Implicazioni dell’evoluzionismo per un ateo

di Franco Ajmar

L’evoluzionismo è una solida teoria scientifica: se accettiamo questo postulato, ne derivano implicazioni per il nostro comportamento: un po’ come accettare la legge di gravità per andare in bicicletta. E proprio per queste implicazioni, l’evoluzionismo non è una teoria come un’altra, come la gravitazione universale o la relatività.

La prima implicazione è proprio l’ateismo. Non è questa la sede per disquisire sull’ateismo: la precisazione “per un ateo”, inclusa nel titolo per delimitare il campo, dà quasi per scontata questa implicazione, per cui qui se ne parla marginalmente. Accettare l’evoluzionismo comporta, per molti individui, l’ateismo: e questo non, come potrebbe sembrare a prima vista, per una superba fede nella ragione e nella scienza (se mi si passa l’ossimoro); anzi, come risulterà più avanti, proprio per il riconoscimento dei limiti della mente umana, limiti che diventano evidenti con l’evoluzionismo, e rendono superbo, per confronto, chi si illude di postulare infinità, onnipotenze, eternità basandosi solo sui prodotti della propria mente.

L’evoluzione biologica è una sequenza di cambiamenti concatenati che si sono verificati e si verificano, nel corso del tempo, nelle forme viventi. In esse è riconoscibile (a) una comune derivazione ancestrale, pur nella molteplicità di forme diverse presenti o estinte e (b) una tendenza all’organizzazione 1 e all’aumento di complessità. L’eventuale direzione o la finalità del processo evolutivo sono invece estrapolazioni umane. In termini di efficienza, dobbiamo ricordare che questo processo è durato circa 3,5 miliardi di anni, ha comportato la scomparsa di oltre il 99% delle specie che sono esistite e l’impiego di una quantità incalcolabile di energia.

La pluralità di forme viventi si spiega con il progressivo cambiamento, diversificazione, aumento cumulativo di complessità, concatenazione fra i processi a partire da una o poche unità iniziali, probabilmente comparse per una precedente evoluzione dalla materia inorganica di cui è stata anche recentemente confermata la possibilità. Questo processo si è realizzato in tempi e con energie e modalità che sono fuori della portata dell’intuizione umana o della valutazione statistica. Si tratta cioè di un processo che si è svolto in un arco di tempo che è al di fuori della nostra percezione, con situazioni fisiche e cambiamenti solo ipotizzabili con approssimazioni quasi di fantasia, con eventuali catastrofi rapide o prolungate e la cui comprensione può solo essere sfiorata. Naturalmente non riuscire ancora a spiegare molti passaggi di questa catena di eventi non rende automaticamente accettabile la posizione di chi li spiega postulando un ente metafisico, dio: questa non è una spiegazione, ma una resa, ed è un approccio rudimentale di derivazione magica e superstiziosa, che ha spesso ostacolato la scienza.

La creazione intesa come tot sunt species quot ab initio creavit infinitum ens non è da tempo più accettata neppure da quanti insistono nella lettura biblica della genesi, di solito senza precisare che si tratta di una mediocre allegoria2.

Il grande numero di specie esistite, presenti o estinte, suggerisce inoltre che non vi sia un percorso evolutivo ideale, un disegno riconoscibile, ma tanti percorsi, casuali o temporaneamente adattativi, ciascuno con velocità di cambiamento e capacità adattative diverse. Questa derivazione da progenitori comuni, di solito più semplici, queste analogie nei processi biologici di base, sostenute da strutture biochimiche quasi identiche, questa concatenazione temporale sono constatazioni scientificamente documentate. Senza entrare nella complessa trattazione dei meccanismi che guidano i processi evolutivi, ricordiamo brevemente quelli di tipo genetico (variabilità genetica, ereditarietà, selezione naturale e fitness o valore adattativo), e quelli di tipo statistico casuale (mutazione casuale, deriva, prova ed errore) e le loro combinazioni3.

Un forte motore dell’evoluzione, significativo per le sue implicazioni, è la variabilità genetica. La presenza di forme viventi diverse, sia all’interno di una stessa specie, sia sotto forma di specie diverse, a loro volta nate da questa variabilità intraspecifica, è verificabile da chiunque. Siamo tutti diversi, basta guardarci intorno. Ogni tanto, per ragioni ideologiche, si sostiene che siamo tutti eguali: per esempio per negare, giustamente, la suddivisione delle popolazioni umane in razze. Ma il cosiddetto esame del DNA, utilizzato per stabilire l’identità, conferma questa differenza individuale rilevata già macroscopicamente.

