di Luca Pardi
Da quando ho iniziato a occuparmi del tema della popolazione umana mi sono spesso trovato di fronte accaniti sostenitori della “libertà di procreazione” e dei vantaggi socio-economici della crescita demografica. Il primo argomento dialettico, contro le mie tesi sull’attuale necessità del controllo delle nascite, era la mia presunta impossibilità di dimostrare la realtà della sovrappopolazione umana. Mettendo da parte una prima reazione impulsiva non troppo educata, mi sono trovato costretto a studiare il problema nei suoi vari aspetti per dare una risposta circostanziata. Il primo punto era dunque come rispondere a coloro che chiedono: «Come puoi dimostrare che 7 miliardi di individui sono troppi? E rispetto a che cosa sarebbero troppi?». Essendo un chimico le mie cognizioni di ecologia delle popolazioni erano piuttosto limitate. Del resto, benché chiaramente definito, il concetto di capacità di carico di un ecosistema, in relazione a una data specie, non può essere facilmente quantitativamente determinato a priori ed è spesso determinato a posteriori, per una data popolazione, in seguito a un declino (o un collasso) causato dal suo superamento. Come usare, quindi, un concetto non facilmente quantificabile per convincere della necessità di un rientro dolce, quindi non cruento e non coercitivo, della popolazione umana entro limiti socialmente ed ecologicamente sostenibili? È certo che tutte le misure quantitative escogitate dagli ecologi per misurare la pressione antropica sul pianeta: dall’impronta ecologica1 alla misura dell’appropriazione netta della produttività primaria 2, 3, aiutano a inquadrare il problema della popolazione umana e del peso del suo metabolismo socio-economico sugli ecosistemi terrestri, mostrando che uno dei fattori chiave, il primo, è proprio il numero di umani su questo pianeta. Ma tali concetti e tali misure, pur impressionanti, non hanno il potere di perforare il muro dell’indifferenza per un problema percepito o inesistente o senza soluzione, per considerare solo i due estremi dell’intera gamma di posizioni sul tema della sovrappopolazione. Sembra che gli argomenti scientifici articolati abbiano un valore solo per coloro che sono già convinti o hanno gli strumenti e la volontà di affrontarli.
Non più di un anno fa m’imbattei finalmente in un dato che ha la forza di convinzione di un cazzotto nello stomaco e che, se compreso, non può che lasciare perplessi anche i più ottimisti sostenitori della possibilità di un’ulteriore, se non infinita, espansione demografica umana su questo pianeta. Il dato è molto semplice e crudo: si stima che della biomassa totale dei vertebrati terrestri (mammiferi, rettili e uccelli), il 2% circa sia selvatica, mentre il restante 98% sia costituito per 1/3 circa dalla biomassa umana e per 2/3 dalla biomassa dei nostri animali domestici, che non sono ovviamente (soltanto) canarini, criceti, cani e gatti, ma prevalentemente bovini, ovini, suini e pollame4. Ci sarebbe poco da dire, senonché questo dato, oltre a cozzare con il citato tabù demografico, cozza con il forse più grave, e correlato, problema dell’analfabetismo naturalistico della cittadinanza. Per questo uno si trova a spiegare che in quel 2% selvatico non sono, per esempio, compresi gli insetti i quali non sono vertebrati e neppure altri artropodi. Artropodi? Ma di che parli? Insomma, un bel problema e una sfida quotidiana che richiederebbe maggiore applicazione anche da parte dei molti naturalisti che, pur essendo perfettamente consci del problema, rifuggono atteggiamenti troppo militanti che li allontanerebbero dalla rassicurante atmosfera accademica.
