di Marco Mangani
Come tutte le attività umane, anche la musica è oggetto del dibattito sui rapporti tra natura e cultura. Storicamente, la comprensione del ruolo svolto dal contesto socio-culturale nella produzione del fatto musicale ha avuto un ruolo determinante, soprattutto nel mettere in crisi il nostro orgoglio etnocentrico: quello, per intenderci, che induceva gli occidentali a ritenersi portatori della “vera” musica. La conoscenza sempre più vasta che abbiamo acquisito, a partire dal tardo Ottocento, intorno alle pratiche musicali dei diversi popoli e delle diverse tradizioni ci ha aiutato a comprendere che le regole della musica occidentale non sono affatto fondate nella natura del suono, ma sono il frutto di una serie di convenzioni maturate nel tempo, e spesso derivate da percorsi diversificati quando non addirittura contraddittori. Lo aveva già perfettamente intuito, del resto, uno scienziato del calibro di Hermann von Helmholtz, che nel 1863 (Die Lehre von den Tonempfindungen als physiologische Grundlage für die Theorie der Musik) ribadiva «il principio, non ancora ben presente ai nostri teorici e storici della musica, che il sistema delle scale, delle tonalità e del loro tessuto armonico non poggia su leggi naturali immutabili, ma è la conseguenza di principî estetici che sono soggetti al cambiamento con lo sviluppo progressivo dell’umanità, e che lo saranno ancora in futuro». Anzi, lo studio della musica occidentale in prospettiva storica (dai Greci ai giorni nostri), che si è affinato nella seconda metà del secolo appena trascorso, ha contribuito non poco a mostrare come le regole che governano la creatività musicale siano mutevoli anche all’interno di una stessa civiltà: e non sarà certo qualche neo-pitagorico con la clessidra al polso a modificare nella sostanza questa acquisizione della musicologia1.
Oggi, tuttavia, il dibattito si sta inevitabilmente spostando: se per molto tempo è parso necessario porre l’accento sulle differenze, attualmente riaffiora l’inevitabile domanda su quali siano, nell’immenso panorama delle attività musicali, le costanti. Per comprendere il senso di tale domanda occorre tener conto di un annoso contrasto, che ha riguardato principalmente (ma non certo esclusivamente) l’etnomusicologia, ossia proprio la disciplina che studia le tradizioni musicali dei diversi popoli e delle diverse comunità umane2: alludo al contrasto tra “culturalismo” e “strutturalismo”. Col primo termine s’intende l’atteggiamento di chi ritiene di potersi accostare a una diversa cultura musicale solo divenendo partecipe di quella cultura e rinunciando alle categorie classificatorie della cultura propria. Per fare un esempio un po’ semplicistico, ma che può essere efficace: se una data cultura musicale non possiede il concetto teorico di “scala” (ossia di “insieme discreto e ordinato di altezze”), nello studiarla l’etnomusicologo culturalista (o almeno, il culturalista trinariciuto) rinuncerà a usare tale concetto, nella convinzione che sia più importante capire i processi culturali che di quella musica sono all’origine, piuttosto che il modo nel quale essa “funziona” in termini strettamente tecnici. Al contrario, lo strutturalista (nel senso inteso in questo contesto) cercherà di capire il funzionamento di quella musica con gli strumenti scientifici di cui dispone (ivi compreso il concetto di “scala”), convinto che tali strumenti, per quanto derivati dalla sua propria tradizione culturale, riescano a garantirgli un certo tasso di oggettività. In altri termini, e semplificando all’estremo: il culturalista pone l’accento sulle differenze, lo strutturalista sulle costanti. Ora, se è vero che l’approccio alle scienze umane prescindente dichiaratamente dai metodi e dalle problematiche delle scienze della natura (insomma, il culturalismo) si rivela di tanto in tanto salutare nel porre problemi, nel sollevare dubbi e nel bandire false certezze poggianti su fondamenta d’argilla, è vero altresì che raramente tale approccio riesce a dare risposte davvero soddisfacenti. Anche la musicologia, insomma, conosce quel «relativismo culturale esasperato e infondato» che Leda Cosmides e John Tooby rimproverano all’antropologia e alle scienze cognitive refrattarie alla prospettiva evoluzionistica. Oggi tuttavia sono molti i segnali che mostrano come, anche negli studi musicali3, l’eccesso di culturalismo stia cominciando francamente a stancare.