Qual è una ricaduta, una implicazione di questa osservazione? Che non esiste una costituzione genetica perfetta, ma che la costruzione dell’uomo tipo4 è un’idealizzazione, una semplificazione che non corrisponde alla realtà. Questa idealizzazione si costruisce prendendo la media delle medie delle distribuzioni di ogni carattere: altezza media, peso medio, intelligenza media, aggressività media, cooperatività media, ecc. Se ne ricava l’uomo tipo medio, che naturalmente non esiste, ma al quale ci si riferisce continuamente nella scrittura delle leggi, nella definizioni dei doveri, negli enunciati etici. Comunque, le implicazioni dell’evoluzionismo che più ci riguardano in questo contesto si riferiscono all’uomo e alla sua eventuale anima.

L’Homo sapiens è una delle forme provvisorie dell’evoluzione della vita sulla terra. Senza insistere su quanto somigli (o differisca) dai suoi progenitori e cugini, anche l’uomo è il risultato degli stessi processi che hanno sviluppato e diversificato le altre forme viventi. L’implicazione più forte è che tutto ciò che pensiamo, le nostre azioni, i nostri discorsi, le nostre passioni sono dovute a processi identici o molto simili a quelli che hanno portato allo sviluppo di un cane, di un gatto, di un cavallo. E del loro comportamento. Anche l’anima dell’Homo sapiens è il risultato di una serie di reazioni biochimiche coordinate che avvengono nel cervello degli individui della nostra specie. Queste reazioni richiedono una struttura biologica costruitasi evolutivamente su base genetica, modificabile con l’esperienza derivante dall’apporto dei sensi. Questa struttura è capace di conservare in memoria gli apporti sensoriali, di codificarli, coordinarli e proiettarli in programmi necessari per il comportamento futuro dell’individuo.

Per queste sue caratteristiche squisitamente biologiche, l’anima è influenzata da condizioni diverse, intrinseche ed estrinseche, quali l’età, il sesso, la costituzione genetica individuale, le esperienze personali, gli apporti ambientali, anche farmacologici, ed è quindi individuale e modificabile, va incontro a una sua personale maturazione ed evoluzione ed è peritura, arrivando alla propria fine con la fine del sistema biologico che la determina5.

Queste caratteristiche della nostra mente si sono costruite nel corso dell’evoluzione e hanno, per esempio, consentito di trasformare le sequenze temporali memorizzate (a un evento ne succede un altro in una scala temporale: il ripetersi di quella sequenza o di sequenze analoghe viene codificato e memorizzato) in sequenze causali (a un evento ne succede un altro secondo una sequenza di causa ed effetto) fino a riconoscerne la generalità e a stabilire leggi generali, tipo la gravità: chiunque abbia un animale domestico, un cane o un gatto, sa che sono già presenti, in forma più o meno sofisticata, processi analoghi anche in tali animali. E, infatti, il grande salto evolutivo è consistito nella formazione di un cervello come quello degli animali domestici piuttosto che nell’unicità del cervello umano o nella sua differenza rispetto a quello dei primati nostri antenati. Anche se da un punto di vista umano questa differenza viene descritta come qualitativa e irripetibile, questo conferma invece la continuità del processo, pur con accelerazioni o soste nel suo percorso, e sembra escludere un intervento creativo esterno di immissione dell’anima riservato alla nostra specie. Il soffio vitale, se ci fu, interessò numerosi nostri remoti precursori, non l’unico padre Adamo.

Naturalmente, quanto più la nostra mente si è evoluta e funziona con quei meccanismi (segnale / stimolo > codifica e conservazione in memoria > riconoscimento di sequenza causa / effetto > coordinamento tra le memorie > generalizzazione > proiezione per anticipare il comportamento futuro, ecc.) che definiamo razionali, tanto più consideriamo questo risultato come esito di un processo evolutivo relativamente recente. In questo senso l’istinto risulta relativamente più antico: i sentimenti, le risposte riflesse (e la fede nel mistero) sono irrazionali e evolutivamente più remoti rispetto all’approccio razionale. Naturalmente qui ci si riferisce a una scala temporale, senza alcuna implicazione di valore, misura tipicamente umana e quindi autoreferenziale. In questo senso fede e ragione non sono due processi alternativi, ma il processo istintivo, che caratterizza la fede, sarebbe evolutivamente più remoto di quello razionale. Ma è soprattutto la considerazione della derivazione biologica della nostra mente a sottolineare l’implicazione più forte nell’accettazione dell’evoluzionismo. Se la nostra mente è, come infatti è, il risultato provvisorio di un’evoluzione biologica, tutto ciò che essa produce ha un limite assoluto di autoreferenzialità: tutti i nostri pensieri, anche i più elevati, le nostre estrapolazioni e astrazioni e ipotesi e teorie, quelli che chiamiamo concetti e di cui discettiamo a proposito del loro valore assoluto e generale piuttosto che relativo, sono tutti il prodotto di una serie di reazioni che avvengono nel cervello, un organo sviluppatosi evolutivamente: e neppure ha senso in assoluto e per la stessa ragione, chiedersi perché ci sia, dove sia diretto, quale sia il suo scopo.