Oggi non è più tempo di comode battaglie culturali sulla carta, giocate in punta di fioretto su riviste specializzate o in oscuri convegni. Oggi c’è la necessità impellente di comunicare, almeno a coloro che hanno spento per cinque minuti la televisione e non sono soverchiati dal rumore di fondo dell’industria dell’informazione-intrattenimento-spettacolo (news-entertainment), che la situazione è grave non solo perché le sorgenti di risorse rinnovabili e non rinnovabili si stanno assottigliando, non solo perché la capacità di assorbimento dei cascami del metabolismo socio-economico da parte degli ecosistemi terrestri si sta esaurendo, ma, soprattutto, perché i consumatori di quelle risorse e i produttori di questi cascami, il cui numero è gia soverchiante da oltre un secolo5, aumentano ogni anno di 80 milioni di individui. Purtroppo l’ideologia della crescita, demografica ed economica, ha beneficiato della fusione del credo religioso con quello economico e anche con quello tecnocratico, una fusione che ha prodotto un punto di vista antropocentrico perfetto, di matrice giudaico-cristiana, difficile da scalfire. La fede in Dio è lo strumento della coesione sociale, il sistema di mercato dà i segnali di scarsità attraverso il sistema dei prezzi, la scienza e la tecnica risolvono tali problemi. La crescita infinita è possibile, Malthus prima e il Club di Roma6, 7 poi hanno sbagliato8, per sempre e senza appello. È l’ideologia della cornucopia. Purtroppo per gli officianti di questo credo unificato, le cose vanno diversamente. Malthus ebbe la colpa di formulare una teoria sostanzialmente corretta, se pur proponendo un modello rozzo, alla vigilia della scoperta dell’uso dei combustibili fossili, carbone, petrolio e gas. Per quanto la consequenzialità di due eventi non sia una prova di causalità, nel caso specifico dell’esplosione demografica, il fatto che sia stata determinata dalla crescita costante dell’energia pro-capite disponibile (in statistica trilussiana ovviamente) è una tesi più che convincente. Non c’è bisogno di dimostrare l’effetto espansivo che ha avuto la meccanizzazione motorizzata dell’agricoltura sulla produzione di cibo.
Alla fine del XIX secolo la pur ricca agricoltura statunitense già meccanizzata, ma basata sulla trazione animale, sosteneva una popolazione di 75 milioni di abitanti; tale popolazione è raddoppiata due volte in poco più di un secolo. L’estesa meccanizzazione dell’agricoltura, la cosiddetta rivoluzione verde, ha moltiplicato per un fattore 40 la produttività agricola riducendo al contempo la manodopera necessaria a parità di prodotto4. La cosiddetta rivoluzione verde è stata definita efficacemente come mezzo di trasformazione di petrolio in cibo. È su questo aspetto che suona il campanello d’allarme. Il petrolio non durerà per sempre. Tutti lo sanno, ma quasi nessuno ha capito la gravità della situazione. Già oggi siamo a un punto critico della storia estrattiva di questa fonte primaria, il cosiddetto “Picco globale del Petrolio”, il massimo storico della produzione mondiale di questa fonte, dopo il quale inizierà un inesorabile declino9-12.
