermatozoo non provoca allarme sociale o indignazione (salvo che in qualche cardinale contrario alla masturbazione). Un ragno è superiore a uno spermatozoo, ha un minimo di reattività, perfino una socialità. Ma chi se ne importa se lo uccidiamo? Nessuno. E questo vale per molti altri esseri viventi, dal topo alla zanzara, dallo scarafaggio al serpente. Viceversa, se uccidessimo un gattino, un cerbiatto, una foca, un panda o un uccellino, provocheremmo una riprovazione già molto simile a quella innescata dall’uccisione di un essere umano. Anzi, perfino uccidendo un uomo, la riprovazione sociale non è omogenea, ma graduata: minima se la vittima è di una razza antagonista (come i neri per gli americani, gli ebrei per i cattolici, gli zingari per gli italiani), è un delinquente abituale o un “cattivo” acclarato; massima se si tratta di bambini, anziani, parenti dell’omicida, deboli, handicappati.

Da questo ingenuo esempio si deduce che il valore della vita è una sovrastruttura che noi abbiamo eretto in barba a ogni schema logico. Esso dipende molto dalla conformità fra vittima e assassino (è più difficile sopprimere uno simile a sé, mentre per un extraterrestre non nutriremmo né senso di colpa né pietà), dalla Gestalt (ciò che tocca il senso atavico di debolezza e bellezza è più difficile da sopprimere) e dal “comune senso del pudore” vigente (oggi, in India, le vacche sono sacre, ma fino alla grande carestia dell’anno 600 a.C. erano comunemente macellate).

Esistere senza senso

Si può ben agganciare il senso della vita all’esistenza di un dio, ma il vero problema è vivere una vita senza senso in un mondo senza senso all’interno di un universo senza senso che si evolve verso un non senso. Le religioni aiutano a dare un significato all’esistenza? No. La gente si rivolge alle religioni per motivi utilitaristici (santi patroni e dèi sono venerati a scopo di lucro) e per paura della vendetta divina, che molte religioni hanno concretizzato inventando varie forme d’Inferno. Probabilmente, l’unico senso per cui vale la pena vivere è quello del piacere, inteso in senso lato. Difatti, in condizioni normali, noi tutti facciamo solamente cose che in qualche modo ci procurano piacere. E anche quando le nostre azioni appaiono nobili e disinteressate, esse devono in ogni modo offrirci un piacere, qualunque significato noi fossimo disposti a dare a questo termine. Pensiamo ai miti prodotti dal cattolicesimo: chi in preda a estasi, chi votato al martirio, chi al sacrificio missionario. Pensiamo ai tetragoni (de)generati dal militarismo, dove un atto di imbecille isteria diventa facilmente eroismo. L’elenco degli esempi è lungo, e tutti fanno capo a un’accezione personale di “piacere”, anche quando assume la forma del delirio o del puro masochismo.

Bisogna rinunciare a cercare un significato della vita che in realtà non esiste: come, non perché. Noi umani siamo inclini ad annettere una spiegazione a tutto. Lo dobbiamo ai nostri avi che, di fronte a un fulmine, non seppero (e non potevano) far di meglio che pensare che quel fulmine avesse un significato oltre sé, misterioso e inaccessibile. Ma non è così. Bisogna essere curiosi dei meccanismi che permettono l’esistenza delle cose (vita compresa) e non dei presunti reconditi fini per cui le cose esisterebbero. La natura non è finalizzata a contenere l’Uomo, tutto fa parte di un lungo e caotico processo d’adattamento. L’umanità non è al centro dell’universo, anzi, a esser precisi è piuttosto un suo inquinante secondario. L’umanità è relegata ai bordi di una galassia immersa nel (forse) infinito universo. La vita è solo una breve attesa. E nel frattempo che aspettiamo la morte, per ingannare il tempo, viviamo. It’s all.