di Carlo Tamagnone
Appare sicuro che il termine “ateismo”, il cui conio si può far risalire grosso modo al primo millennio a.C. in ambito ellenico, non sia comparso a opera di coloro che in esso si riconoscevano bensì da chi intendeva con esso censurare un pensiero e un comportamento riprovevoli e condannabili rispetto alle credenze religiose del tempo, le quali venivano dai cosiddetti “atei” (o empi) disconosciute o combattute; atteggiamenti e comportamenti che suonavano offesa alle usanze cultuali e rituali, che venivano da essi disattese, trascurate o violate. Gli aggettivi “ateo” e “atea” non erano pertanto, allora, come non lo sono spesso anche oggi, attributi che qualificassero una persona nel suo legittimo modo di pensare e di agire, bensì un aggettivo di riprovazione e condanna, carico di disprezzo e di biasimo. E tuttavia, come spesso accade nelle lingue, alla fine è l’uso dei termini che ne determina e sancisce il significato, piuttosto che l’etimo. Per questa ragione noi continueremo a definirci atei anche se, per molti versi, la qualifica può risultare riduttiva, se non addirittura sviante. Si aggiunga che essere atei non significa soltanto respingere le ipostasi religiose, in qualsiasi forma e modalità, ma anche ciò che a esse è correlato: la superstizione e la divinazione, la credenza in reliquie e in oggetti taumaturgici, il ricorso a pratiche magiche o pseudo-magiche, il riferimento e il ricorso a forze considerate in qualche modo “soprannaturali”, siano personali o impersonali.
Va ancora aggiunto che il termine “ateismo”, riferito a una categoria di appartenenza ideale, e la qualifica di “ateo”, come attributo afferente un certo atteggiamento filosofico, vengono talvolta respinti, più o meno inconsapevolmente, persino da numerosi atei, che mal sopportano il peso del secondo, in quanto si è caricato nei secoli di un significato largamente negativo, preferendovi (non senza qualche incoerenza) quello di libero pensatore, scettico, agnostico, ecc. Ciò a riprova di quanto sia ancora difficile nel XXI secolo proclamarsi atei senza correre il rischio di essere guardati con disprezzo, o almeno con diffidenza. Malgrado ciò, in realtà, gli atei nel mondo non sono poi così pochi come la loro presenza mediatica e culturale potrebbe far supporre; ciò vale persino per la cattolicissima Italia, dove essi sembrano essere piuttosto numerosi, a dispetto del fatto che l’ateismo italiano, sul piano politico e sul piano culturale, sia un’entità sociale scarsamente rappresentata e ancora per molti versi ignorata.
Non essendo per nulla nostra intenzione fare dell’inopportuno e improbabile proselitismo, non sarà fuori luogo proporre alcune considerazioni di carattere generale concernenti l’ateismo contemporaneo, al quale si sente di appartenere lo scrivente e ai quali faranno probabilmente riferimento coloro che ci leggono (sperandoli numerosi e non troppo esigenti).
Noteremo però subito che con tutta probabilità, e per la maggior parte di essi, il rifiuto di Dio (o più in generale del “sacro”) non è tanto la conseguenza di una riflessione razionale sul significato dell’ateismo stesso e quindi sulle sue valenze sui piani filosofico ed esistenziale, quanto una semplice (e spesso irriflessiva) professione di incredulità, più o meno accompagnata dal desiderio di prendere le distanze da ciò che appare come un inaccettabile tributo alla credulità popolare e tradizionale. Si pensa infatti che l’ipostasi di Dio non sia credibile, e vada pertanto respinta, ma non ci si domanda quali possano essere sul piano filosofico e su quello esistenziale le conseguenze della negazione radicale della sua esistenza, o meglio ancora, dal prescinderne nella propria Weltanschauung1. In altre parole, non si crede in un Dio la cui esistenza e le cui prerogative non convincono, ma neppure ci si avvede del nuovo orizzonte che si spalanca una volta che venga eliminata la sua inconscia (eppur cogente) presenza nella nostra mente, causata dalla pervasività psichica del concetto di Dio (o almeno del “divino”) e del suo consolidamento filogenetico-culturale, attraverso l’imprinting e l’educazione.