Questo ritornare coi piedi per terra, per occuparci del concreto, trova anch’esso punti di appoggio nell’accettazione dell’evoluzionismo. Abbandonato, col trascendente, il riferimento a valori assoluti, dobbiamo convivere con la quotidianità e crearci dei valori di riferimento relativi. Anche questi valori, pur relativi, sono definiti sulla base di passaggi evolutivi attraverso i quali arriviamo ad appartenere alla nostra specie.

Mentre si è insistito, più per posizioni ideologiche che per reali dimostrazioni scientifiche, su una presunta “lotta per la sopravvivenza del più forte”, bisogna riconoscere che questa raffigurazione dell’evoluzione come una perpetua lotta non corrisponde alla realtà. L’affermarsi del genotipo più adatto è una tautologia, ma la sua espansione e propagazione rispondono al principio della selezione naturale, che è uno dei principali meccanismi dell’evoluzione: questo però non implica necessariamente una lotta.

Senza entrare nel vastissimo campo dei meccanismi evolutivi, aggiungiamo che alcuni sono caratterizzati dallo sviluppo della collaborazione piuttosto che della lotta. Si è già accennato al principio generale dell’organizzazione (formazione di organi diversi coordinati per costituire un essere vivente) come meccanismo primordiale, forse evolutosi per raggiungere maggiore efficienza. La formazione di organi, sistemi e apparati ricordano appunto che il meccanismo generale della cooperazione produce risultati qualitativamente diversi rispetto alla semplice somma delle componenti.

Nelle specie evolutivamente più vicine alla nostra sono anche documentate forme di cooperazione sociale, ed è dimostrato che con la collaborazione si ottiene molto più che con la somma degli apporti individuali. Per suonare un trio o una sinfonia è necessaria una collaborazione, e non sarebbero realizzabili da un solo individuo anche se questi sapesse suonare tutti gli strumenti necessari. Non si tratta della tanto discussa e problematica genetica dell’altruismo. La collaborazione porta vantaggi non solo quantitativamente, ma qualitativamente superiori alla somma dei contributi singoli.

Il problema diventa allora come far coesistere gruppi di individui costituzionalmente diversi e come dividere equamente fra gli individui partecipanti i vantaggi che derivano dalla collaborazione. Ma questi diventano meccanismi storici e socio-culturali nei quali l’influenza biologica è probabilmente così remota da diventare trascurabile. E qui cessano le documentate implicazioni dirette dell’evoluzionismo, che non può essere né lodato per i progressi né incolpato di eventuali disastri dell’organizzazione dell’umanità.

Note

  1. L’organizzazione può essere intesa come aumento di efficienza dell’insieme di una struttura quale risulta dalla collaborazione di componenti diverse: come la formazione di un organismo con i rispettivi organi.
  2. Ma sembra che circa la metà degli americani ci creda ancora: quando si parla di lavaggio del cervello si offendono i detersivi, perché in questo caso il cervello viene piuttosto sporcato da una manipolazione spesso irreversibile.
  3. In realtà, anche la parabola del seminatore (Marco, 4,4) lascia qualche perplessità: il seminatore “che andò a seminare” è un po’ distratto, getta il seme un po’ sulla strada (e gli uccelli lo beccano), un po’ in un luogo roccioso e, sbocciato, si secca, un po’ tra le spine, che lo soffocano, infine un po’ in terreno fertile che dà frutto: e con inattesa precisione ci viene descritta la resa variabile: 30%, 60%, 100%. Sembra fatta apposta per negare qualsiasi disegno intelligente nel seminatore, nel migliore dei casi un po’ trasandato, e per un intervento del caso, della selezione naturale e dell’ambiente nello sviluppo del seme.
  4. Per semplicità si usa la dizione uomo per intendere Homo sapiens senza distinzione di sesso/genere.
  5. Naturalmente non tutti concordano su questa definizione di anima, che qui è identificata con la mente. Con questa definizione si tenta di utilizzare un linguaggio comune, con riferimenti concreti, piuttosto che lasciarla nel vago metafisico di identificarla con la vita o l’energia.