di Piero Sagnibene
(1) Fu Aristotele il primo naturalista ad annotare che le api, al ritorno nell’alveare, compiono una singolare “danza”. Osservazioni su questa “danza” furono riportate da Giovanni Rucellai (1475-1525), ma solo nella seconda metà del secolo scorso, Karl von Frisch e Martin Lindauer scoprirono che la “danza” è, in realtà, un vero e proprio linguaggio.
Questo fatto riapriva la polemica cominciata nel 1871, quando Charles Darwin pubblicò The Descent of Man. In quel lavoro Darwin chiarì le questioni della collocazione tassonomica dell’uomo, delle sue filiazioni evolutive e delle sue parentele; la tesi darwiniana ricollocava l’uomo nella natura assieme agli altri viventi, affermando che la comparsa di Homo sapiens risaliva ad un’epoca abbastanza recente, quando il ramo evolutivo, da cui esso discende aveva cominciato a divergere da quello delle altre scimmie antropomorfe. Anche l’uomo quindi, così com’era avvenuto per tutte le altre specie, derivava da una lunghissima storia evolutiva che risale ai primi viventi.
L’idea che la specie umana è un ramo collaterale dell’ordine dei Primati, discendente da antenati simili allo scimpanzé, demoliva uno dei presupposti fondanti di tutte le culture umane, cioè l’unicità dell’uomo rispetto al mondo circostante. L’evoluzionismo darwiniano destituiva di fondamento l’idea, religiosa quanto filosofica, che l’universo e la natura vivente avessero un contenuto teleologico in funzione dell’uomo poiché anche l’uomo era un risultato delle innumerevoli trasmutazioni che avevano interessato una sequenza sterminata di specie, fino all’origine dei mammiferi, ed indietro nel tempo, dei rettili, degli anfibi, dei pesci e, prima, ancora prima, di altre specie sconosciute di animali invertebrati, fino a quelli unicellulari e fino agli organismi che si formarono dalla materia inerte. Il darwinismo determinò un modo nuovo di leggere ed interpretare la storia della vita che non lasciava spazio alcuno alle suggestioni ed alle credenze che da sempre erano state il centro del pensiero umano.
La vecchia cultura si oppose a lungo alle nuove teorie biologiche ma, alla fine, dovette arrendersi all’evidenza; ma non si rassegnò e ripiegò su una strategia più duttile per continuare comunque a pensare l’uomo come essere speciale. Per cent’anni regnò l’idea che la specie umana, anche se non era più il centro statico della creazione, fosse comunque il compimento ed il culmine necessario dell’evoluzione. Questa concezione prese corpo in una miriade di versioni, sia laiche sia religiose, al di là di tutte le divergenze di dettaglio, e così l’antropocentrismo segnò in forme nuove e sottili lo sviluppo del pensiero evoluzionistico. A presidio di questa concezione fu posto il linguaggio simbolico, ritenuto spartiacque invalicabile ed inespugnabile tra uomo e mondo animale ed assunto come la facoltà che affermava la “superiorità” e la “diversità” dell’uomo, quasi il segno di un “destino” metastorico. L’uomo fu definito come “animale simbolico” (Cassirer), in opposizione alle altre specie, fino al punto da identificare l’essenza dell’uomo stesso col suo linguaggio (Wittgenstein).
(2) I moderni etologi fanno risalire la formazione dei linguaggi, in generale, all’instaurarsi della socialità ed al ruolo preponderante di questa nello stimolare il bisogno di comunicazione. Un linguaggio, secondo una definizione di Edward O. Wilson, è in generale una comunicazione che provoca una qualche risposta in chi la riceve. Nel mondo animale le modalità di emissione di tali comunicazioni possono essere varie e complesse: sonore, chimiche, gestuali, posturali, tattili, ecc., tuttavia, dal punto di vista strutturale, si riconoscono solo due tipologie di linguaggio. Una si avvale della trasmissione di segnali e un segnale è un messaggio che trasmette un’emozione, un messaggio immediato non dilazionato nel tempo e nello spazio. Si pensi ad esempio al segnale di pericolo che si diffonde in un banco di pesci all’avvicinarsi di un predatore.