Al pari di molte altre attività umane, anche la musica conosce la sua brava disputa sugli universali. A tale proposito, la domanda è: esistono dei tratti musicali comuni a tutte le culture, o dobbiamo concludere che “musica” è ciò che ogni comunità riconosce come tale? La tentazione (culturalista) di rispondere a tale domanda in termini negativi è, ammettiamolo, forte; basti pensare che alcune lingue africane sono addirittura prive di un equivalente del sostantivo “musica”, e conoscono solo l’equivalente dell’aggettivo “musicale”: come dire che quelle culture non riconoscono alla musica un’autonomia in quanto oggetto (di contemplazione estetica, ad esempio), ma le attribuiscono il ruolo esclusivo di modificatore delle attività di altra natura: non esiste insomma, per quelle culture, la “musica”, ma esiste un modo “musicale” di fare le cose. Le ricerche condotte ostinatamente su basi strutturaliste, tuttavia, hanno ormai messo in luce che l’ipotesi degli universali, lungi dall’essere un’arbitraria astrazione, è quanto mai fondata e verosimile4.
Il problema è capire dove tali universali vadano cercati. È oramai abbastanza chiaro, in ogni caso, che la ricerca va effettuata non tanto nell’ambito della natura fisica del suono (che non ha più misteri da svelare), quanto nelle strutture della mente che tale suono sono atte percepire (e che di misteri da svelare ne hanno ancora parecchi): insomma, farà piacere ai lettori de L’Ateo sapere che l’approccio scientifico alla natura umana, con le sue basi evoluzionistiche, sembra essere la via maestra per comprendere come e perché apprezziamo la musica e quali elementi accomunino le differenti pratiche musicali; e, forse, anche per prevedere quali musiche siano suscettibili di ricevere i maggiori consensi. Ciò permetterebbe dunque, ad esempio, di porsi con coraggio le giuste domande sul limitato successo riscosso da certa produzione colta occidentale del Novecento (la famigerata dodecafonia piuttosto che le avanguardie del secondo dopoguerra) e sull’ascesa dei generi pop: la risposta non si troverà, però, poggiando sulle malferme basi di una presunta “naturalezza” del tradizionale sistema tonale, poiché quest’ipotesi non spiega nulla. Se fosse vero che le dissonanze del sistema tonale classico risultano intrinsecamente sgradevoli, non si capirebbe perché interi repertori che usano, ad esempio, come accordo privilegiato la settima maggiore godano di così vasta e innegabile popolarità. A questo proposito, visto che non tutti i lettori sono tenuti a conoscere i termini tecnici, sarà utile un chiarimento.
Per comodità, possiamo individuare l’intervallo di settima maggiore su un pianoforte: è la distanza che intercorre tra un Do e il Si che si incontra sei tasti bianchi dopo, procedendo verso l’acuto. Se si eseguono le due note simultaneamente, si ottiene una sonorità che la tradizione occidentale ha sempre considerato come fortemente dissonante: gli accordi (ossia, le combinazioni simultanee di più suoni) che contengono tale sonorità sono impiegati di rado e regolamentati in maniera piuttosto rigida; in particolare, non è consentito, nell’ambito dell’armonia tradizionale, usare un simile accordo per iniziare o (tanto meno) per concludere un brano musicale. In una valse di Ravel, in una canzone di Gershwin o in una performance jazzistica (per fare alcuni esempi) è però del tutto normale che la settima maggiore sia trattata come una consonanza, e che sia presente nell’accordo conclusivo: il che manda a ramengo la presunta “scientificità” di certi approcci che vorrebbero fondata in natura la “sgradevolezza” di questa sonorità, che anzi (è un altro esempio che mi viene alla mente) nella Bossa Nova brasiliana ha una dolcezza tutta particolare. “Galileianamente” si deve prendere atto dell’evidenza che le canzoni di Gershwin sono state tra gli ascolti più graditi dal vasto pubblico del Novecento, il quale non sembrava affatto accorgersi della presenza “sgradevole” delle settime maggiori!5
Piuttosto, dunque, che affidarsi a un naturalismo classico smentito dai fatti, è probabile che, per comprendere al meglio il nostro rapporto con la musica, il modello da seguire sia quello già sperimentato della collaborazione tra linguisti e psicologi evoluzionisti (col fondamentale apporto delle neuroscienze), poiché è verosimile che le “regole della musica” siano piuttosto di natura sintattica che non di natura strettamente acustica. Sappiamo perfettamente, del resto, come la competenza linguistica metta in grado un parlante/ascoltatore di riconoscere la correttezza di una frase in base alle regole di sintassi della propria lingua anche quando tale frase è formata di parole prive di significato (un parlante/ascoltatore italiano individua perfettamente in «i pirotti carulizzano elaticamente» una frase corretta, anche se non vuol dir nulla, mentre riconosce in «se i pirotto carulizzerebbero elaticosza» una frase scorretta). La natura cosiddetta “asemantica” della musica (anch’essa, in realtà, tutta da dimostrare) non sembra essere dunque d’ostacolo a un approccio conoscitivo sul modello della linguistica6.
