Una storia in breve e qualche consiglio di lettura
di Maria Turchetto.
Credo che Alberto Savinio abbia ragione: anima è ormai per noi la parola di un lessico familiare infantile, una di quelle parole che «rimangono come suono anche dopo che sono morte come significato». Una parola che ha rivestito tanti significati, ha avuto tante valenze, ha attraversato una storia millenaria, è stata al centro di dispute religiose, stiracchiata da tutte le parti, girata, rigirata, stressata all’inverosimile. Non poteva che finire così, povera anima: un logoro straccetto linguistico, un suono dal significato vago. Scienziati, filosofi, psicologi non l’usano più. Forse nemmeno i poeti. Sta nel vecchio baule dei termini desueti e delle espressioni abusate, ad aspettare che qualcuno la ritiri fuori e scuota via un po’ di polvere: che un paroliere la infili in una canzone d’amore, un prete in una predica, o magari un giornalista sportivo si ricordi quel modo di dire: «il tal giocatore è l’anima della squadra».
Povera anima, ma un po’ se l’è voluta. Diciamolo, ha fatto la puttana, la parolina buona per tutti. In filosofia, se andiamo a vedere, fin dalle origini si è proposta in due significati: uno buono per i materialisti, l’altro per gli spiritualisti. Anima come principio vitale, comune a tutti gli esseri viventi: il “vento” cui rinvia l’etimologia è, in questo caso, il respiro, questo segno tangibile della vita che si riscontra negli uomini, negli animali (animali, appunto) e perfino nelle piante. Anima, invece, come attività cosciente, vita interiore e “spirituale”, contrapposta al corpo e considerata esclusiva dell’uomo: in questo caso, il “vento” allude all’impalpabilità di questa nobile caratteristica, che rende gli uomini tanto speciali. Va da sé che l’anima dei materialisti è mortale, mentre quella degli spiritualisti pretende la vita eterna.
Nella storia della filosofia, l’anima-spirito compare per prima. È Platone a introdurre la concezione dualistica dell’uomo, attribuendogli la prerogativa di possedere questa “cosa” in più, diversa dai corpi, affine al mondo delle idee, immortale. Ma ecco Aristotele, che con una bella mossa riconduce l’anima al corpo: l’anima aristotelica non è altro dal corpo, ne è la forma (entelechia), ossia il principio determinatore e specificatore del corpo, ciò che gli dà vita. E poiché i fenomeni della vita rispondono a differenti funzioni, si possono distinguere l’anima vegetativa, che presiede alla generazione e alla crescita; l’anima sensitiva, che presiede alle sensazioni e al movimento; e l’anima razionale (o intellettiva), che presiede alla conoscenza, alla valutazione e alla scelta. Ahi! C’eravamo quasi: bastava tenere insieme le tre anime, distinguerle soltanto per grado, avere l’umiltà di condividerle tutte con gli altri viventi e avremmo avuto un bel quadro materialista. Scommetto che il nostro Baldo Conti, che ha suscitato un acceso dibattito con il suo articolo «Credere in Dio o essere razionali? Due modalità di un’identica presunzione» (L’Ateo n. 1/2007), non immagina di aver beccato in castagna Aristotele in persona. Sì, Aristotele è presuntuoso, è così fiero d’essere razionale (in fondo era Aristotele, mica lo scemo del villaggio) che non ce la fa a portare fino in fondo la critica al dualismo platonico: ecco che separa l’intelletto dal corpo e ne fa un principio “divino”, dunque immortale. Partito da un’anima-?vita materialista, ci ripropina alla fine un’anima-spirito, ad majorem hominis gloriam. Il materialismo è una conquista difficile: ci vuole umiltà.
Qualcuno ha detto – mi sembra Alfred North Whitehead, ma non ne sono sicura: abbiate pazienza, divento vecchia e la memoria fa cilecca – che la storia della filosofia occidentale non è altro che un seguito di chiose e note a margine alle opere di Platone e di Aristotele. In realtà c’è un terzo uomo, anche se gli stoici latini e i cristiani medievali hanno cercato in tutti i modi di nasconderlo, denigrarlo e disperderne l’opera (ahimè, ci sono quasi riusciti): Epicuro, il pensatore che propone un materialismo raffinato e senza concessioni. L’anima, per Epicuro, è la causa principale delle sensazioni, a partire dalle quali si elaborano le conoscenze così come pure le illusioni, i sogni e i fantasmi dei pazzi: tutta roba “vera”, e per di più corporea. Fatta di atomi. «Bisogna badare bene che la parola incorporeo si applica, secondo l’accezione generale, a ciò che si possa pensare [esistente] di per se stesso. Orbene noi non possiamo pensare di per se stesso [esistente] nulla di incorporeo, se non il vuoto; però il vuoto non è suscettibile di attività né di passività alcuna, ma solamente dà modo ai corpi di muoversi attraverso se stesso. Perciò, quelli che affermano che l’anima è incorporea, non sanno ché si dicono, perché se fosse incorporea, come affermano, non potrebbe essere né attiva né passiva; mentre è chiaro che l’anima la concepisci fornita di queste contingenze» (Epicuro, Opere, frammenti, testimonianze, Laterza, Bari 2003). Ecco un’anima-psiche, per nulla presuntuosa: materiale, caduca, possibilmente fallace, fa parte del corpo.
