di Giorgio Vallortigara
«Ciascuno di noi vive all’interno dell’universo – la prigione – del proprio cervello»
(Vernon Mountcastle)
Ci sono due idee sulle menti e i cervelli che diamo per assodate. La prima prende origine dalla concezione secondo cui esisterebbe una sorta di scala ascendente delle creature viventi, che vede collocate sui gradini più bassi le creature meno complesse e meno evolute e agli apici quelle più complesse ed evolute. Tale gerarchia si applicherebbe a tutte le strutture dell’organismo, cervello incluso. Vi sarebbe perciò anche una scala ascendente e progressiva delle funzioni mentali, con la sommità occupata dalla nostra specie. La seconda è l’idea che i cervelli servano a darci una rappresentazione veridica della realtà. Le due idee hanno in comune vari aspetti, tra cui quello, io ritengo, di essere entrambe sbagliate.
I biologi sanno che per gli organismi viventi – gli unici che possiamo studiare direttamente per ciò che riguarda il comportamento e i tessuti molli come il cervello – non ha alcun significato parlare di specie più o meno evolute. Tutte le specie viventi sono egualmente evolute. I rettili che stanno qua oggi sulla Terra non sono i medesimi che hanno dato origine ai gruppi indipendenti dei mammiferi e degli uccelli più di 300 milioni di anni fa: anch’essi si sono evoluti rispetto ai loro progenitori ancestrali.
Tuttavia quel che si ha in mente di solito quando si parla di specie più o meno evolute non è un criterio di storia filogenetica, bensì di complessità di struttura. Non è forse vero che una Drosophila ha duecentocinquantamila neuroni, un’ape un milione e un uomo ne ha cento miliardi? L’idea è quindi che l’evoluzione sia una storia di aumento di complessità di strutture che divengono così sempre migliori. È facile mostrare che le cose non sono così semplici. Considerate la rètina dell’occhio umano. Questa mostra un’organizzazione spaziale alquanto singolare: i neuroni retinici sono collocati verso l’esterno, cosicché la luce per raggiungere i fotorecettori li deve prima attraversare. A sua volta, il nervo ottico, per raggiungere il cervello, deve passare attraverso lo strato dei fotorecettori, ragion per cui noi tutti abbiamo, a circa 15 gradi dall’asse visivo centrale, una zona priva di recettori, un buco – la macula cieca. Per rendervene conto provate a far sparire la faccetta nella figura sottostante. Tenendo il foglio davanti a voi con il braccio steso e l’occhio destro chiuso, fissate con l’occhio sinistro il pallino. Avvicinate lentamente il foglio al vostro viso, continuando a fissare il pallino. A un certo momento, quando sarà caduta nel vostro punto cieco, la faccetta sparirà.
Non era più sensato, più ordinato ed evoluto collocare verso la parte esterna i fotorecettori e più internamente i neuroni retinici? Certo che sì, ma la storia evolutiva è accidentata e per certi versi casuale. Certi nostri progenitori avevano neuroni che dopo aver ricevuto l’informazione da pochi fotorecettori dirigevano le loro fibre verso l’esterno prima di indirizzarsi verso il cervello. Così l’impianto originario è stato mantenuto in tutti i vertebrati con occhio a camera. Ma non in tutti gli organismi muniti di occhio a camera. I cefalopodi, ad esempio, come il polpo, che hanno avuto una storia evolutiva indipendente, sono muniti di un occhio a camera come il nostro, nel quale però la disposizione dei fotorecettori e dei neuroni è quella, razionale e ben ordinata, in cui i primi guardano verso la luce e i secondi sono collocati posteriormente. Dovremmo quindi considerare il polpo più evoluto di noi?
È un fraintendimento comune quello per cui l’evoluzione determinerebbe un aumento di ordine e complessità, una tensione verso «il punto Omega», come lo chiamava Teilhard de Chardin. Non è questo il modo in cui la biologia moderna concepisce l’evoluzione. L’evoluzione implica cambiamento, ma non necessariamente progresso. E progresso, poi, rispetto a che cosa? Gli ambienti cambiano e ciò che è ben adattato oggi può non esserlo più domani, in circostanze diverse. È falso ritenere che una struttura che mostra una certa complessità in una specie quale la conosciamo oggi non possa essere derivata da una struttura che era in origine più complessa (anziché meno complessa) nella specie ancestrale. Pensate alla tenia, l’animaletto a cui si riferiva Mark Twain quando affermava che solo tre categorie di persone hanno il diritto di usare il plurale majestatis parlando di se stesse: i papi, i re e le persone con il verme solitario. La tenia, appunto, o verme solitario, deriva da antenati che erano più complessi dell’organismo attuale, giacché con l’evoluzione del parassitismo ha potuto demandare molte funzioni all’organismo che la ospita. Il principio è valido in generale, per qualsiasi struttura anatomica. Perciò l’evoluzione per selezione naturale non implica la costruzione di cervelli sempre più complessi, perché non è la complessità di struttura il criterio su cui opera la selezione naturale, bensì la sopravvivenza selettiva e la riproduzione. Chi ha detto che ci si riproduce di più con un cervello più complesso?