È bene ricordare tuttavia, a questo proposito, che ricondurre l’indagine sulla musica alle sue basi scientifiche non significa ridurre la musicologia alla biologia. Secondo la felice formulazione di Dan Sperber «se si considera un tratto adattativo fuori contesto, all’interno dell’organismo, e si dimentica tutto ciò che si sa dell’ambiente e della storia, non si è in grado di dire quale sia la funzione di questo tratto, a cosa si sia adattato». In altre parole, anche nel caso della musica non sono i comportamenti a essere determinati biologicamente, ma i moduli della mente ad essi preposti, per le cui origini si deve risalire all’epoca nella quale ci siamo formati come specie: per capire come tali moduli reagiscano nell’epoca della variabilità culturale, tuttavia, il lavoro della musicologia mantiene la sua necessità, e “funziona” coi risultati che ha prodotto e che continua a produrre. Non me ne vorrà il lettore, dunque, se a questo punto invoco un maggior rispetto per il lavoro dei musicologi da parte di tutti quegli appassionati che (soprattutto dal mondo scientifico) si dedicano legittimamente ad approfondire l’analisi dei fenomeni musicali. Lo faccio tuttavia nella piena consapevolezza che un ampio settore della disciplina musicologica è oggi affetto da un morbo che si è diffuso per epidemia a tutte le cosiddette “scienze umane”: quello dell’anarchismo interpretativo postmoderno, il quale, movendo dalla convinzione che l’indagine storica non possa aspirare ad alcun livello di oggettività, legittima qualunque approccio e qualunque “lettura”. Come ho detto, però, non mancano oggi i chiari segnali di una confortante inversione di tendenza.
Concludo con una provocazione. Si consideri quest’affermazione di Christopher Small, un musicologo di approccio “geertziano” (dunque antropologico-culturalista): «i miei amici musicofili si fanno beffe di me quando dico che mal sopporto l’ascolto della “Passione secondo S. Matteo” di Bach, tanto potente e persuasivo è il modo in cui essa incarna un mito al quale sono profondamente ostile». Si confronti ora la frase di Small con l’affermazione seguente: «L’inventario delle più grandiose opere d’arte del mondo ha il suo vertice nei capolavori religiosi… La “Passione di S. Matteo” di Bach, il “Messia” di Händel e quelle meravigliose miniature musicali che sono i canti di Natale sono tra le canzoni d’amore più entusiasmanti mai composte, e le storie che associano alla musica sono composizioni di straordinario potere emotivo».
La cosa interessante è che la seconda frase è di Daniel Dennett, un filosofo che i lettori de L’Ateo conoscono bene e la cui distanza dal mito che sta alla base della Passione bachiana non è certo inferiore a quella di Small. In proposito ho idee molto precise, ma mi piacerebbe che qualche lettore accogliesse la provocazione, aprendo su ciò un dibattito. Sarebbe un bel contributo della nostra rivista alla malconcia cultura musicale di questo Paese.
Note
- Mi riferisco in particolare ad Andrea Frova, Armonia celeste e dodecafonia. Musica e scienza attraverso i secoli, Milano, Rizzoli 2006.
- La precisazione è importante, poiché l’etnomusicologo non studia solo le musiche delle civiltà “altre”: anche le tradizioni popolari europee sono oggetto dell’etnomusicologia, poiché sono il prodotto di realtà socio-culturali ben diverse da quelle che hanno originato la musica “colta” nella medesima area del mondo.
- Per un approccio evoluzionistico alla creatività letteraria, si vedano i saggi contenuti in The Literary Animal, a cura di J. Gottschall e D.S. Wilson. Evanston : Northwestern University Press 2005.
- Il caso più vistoso è quello di Simha Arom, African Polyphony and Polyrhythm, London : Cambridge University Press, 1991 (ristampa 2004).
- Per un’opinione differente (ma ignara dell’esistenza delle canzoni di Gershwin), cfr. A. Frova, op. cit., pp. 296-344.
- La lettura più istruttiva è Isabelle Peretz e Robert Zatorre (a cura di), The Cognitive Neuroscience of Music, London : Oxford University Press 2003. Per un’esposizione divulgativa di questi approcci si legga Silvia Bencivelli, Perché ci piace la musica. Orecchio, emozione, evoluzione, Milano, Sironi 2007.
L’Autore
Marco Mangani è ricercatore presso la Facoltà di Musicologia dell’Università di Pavia-Cremona. Si è occupato di repertori musicali del Rinascimento; è inoltre autore di una monografia su Luigi Boccherini (Palermo, L’Epos, 2005).
Da L’ATEO 5/2007