Non vi allarmate: non ho nessuna intenzione di continuare a seguire le vicende dell’anima lungo tutto il corso della storia della filosofia occidentale. Al contrario: ho voluto raccontarvi brevemente com’è cominciata perché mi preme cercare di capire come e quando è finita. Quand’è che questa ambigua parolina ha smesso di comparire nelle opere di scienziati e filosofi come termine “serio”, significativo e definito, per affacciarsi al massimo come metafora, immagine, vago modo di dire? Questa è la domanda a cui vorrei tentare di dare una risposta.
Salterò dunque a pie’ pari la filosofia medievale, la patristica, la scolastica, tutte le acrobazie per conciliare prima Platone e poi Aristotele con le sacre scritture e i precetti delle chiese (Epicuro no, ovviamente: non c’era proprio verso di conciliarlo). Salterò anche la rinascita del razionalismo in età moderna, dove ritroviamo il dualismo riproposto da Cartesio e superato da Spinoza. E salterò l’illuminismo, dove qualcuno riscopre Epicuro (La Mettrie, ad esempio, autore di una Storia naturale dell’anima che gli attirò ogni sorta di persecuzioni). Qualcuno ha detto – e questa volta non ricordo proprio chi, scusate la mia vecchia testa – che i filosofi si dividono in due categorie: quelli che non hanno un cane, e credono nell’anima immortale; quelli che hanno un cane, e non ci credono. D’accordo, è una semplificazione irrispettosa, ma è un po’ così: l’anima-vita dei “naturalisti” (che hanno un cane) e l’anima-spirito dei “metafisici” (che non hanno un cane) si rincorrono e si contrappongono nel corso della storia della filosofia, finché…
Finché, eccoci arrivati – o quasi: approdiamo, con tutti questi salti, al XIX secolo. «Il secolo di Hegel e della grande filosofia tedesca», direte tutti in coro – mi par di sentirvi. Ma vedete, anche in questo caso i manuali di storia della filosofia non ce l’hanno raccontata proprio giusta. Mentre con Hegel (che di sicuro non aveva un cane) lo Spirito celebra i suoi fasti con tanto di maiuscola, un altro personaggio, a torto considerato minore e relegato ai margini dei libri scolastici (proprio come Epicuro rispetto a Platone e Aristotele), propone una nozione di anima davvero straordinaria, capace di rifondare gli studi di psicologia. Sto parlando di Johan Friedrich Herbart (scommetto che a scuola non ve l’hanno nemmeno menzionato), fautore di una ripresa di Kant per confutare l’idealismo e autore – per quel che c’interessa – della Psicologia come scienza (1824). L’anima è definita da Herbart come un reale in relazione con altri reali; gli atti d’autoconservazione dell’anima, definiti come “reazioni a perturbamenti”, producono delle rappresentazioni di intensità diverse, quantificabili; gli stati psichici sono perciò matematicamente determinabili e dunque classificabili. Ho fatto del mio meglio per riassumere in poche righe la complessa concezione herbartiana, che certo richiederebbe tutt’altra trattazione (se siete incuriositi, vi consiglio Introduzione a Herbart di Renato Pettoello, nella collana “I filosofi”, Laterza, Bari 1988). Credo, tuttavia, che ritroverete in questa sommaria definizione qualche traccia dell’anima-psiche epicurea. E soprattutto dovrebbe suonarvi come un vero e proprio programma di ricerca sperimentale: programma che in effetti decollò in Germania, cinquant’anni dopo, con il nome di “psicofisica”, grazie agli studi di Fechner, Weber, Helmholtz, Wundt.