Questo ci conduce al secondo punto. La complessità della vita mentale è associata tradizionalmente al fatto che gli esseri umani avrebbero una migliore, più completa rappresentazione della realtà. Non c’è dubbio che il confronto tra le diverse specie riveli capacità differenti. La zecca risponde solo all’odore di acido butirrico, con il quale identifica il corpo di un mammifero su cui farsi cadere; l’essere umano è sensibile a una varietà di odori, da quello del cibo avariato a quello del partner sessuale; il cane vive in un mondo di complessità olfattiva per noi inimmaginabile, un mondo nel quale la traccia odorosa lasciata una settimana fa dal padrone si staglia netta sopra le decine di effluvi che emanano dal selciato del marciapiede. Ma la percezione dell’uomo o del cane è più veridica di quella della zecca? Intuitivamente diremmo che poiché gli organismi debbono vivere e agire in questo mondo, i cervelli dovrebbero essersi evoluti per darne una rappresentazione fedele. Ergo la rappresentazione del cane è più fedele di quella della zecca. Cervelli con complessità differenti dovrebbero cioè approssimare sempre meglio la complessità del mondo. Ma non è detto che una rappresentazione fedele sia più efficace di una infedele ai fini della sopravvivenza e della riproduzione. Il maschio del ragno saltatore utilizza una semplicissima scorciatoia per decidere sulle due cose che per lui contano davvero, il cibo e i partner sessuali. Tutte le cose piccole senza appendici sono buone da mangiare, tutte quelle dotate di zampe sono femmine da corteggiare.
In alto sono mostrate le percentuali di risposte di corteggiamento evocate dai diversi zimbelli muniti di zampe; in basso è mostrata una selezione degli stimoli, molto diversi tra loro, che i ragni saltatori trattano in modo indifferenziato come cibo; da Deither, Science 1964.
Si tratta di una rappresentazione fedele della realtà? Certo non appare essere palesemente falsa. Casomai incompleta. Però il mondo naturale è ricco di fenomeni che rappresentano trucchi e inganni espliciti rispetto all’effettivo stato delle cose: dagli stimoli chiave, ai segnali infantili, al mimetismo, solo per menzionarne alcuni. Ad esempio, in che modo un gabbiano reale stabilisce se il suo uovo contiene un pulcino oppure è vuoto e quindi va rimosso dal nido? Sembra scontato: basta che l’uccello guardi dentro l’uovo. Ma il gabbiano la vede diversamente: quello che conta per lui è soltanto se l’orlo dell’uovo sia sfrangiato o meno (a e c, l’immagine è tratta da Tinbergen et al., Bri Birds 1962). Se un etologo perfido munito di pennarelli disegna la sfrangiatura su un uovo pieno (b) oppure, con una seghetta, fa un taglio diritto su un uovo vuoto (d), l’animale si comporta nel primo caso come se l’uovo fosse vuoto e nel secondo come se fosse pieno. E questo indipendentemente da quello che si può obiettivamente vedere dentro l’uovo.
Forse non è una rappresentazione veridica dello stato del mondo, ma certamente è efficace perché la sfrangiatura rende l’uovo visivamente molto cospicuo per i predatori.
Gli etologi hanno compiuto grandi progressi nello studio della comunicazione animale quando si sono resi conto della falsità dell’assunto secondo il quale la comunicazione serve a trasmettere informazioni veridiche. In natura la comunicazione animale serve principalmente per ingannare e imbrogliare. La percezione dovrebbe essere considerata alla stessa stregua: le nostre percezioni non sono state plasmate dalla selezione naturale per darci un’immagine veridica del mondo, quanto piuttosto per ingannarci sufficientemente bene da sopravvivere nel mondo.
Non sto cercando di fare il filosofo, discettando sull’inconoscibilità di principio della realtà ultima. L’argomento è puramente biologico. Se quello che conta per gli organismi è sopravvivere e riprodursi, la selezione naturale deve avere inventato (come in effetti ha fatto) una varietà di trucchi e di scorciatoie ai fini dell’esecuzione del comportamento più adeguato in un certo ambiente. Trucchi e scorciatoie che fanno del nostro mondo percettivo non un’approssimazione di come il mondo sia davvero, ma di come sia più conveniente rappresentarlo. Un teatrino, una grande illusione. La nostra prigione.
L’autore
Giorgio Vallortigara è professore di Neuroscienze cognitive presso l’Università di Trento, dove dirige il Laboratorio di Cognizione Animale e Neuroscienze del CIMeC (Centro Interdipartimentale Mente/Cervello).
Il presente articolo è tratto da www.festrieste.it/neuroscienze.html.