L’eliminazione filosofica del concetto di Dio in realtà va molto oltre la professione di ateismo; essa, qualora venga profondamente tematizzata, può dare luogo a una sorta di rinascita all’esistenza, come soggetti “metafisicamente liberati” e pertanto proiettati in un orizzonte aperto, dove risultano tranciate tutte le catene di un’ipotetica e vincolante “trascendenza”, dalla quale dipenderemmo ab origine e che ci permeerebbe nel profondo. Tale trascendenza ha “legato” gli uomini nei millenni, condizionandone la loro cultura e il loro sviluppo cognitivo, ma anche (ci sembra corretto ammetterlo) con qualche merito sul piano etico e sociale, se è vero che non vi è civiltà che in qualche modo non si sia fondata originariamente sul timore, sul riconoscimento e sul ricorso al divino, attraverso il mito, la credenza, il culto ed il rito. Non è tuttavia in questa sede che ci occuperemo di questo aspetto storico-antropologico (anche perché lo abbiamo già trattato ampiamente altrove2).
Volendo tuttavia fare il punto sulla situazione reale dell’ateismo contemporaneo non possiamo esimerci dal riconoscere, come sua contrapposta, una certa “ripresa spiritualistica” in questi ultimi decenni, la quale, almeno in termini di evidenza mediatica, non può che essere riconosciuta e insieme destare qualche sorpresa. Le librerie sono piene di libri dedicati alla religiosità, sia essa riferibile alla religione tradizionale e istituzionalizzata (quella cristiana), a religioni “esotiche” (per lo più di ascendenza orientale) o a sincretismi di vario tipo. Sugli schermi televisivi italiani il più alto rappresentante della cristianità ci viene proposto quasi a ogni pranzo e cena; numerosissime sono le testimonianze di fede in ogni circostanza eccezionale o quotidiana; i talk-show che hanno per tema Dio, la “spiritualità” o la morale religiosa, ricorrono con straordinaria frequenza. Occorre ammettere che di fronte a tanta vivacità d’immagine e d’informazione l’ateismo può contrapporre soltanto qualche modesta rivista associativa, alcune mailing list a esso dedicate e (questo sì) diversi siti Internet, però accessibili a una sparuta schiera di interessati. In tale situazione l’ateismo, e in special modo quello italiano, risulta del tutto marginale ed emarginato, quando non maliziosamente relegato talvolta tra le stravaganze esibizionistiche dei “tempi moderni”. D’altra parte, dopo la vivacità settecentesca, la penetrazione ottocentesca (sulla scia dello scientismo) e la sua identificazione con l’ideologia marxista, l’ateismo oggi potrebbe sembrare addirittura “in ritirata” e qualche imprudente teologo potrebbe per alcuni versi definirlo persino “datato”3.