Questa volta ci siamo davvero: abbiamo trovato l’assassino. Wilhelm Wundt, proprio lui, fondatore del primo laboratorio di psicologia sperimentale (Lipsia, 1879), autore di Fondamenti di psicologia fisiologica (1873), si batte contro la “definizione metafisica” della psicologia come “scienza dell’anima”, ossia contro l’idea secondo cui «i processi psichici sono considerati come fenomeni, dai quali si debba dedurre l’esistenza di una sostanza metafisica, l’anima». Tale «definizione metafisica corrisponde a uno stato, il quale per la psicologia è durato più a lungo che per altri campi del sapere. Ma anche la psicologia lo ha finalmente superato, da quando essa si è sviluppata in una disciplina empirica, che lavora con metodi propri». È l’atto di fondazione della psicologia in quanto scienza autonoma: da questo momento il termine anima non verrà più preso sul serio, consegnato ormai per sempre alla preistoria del sapere, come i “mondi sublunari” dopo la rivoluzione copernicana, come il “flogisto” dopo la tavola degli elementi di Mendeleev, come la “creazione” dopo la teoria di Darwin.
Oggi in Italia della psicofisica tedesca si sa poco. Una volta – alla fine dell’Ottocento, quando l’accademia italiana era laica e materialista – se ne sapeva parecchio: personaggi come Roberto Ardigò e Antonio Labriola avevano fatto conoscere gli studi e le teorie della psicologia sperimentale. Ma ci ha pensato Benedetto Croce a farli fuori, a scatenare un’offensiva in piena regola contro il materialismo, a spiegarci «perché non possiamo non dirci cristiani» e a rimettere lo spirito a cavallo. I materialisti hanno perso – uffa, perdono sempre! – e i vincitori, gli idealisti, hanno scritto la loro storia della filosofia: una storia piena di spiriti e di anime metafisiche, una storia senza Herbart, senza Wundt, senza Ardigò.
Se volete colmare questa lacuna dei nostrani manuali di filosofia, vi consiglio, per cominciare, di leggere l’Introduzione alla psicologia di Luciano Mecacci (Laterza, Bari 1995). Troverete un percorso che, partendo appunto dalla nascita della psicologia come scienza autonoma nella seconda metà del XIX secolo, si dipana attraverso lo strutturalismo di Titcher e il funzionalismo di James e Dewey; si differenzia nelle grandi scuole novecentesche, la psicoanalisi freudiana, il comportamentismo, la scuola pavloviana, la scuola piagetiana e l’etologia; per approdare, ai giorni nostri, alle neuroscienze e al cognitivismo. Troverete anche, in appendice, una piccola antologia di scritti dei principali protagonisti di questa straordinaria avventura conoscitiva (è di lì che ho tratto la citazione di Wundt sopra riportata), attraverso la quale l’anima – povera anima – si perde. Resta, se volete, il pensiero, come oggetto, in ultima analisi, di questo ormai grande insieme interdisciplinare. Ma è un pensiero che risulta, alla fine di questo percorso, al tempo stesso ridimensionato e dilatato.
Ridimensionato, in primo luogo, perché ricondotto alla sua base biologica: al cervello, al sistema nervoso ed endocrino. «È tutta ciccia», come mi dice spesso il genetista Marcello Buiatti, che è mio vicino di casa. Dice qualcosa di simile anche Francis Crick, lo scienziato che cinquant’anni fa, insieme a James Watson, scoprì la struttura del DNA: «l’attività cerebrale e quella intellettuale appartengono davvero a due sfere distinte, irriducibili […]? O non sarà invece possibile formulare in modo scientificamente corretto l’ipotesi che la parte spirituale dell’uomo (in ultima analisi la sua ‘anima’) sia riconducibile a una serie di complessi ma concreti meccanismi chimici ed elettrici?» (F. Crick, La scienza e l’anima, Rizzoli, Milano 1994). Molecole, atomi, elettroni: insomma, aveva ragione Epicuro? (Vi segnalo qualche altro titolo: J.P. Changeux, A. Connes, Pensiero e materia, Bollati Boringhieri, Torino 1991; V. Somenzi, La materia pensante, Clup Città Studi, Milano 1991; G.M. Edelman, Sulla materia della mente, Adelphi, Milano 1993).
Ridimensionato, in secondo luogo, perché dopo Freud sappiamo che la “coscienza” – l’“anima razionale” di Aristotele, quella che conosce, giudica e sceglie – «non solo non è padrona in casa propria, ma deve fare assegnamento su scarse notizie riguardo a quello che avviene inconsciamente nella psiche» (S. Freud, «Introduzione alla psicoanalisi», in Opere, Vol. 8, Boringhieri, Torino 1976): si tratta, secondo Freud, della terza grande “mortificazione alla megalomania dell’uomo”, dopo quelle inferte prima da Copernico, togliendo la Terra dal centro dell’universo, e poi da Darwin, mostrando all’uomo la sua genealogia animale.