A questo punto entrano in gioco i dogmi dell’ideologia della cornucopia. Il petrolio scarseggia? Il mercato segnala la scarsità attraverso il sistema dei prezzi, induce la società a cercare il sostituto, la tecnica trova il o i sostituti e, con al più qualche piccolo assestamento, il sistema riparte in regime di Business as Usual (BAU). Continuate a far figli tranquillamente, ogni nuova generazione sarà più ricca della precedente e tutto andrà bene nei secoli dei secoli, amen. E se invece la tecnica non trovasse il sostituto? Se fosse impossibile garantire un flusso continuo di energia a basso costo e alto ritorno energetico come quello fornito dal petrolio nell’ultimo secolo? Il ritorno energetico di una fonte primaria di energia è come il ritorno di un investimento economico, se l’energia fornita da una certa fonte è maggiore di quella spesa per procurarsela bene, altrimenti la fonte non è più vitale per la produzione energetica. All’inizio della sua storia estrattiva una certa quantità di petrolio forniva 100 volte più energia di quella spesa per estrarlo, oggi questo rapporto è sceso sotto il valore di 10 e in molti casi ancora più in basso. Questo rapporto viene spesso indicato come EROEI (Energy Return on Energy Input) e, tanto per dare dei termini di confronto, è pari a circa 80 per l’idroelettrico, 3-4 per il fotovoltaico, 6 per l’eolico convenzionale e 10 per il carbone13. La discesa dell’EROEI del petrolio segnala, come la crescita del suo prezzo, un problema crescente di approvvigionamento. Si sfruttano giacimenti sempre meno favorevoli dal punto di vista ambientale e geografico. L’aneddotica petrolifera che si può gustare sui giornali quotidiani e sugli altri mezzi di informazione non può nascondere il fatto che un numero crescente dei grandi giacimenti che hanno fornito la maggior parte del petrolio negli ultimi 50 anni sono in declino produttivo, altri danno segni di stanchezza, e non può nascondere neppure che le condizioni di estrazione dei nuovi giacimenti sono spesso proibitive dal punto di vista operativo: petrolio ultraprofondo, polare, ecc. Sui pozzi ENI del Kašagan nel Mar Caspio si lavora a 40 °C d’estate a –40 °C d’inverno e l’alto contenuto di acido solfidrico consiglia spesso l’uso delle maschere antigas sulle piattaforme. Naturalmente questa stasi produttiva si combina con la crescente domanda di una popolazione in crescita e per la sua stragrande maggioranza in cerca legittima di fuoriuscita dalla miseria.
Quindi? Popolazione in crescita al ritmo di 80 milioni d’individui all’anno, produzione petrolifera stagnante e presto in declino, assenza di vere alternative immediate, forte crescita della domanda di energia non solo per fattori demografici, ma anche economici, in particolare per la drammatica e legittima aspirazione dei popoli dei Paesi poveri di uscire dalle condizioni di povertà e avvicinarsi a standard di consumo euro-americani. Un classico esempio di tempesta perfetta. Una breve lista degli effetti ecologici della nostra specie consiglierebbe una certa inquietudine; invece l’inquietudine dei preti spirituali e di quelli materiali (gli economisti classici) è tutta rivolta al grande problema del calo della natalità come fossimo neandertaliani sull’orlo dell’estinzione. Sarebbe importante che più voci si levassero ad affermare che il calo della natalità, primo passo verso il necessario e inevitabile calo demografico, è una virtù e non un vizio. Virtù che sarebbe opportuno incoraggiare anche nei Paesi in via di sviluppo senza aspettare che tutti siano abbastanza grassi e forniti di televisioni da smettere di considerare il sesso come l’unico intrattenimento possibile quando scende la notte.
Nel suo recente libro More14 Robert Engelman scrive riferendosi alle donne dei Paesi poveri: le donne non vogliono più figli, ma di più per i propri figli. Se con adeguati programmi d’aiuto economico, educazione alla salute sessuale e riproduttiva e alla programmazione familiare, si riuscisse a far convergere il più rapidamente possibile la maternità attuale sulla maternità desiderata, sarebbe probabilmente possibile contenere la popolazione entro 8 miliardi per poi iniziare un progressivo rientro entro limiti sostenibili. Molti considerano questo rientro dolce un’utopia impossibile. Personalmente preferisco perseguire qualcosa percepito come utopico, piuttosto che giustificare un modello chiaramente catastrofico come quello BAU della crescita infinita. Quando si parla di programmi di aiuti economici al terzo mondo si evoca giustamente fantasmi piuttosto recenti di imprese che hanno devastato ecologicamente e socialmente vaste aree dell’Africa senza portare altro beneficio alle popolazioni locali che nuovi conflitti e nuova povertà. Secondo il mio punto di vista il migliore programma di aiuto sarebbe quello che progetta una riduzione progressiva della pressione delle economie sviluppate sulle risorse naturali dei Paesi poveri, fino a oggi saccheggiate senza ritegno a prezzi vantaggiosissimi. Questo implica certamente un cambio di paradigma che per le nostre società può apparire come un regresso insopportabile, ma forse, con un rallentamento del vortice che ci trascina ogni giorno nella nevrosi senza fine della competizione economica e del consumo bulimico, gli abitanti dei Paesi ricchi, tornati a essere cittadini invece che meri lavoratori/consumatori, potrebbero apprezzare maggiormente la ricchezza che si ottiene dal rinunciare a qualcosa (o a molto) dell’inutile armamentario di oggetti che ogni giorno fuoriescono dalla cornucopia impazzita del turbo-capitalismo globalizzato, raffreddando la corsa entropica verso una catastrofe ecologica e sociale senza precedenti.