È probabile che la causa principale di tale eclisse mediatica dell’ateismo dipenda anche da un’impropria identificazione con un’anti-religione in forma “dominante” e totalitaria, che ha segnato profondamente (e in gran parte negativamente) la storia del XX secolo. In quanto ateismo imposto dalla politica (o meglio dal potere) e non invece determinato da una spontanea adesione a esso (quale specifica concezione del mondo e della vita sganciata da ogni sua utilizzazione a fini politici o sociologici) l’immagine dell’ateismo risulta per molti versi fortemente degradata. Né si può parlare di una crisi di identità poiché, a ben vedere, un’identità atea sul piano filosofico non è mai esistita e ciò neppure nelle epoche (ad esempio quella illuministica) di sua maggiore vivacità teorica. L’identità atea quindi deve considerarsi ancora molto lontana da una sua realizzazione, se per identità s’intende un patrimonio culturale filosoficamente determinato e fondato, in cui un individuo possa riconoscersi senza essere fuorviato da incrostazioni o paramenti politici o sociologici. In realtà, infatti, alcuni regimi politici hanno, in un passato recente, combattuto la religione (a volte reprimendola con violenza) considerandola piuttosto come espressione di un contro-potere ideologico ed economico, anziché come una Weltanschauung ideologica da respingere su base filosofica. Dal nostro punto di vista essa è invece da analizzare con attenzione nelle sue componenti e nelle sue motivazioni, rispettando l’assoluta legittimità del fatto che essa possa venire a tutt’oggi teorizzata, difesa e praticata, in un clima di libertà che va difeso e garantito, poiché va considerato fondamento di ogni autentico ateismo. Si tratta, infatti, di scoprire le nascoste esigenze psichiche che sul piano antropologico ne hanno giustificata la sua costruzione e la sua istituzionalizzazione, dati gli innegabili vantaggi pratici che ne derivano sul piano delle coscienze individuali e su quello della coesione sociale.
Ma la causa di questa relativa eclissi d’immagine dell’ateismo non è identificabile solo col fatto di essersi accompagnata a ideologie socio-politiche pregresse; ve n’è un’altra molto più profonda, che è rappresentata non solo dall’indebolimento di un velleitario scientismo ateo, quanto dalla crisi di fiducia nella scienza stessa, complici certi eccessi delle sue applicazioni tecnologiche (spesso più fantasticati che realizzati) i quali metterebbero a rischio l’esistenza stessa dell’umanità o quanto meno i valori morali che l’hanno accompagnata nel mondo occidentale dall’affermazione del Cristianesimo in poi4. Si potrebbe probabilmente far iniziare questa deriva anti-scientifica (e implicitamente irrazionalistica e filo-religiosa) dalla distruzione di Hiroshima e Nagasaki nel 1945 o, meglio, dalla presa di coscienza che il progresso scientifico non è solo al servizio dell’uomo, ma che in alcune sue forme può essergli non solo dannoso, ma addirittura esiziale. A “fissare” tale consapevolezza hanno contribuito in seguito l’inquinamento ambientale, numerosi e gravissimi disastri ecologici, l’effetto serra, il buco dell’ozono, ecc. Ma forse a dare il colpo decisivo è stato il gravissimo incidente avvenuto nella centrale nucleare di Cernobyl nel 1986, che ha spostato l’asse del pericolo dal piano bellico a quello dell’uso civile del nucleare, alimentando un crescendo inarrestabile di diffidenza verso la scienza e le sue applicazioni.
Analogamente è potuto anche accadere che gli straordinari progressi della biologia e della genetica (tutti nel senso di aiutare l’umanità a risolvere quei problemi sanitari che la medicina e la chirurgia non potrebbero risolvere) grazie ad alcune sciagurate prospettive di replicazione o di prolungamento innaturale della vita umana, hanno finito per collocarsi nella coscienza di molti come uno stravolgimento negativo dell’esistenza, in direzione di una fantascientifica degenerazione dell’umanità. Si è così insinuato il timore, talvolta terrifico, di un futuro pan-scientifico basato su di una sorta di “macchinismo” artificiale spaventevole, in cui la vita umana verrebbe a denotarsi come qualcosa che è sfuggito di mano all’uomo stesso. Ciò ha determinato in molti la convinzione che questo futuro vada assolutamente evitato o perlomeno “allontanato” il più possibile, attraverso una “frenata” al progresso scientifico e un ritorno ad atteggiamenti meno materialistici e più metafisici.