Sopportate le mortificazioni (ve l’ho detto, per essere materialisti ci vuole umiltà), godiamoci qualche soddisfazione. Come scrive Mecacci nel libro che ho citato, «il mondo psichico progressivamente si dilata, collegandosi, da una parte, alla sfera dei processi biologici e del comportamento animale e, dall’altra, alla sfera dei processi sociali». La famiglia si allarga. Voglio dire, si allarga in primo luogo il campo di studi: anche gli animali (meglio, anche gli altri animali) sono dotati di sistema nervoso ed endocrino, certe specie anche di un cervello molto complesso, dunque dobbiamo chiederci quali siano le analogie e le differenze. Del resto è stato proprio Darwin a iniziare questo tipo di studi comparati con L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872). Tra gli studi contemporanei sull’argomento, vi consiglio vivamente A. Damasio, Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, Adelphi, Milano 2003 (vi insegnerà a far felice un moscerino); G. Vallortigara, Cervello di gallina. Visite (guidate) tra etologia e neuroscienze, Bollati Boringhieri, Torino 2005 (vi insegnerà ad avere rispetto dei piccioni, decisamente superiori all’uomo in certe prestazioni cognitive); D. Mainardi, Nella mente degli animali, Cairoeditore, Milano 2007 (una lettura molto piacevole, v’insegnerà che anche gli elefanti – oltre all’uomo e alle altre scimmie – hanno una “coscienza”). La ricaduta in termini di senso comune non è da poco: ora sappiamo di poter condividere con gli altri viventi non solo una “vita” poveramente intesa (l’aristotelica “anima vegetativa”, al più quella “sensitiva”), ma anche affetti e pensieri, dunque possiamo cercare, ottenere, dare conforto al di là dei confini della nostra specie (i filosofi che hanno un cane l’hanno sempre saputo). Questo aumenta la sfera della nostra responsabilità, come faceva notare su questa rivista Valerio Pocar («Dopo Darwin. Le ragioni dell’antispecismo», L’Ateo n. 3/2006), ma direi che ne vale la pena. Inoltre l’uomo non è più considerato come un’entità isolata dall’ambiente sociale in cui vive e agisce, e ci si chiede allora come i fenomeni psicologici siano influenzati e determinati dalle condizioni sociali. Sembra una banalità, eppure il pregiudizio che intelligenza, indole e comportamenti siano innati è duro a morire, e spesso proprio la biologia e la frenologia hanno fornito infondati “fondamenti scientifici” agli atteggiamenti discriminanti: lo documenta bene il libro di S.J. Gould, Intelligenza e pregiudizio. Contro i fondamenti scientifici del razzismo (Il Saggiatore, Milano 1998). Anche in questo caso la ricaduta in termini di senso comune è un aumento della responsabilità, perché queste acquisizioni impediscono di praticare le scorciatoie del razzismo e del sessismo di fronte al disagio sociale. Ma anche in questo caso direi che ne vale la pena: si guadagna in capacità di capire gli altri e in impegno nei progetti di costruzione di una società più giusta.
Fare a meno dell’anima è un progresso morale, oltre che una conquista della scienza? Penso proprio di sì. Lo pensava, del resto, anche Darwin: «Col progredire dell’uomo verso la civiltà e l’unificarsi delle tribù in comunità più ampie, la più semplice ragione dovrebbe dire a ciascun individuo che egli dovrebbe estendere i suoi istinti sociali e le simpatie a tutti i membri della stessa nazione, anche se a lui personalmente ignoti. Raggiunto questo punto, vi è solo una barriera artificiale che gli impedisce di estendere le due simpatie agli uomini di tutte le nazioni e razze. Se infatti tali uomini sono separati da lui da grandi differenze nell’aspetto o nelle abitudini, l’esperienza, disgraziatamente, ci mostra quanto ci vuole prima che egli li consideri suoi simili. La simpatia oltre i confini umani, cioè l’umanità verso gli animali inferiori, sembra che sia una delle ultime acquisizioni morali. […] Questa virtù, una delle più nobili di cui sia provvisto l’uomo, sembra che sorga per caso dalle nostre simpatie, che si vengono sempre più teneramente e ampiamente diffondendo, fino a che si estendono a tutti gli esseri viventi» (Ch. Darwin, L’origine dell’uomo, Newton, Roma 1994). Ma la strada in questa direzione è ancora lunga e molto impegnativa: è ancora ostacolata, ad ogni passo, dalle chiese e dai filosofi che non hanno un cane.