Note bibliografiche
- Global Footprint Network.
- Human Appropriation of Net Primary Productivity.
- «Global patterns in human consumption of net primary production», Marc L. Imhoff et al., Nature, 2004, vol. 429, pp. 870-873.
- Smil Vaclav, 2002, The Earth’s Biosphere: Evolution, Dynamics, and Change, MIT Press (si veda anche oceanworld.tamu.edu/resources/oceanography-book/anthropocene.htm).
- L’uomo ha impiegato la sua intera storia biologica fino all’inizio del XIX secolo per raggiungere la popolazione di un miliardo di individui poi, in 130 anni la popolazione è raddoppiata una prima volta (2 miliardi nel 1930), in 45 è raddoppiata ancora (4 miliardi nel 1975), ed è attualmente stimata aver superato i 6,6 miliardi di individui (si veda ad esempio uno dei molti contatori di popolazione nella rete).
- Donella Meadows, Dennis Meadows, Jørgen Randers, William W. Behrens III. I limiti dello sviluppo, Rapporto del System Dynamic Group MIT per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità. Milano, Arnoldo Mondadori editore 1972.
- Donella Meadows, Jørgen Randers, Dennis Meadows. Limits to Growth, the 30-Year Update. White River Junction : Chelsea Green Publishing 2004 (tradotto per Mondadori nel 2006 con il titolo I nuovi limiti dello sviluppo).
- I critici del famoso rapporto per il club di Roma riportato nella nota [6] sono molti, è sufficiente una ricerca in Internet con le parole chiave “Debunking” and “Club of Rome” per trovare alcuni fra gli argomenti più popolari. Per una disanima della leggenda degli errori del Club di Roma si veda: Ugo Bardi, L’Effetto Necronomicon e i limiti dello sviluppo. Dello stesso autore: La maledizione di Cassandra; le predizioni ignorate, ambedue sul sito dell’associazione ASPO-Italia. Si veda anche Matthew Simmons, Revisiting the Limits to Growth: could the Club of Rome have been correct, after all?
- Jeremy Legget. Fine corsa, sopravviverà la specie umana alla fine del petrolio? Torino, Einaudi 2006.
- Kenneth Deffeyes. Beyond Oil, the view form the Hubbert’s peak. New York : Hill & Wang 2005.
- Colin J. Campbell, Jean H. Laherrere. «La fine del petrolio a buon mercato», Le Scienze, maggio 1998.
- Ugo Bardi. La fine del petrolio. Roma, Editori Riuniti 2003.
- Molte tabelle di EROEI per le diverse fonti primarie sono reperibili in rete, le differenze di stima sono abbastanza importanti per ragioni che non sono sempre chiare, ma che spesso rimandano agli interessi di chi le compila.
- Robert Engelman. More, population, nature and what women want. Washington, D.C. : Island Press 2008.
L’autore
Luca Pardi è nato a Torino nel 1957 e cresciuto a Firenze dove si è laureato in chimica. Primo ricercatore all’Istituto per i Processi Chimico-Fisici del Consiglio Nazionale delle Ricerche, si occupa di magnetismo utilizzando la spettroscopia di Risonanza Magnetica Elettronica ad alta frequenza. È cofondatore della sezione italiana dell’associazione per lo studio del picco del petrolio ASPO-Italia, della quale è vicepresidente. È inoltre segretario dell’associazione radicale Rientrodolce, che si occupa degli effetti e dei possibili rimedi dell’esplosione demografica.