Ma quale strada più adeguata si può dare per evitare questo pericolo se non quella di mitigare il razionalismo e recuperare una “sano” irrazionalismo religioso, molto più gratificante, tranquillizzante e tonificante? In tale contesto si deve peraltro rilevare che tra le scienze contemporanee è stata proprio la cosiddetta “nuova” biologia a generare le maggiori inquietudini sul futuro dell’umanità e sulla sua eredità culturale e religiosa. Essa (la sua nascita è convenzionalmente riferibile alla scoperta del DNA nel 1953) è anche la disciplina scientifica che ha dato alcuni straordinari punti d’appoggio all’ateismo, rendendo la credenza nella possibilità dell’esistenza di un divino creatore sempre più precaria. Ed è forse anche per questa ragione che la biologia contemporanea ha finito per determinare, in generale, un diffuso clima di sospetto circa la “intrusione” violenta di una scienza “disumanizzata” (una nuova intollerabile ubris) nel campo “sacrale” della vita, quale dono soprannaturale, intangibile e da conservare nei termini in cui “biblicamente” è stata concessa.
Tuttavia, se oggi, in questa nuova kermesse trascendentalistica, parlare di ateismo può assumere in alcuni contesti persino il carattere della stravaganza fuori moda, nondimeno ha un senso analizzare la situazione per vedere se esso, fuori da un talvolta becero “ateismo pratico” può, sul piano teoretico, recuperare le proprie antiche origini teoriche e proiettarsi oltre la banale polemica anti-religiosa, caratterizzata molto spesso da un contingente e grossolano anti-clericalismo. Va infatti ribadito che il mondo ateo è effettivamente (e purtroppo) segnato, in larga parte, da atteggiamenti che sono perlopiù “contro” la religione piuttosto che “per” ciò che l’ateismo filosoficamente offre in termini di visione del mondo che si coniuga con quella libertà metafisica che di esso è presupposto fondamentale5. In altre parole, è maggioritario, oggi come ieri, un ateismo che si qualifica per quello che nega piuttosto che per quello che propone, ovvero un ateismo “di protesta” piuttosto che “di proposta”. Noi pensiamo, al contrario, che un ateismo razionale e consapevole dovrebbe “storicizzare” la religione piuttosto che combatterla e per alcuni versi persino accoglierne certe risposte antropologiche, analizzandole alla luce della ragione e della storia della specie Homo Sapiens nelle sue origini e nei suoi sviluppi.
Tra due estremi abbastanza ben definiti (un ateismo realizzato nella condotta della vita in termini di inconsapevolezza concettuale e un altro che sia il frutto di una riflessione teorica) emerge una domanda di carattere pragmatico ed etico che potrebbe essere così enunciata: «È possibile non soltanto fare a meno di Dio sul piano della coscienza individuale, ma anche su quello generale, promuovendo nel consorzio umano dei valori alternativi alla religione che realizzino meglio una qualche forma di eudemonismo largamente diffuso ed eticamente ineccepibile?». Ovvero: «È possibile costruire una società senza Dio e nello stesso tempo assolutamente libertaria, la quale, pur facendo a meno dei millenari “valori morali” fissati dalla fede religiosa, abbia almeno le stesse o maggiori chance di costruire una società giusta e volta al maggior bene dei cittadini?». Si tratta di una domanda più o meno formulata esplicitamente che ha caratterizzato il dibattito tra gli atei in ogni tempo e che però “oggi” è più difficilmente ponibile dopo le disastrose esperienze dell’“ateismo di Stato”, sia durante la Rivoluzione francese e sia durante i cosiddetti “socialismi reali” del XX secolo. Da un punto di vista storico questa possibilità sembrerebbe infatti clamorosamente smentita, ma bisogna tuttavia domandarsi se ciò non sia avvenuto proprio perché quei regimi che hanno imposto l’ateismo erano a loro volta delle religioni (culto della Dea Ragione o culto del “proletariato”) o perlomeno delle pseudo-religioni, nel loro ricorso costante alla violenza ideologica (e per alcuni versi con pretese “salvifiche” non molto dissimili dalla soteriologia cristiana stessa che si intendeva combattere).
L’ateismo autentico, in quanto assertore di libertà metafisica (che sta a base di ogni altra libertà umana) ha un senso soltanto ed esclusivamente se è in grado di condurre sul piano sociale all’affermazione e alla diffusione della libertà in ogni suo aspetto e a ogni livello. Se questa indispensabile prerogativa non viene rispettata l’ateismo viene tradito nella sua stessa essenza e, paradossalmente, un regime che “imponga” l’ateismo e che nel contempo non rispetti la libertà di praticare ogni fede religiosa senza restrizioni risulta per ciò stesso negatore dell’ateismo, il quale non può essere che radicalmente libertario. Ogni sistema di convivenza che imponga dei legami “ideologici” realizza fondamentalmente le premesse di ogni religione, che sono quelle di “legare” gli uomini a qualche entità concettuale che li trascenda in quanto individui (una “totalità” che li comprenderebbe) e nei confronti della quale la loro individualità risulterebbe subordinata e inessenziale.
Posto questo punto fermo, ovvero che la libertà, nella sua massima estensione (esclusa quella di nuocere ad alcun altro esistente) deve considerarsi fondamento primo e irrinunciabile di ogni teorizzazione atea, si tratta di cercarne le origini e tematizzarle come basi di partenza di un percorso volto alla ricerca delle motivazioni di fondo che l’hanno portata o potranno portarla (in forme nuove) a costituirsi come una Weltanschauung alternativa a quelle religiose. Lo scopo del lavoro intrapreso con il volume Ateismo filosofico nel mondo antico è quello di fornire un modesto contributo per la fondazione di questa ricerca, indietreggiando storicamente sino ai primi segni dell’esistenza di una teoresi atea nel mondo antico. In quanto primo passo di una ricerca complessa questo lavoro presuppone un seguito che, speriamo, possa vedere la luce in tempi non troppo lunghi.
Note
* Testo tratto dalla Prefazione al volume di Carlo Tamagnone, Ateismo filosofico nel mondo antico, ISBN 88-8410-077-1, Editrice Clinamen, Firenze 2005, pagine 304, € 24,70.
- Il termine tedesco può essere tradotto con: visione del mondo, concezione del mondo, intuizione del mondo.
- Si rinvia al Capitolo 4 di Necessità e Libertà, Editrice Clinamen, Firenze 2004, pagg. 83-97.
- È un rilievo del teologo francese Vernette, il quale parla addirittura di periodo “post-ateo” (Jean Vernette, L’ateismo, Xenia 2000, pag. 1).
- Un importante e ampio saggio storico sull’ascesa e sull’affermazione del Cristianesimo (ma noi non ne condividiamo gli eccessi polemici) è costituito dalla Storia criminale del Cristianesimo, in traduzione in italiano e fino a oggi pubblicati sei volumi, di Karlheinz Deschner (Edizioni Ariele, Milano 2000-2005). In esso lo storico tedesco conduce un dettagliato excursus storico sui misfatti della religione cristiana, dal suo sorgere alla modernità.
- Vorremmo osservare qui, di passaggio, che l’ateismo che noi difendiamo, in quanto fondato sulla libertà metafisica, risulta non coniugabile con ipostasi metafisiche necessitaristiche o deterministiche di sorta. Laddove esistano filosofie anti-religiose dove sia stata semplicemente sostituito Dio con l’Essere, la Necessità, l’Uno-Tutto, ecc., mantenendo la derivazione dell’universo da un’entità strutturale olistica e originaria che lo precederebbe e lo determinerebbe, non si può parlare, secondo noi, di ateismo, ma semmai di pseudo-religione non cultuale. Un ateismo autentico, infatti, riteniamo non possa fare a meno di fondarsi sull’ammissione del caso come elemento determinante, ancorché non dominante, dell’evoluzione del cosmo.