L’altro tipo di linguaggio si avvale invece di simboli, detti anche segni. Un segno trasmette invece una cognizione. Questa può riferirsi al presente o anche al passato o al futuro, può riferirsi a cose presenti o anche lontane, a cose astratte o oggetti del pensiero. L’uso di simboli richiede una ideazione e una trasduzione di ciò che si vuole comunicare ed un analogo processo inverso in chi riceve il messaggio, vale a dire che il linguaggio simbolico richiede una corrispondenza biunivoca e condivisa tra segni e contenuti. Per questa ragione il linguaggio simbolico è, per sua natura, convenzionale e si fonda su di una sorta di “patto sociale semantico”. Ad esempio, il rapporto tra il suono di una parola e la cosa che quella parola indica è del tutto arbitrario e richiede che coloro che la utilizzano si siano messi d’accordo nell’assegnare a quel determinato suono la corrispondenza ad un determinato oggetto o concetto. A differenza del linguaggio a segnali, che può essere utilizzato anche tra specie diverse, il linguaggio simbolico è un linguaggio intra-specifico perché è posto al servizio di una funzione che è la socialità, cioè il livello più evoluto di cooperazione biologica nella quale si attua la divisione del lavoro.
(3) Von Frisch e Lindauer hanno dimostrato non soltanto che la “danza” delle api è un linguaggio, ma che si tratta proprio di un linguaggio simbolico, strutturato in coreogrammi e morfemi, e biunivoco. Inoltre Lindauer dimostrò che tramite questo linguaggio le api, durante la sciamatura, “discutono” sulle qualità dei vari siti in cui impiantare il nuovo alveare. La precisione di questo linguaggio è tale che Lindauer riusciva ad identificare tutti i siti considerati dalle api ed a precederle sul luogo prescelto. Thomas Seeley e Kirk Visscher hanno ripetuto, rielaborato e ricontrollato le osservazioni di Lindauer, impiegando dieci anni di studi, girando centinaia di ore di video, sviluppando modelli matematici, ideando esperimenti ed etichettando, una per una, ben 4000 api. Hanno così confermato che, quando è giunto il momento, un certo numero di api esploratrici si sparpaglia per il territorio. Al ritorno ognuna di esse riferisce l’esito della sua missione inscenando una danza analoga, ma non identica, a quella utilizzata per indicare la localizzazione delle fonti di cibo. L’intensità della danza è proporzionale all’adeguatezza del possibile nuovo alveare. Tuttavia, il giudizio di una singola ape esploratrice non fa testo, tanto più che siti differenti possono aver suscitato altrettanto interesse sulle diverse esploratrici. Inizia così una sorta di consesso di api danzanti che invitano le altre esploratrici a visitare il “loro” sito. La decisione è in forse fino a quando almeno 15 api esploratrici non concordano sul risultato. A quel punto, la decisione è presa, e anche se altre esploratrici arrivano proponendo siti “meravigliosi”, non riescono a mutare la destinazione. E poco dopo uno sciame di migliaia di api si mette in moto verso il nuovo alveare. Il fatto che l’ape condivida alcune proprietà del linguaggio simbolico umano, e cioè che essa ha saltato il confine che divide l’uomo dall’intera animalità in quanto manipola simboli e non segnali, suscitò ancora ostilità, opposizioni, reazioni e scetticismo.
La scoperta di von Frisch era un’integrazione definitiva della lezione darwiniana, e la prodigiosa facoltà dell’uomo di comunicare coi simboli, di parlare del passato, del futuro, di cose assenti o astratte, non era più una sua esclusività, dato che l’ape, nel buio dell’alveare, può “parlare” di un cibo che ha scoperto in precedenza e che non è presente in quel momento, può “parlare” di ciò che dovranno fare, dopo, le sue compagne per raggiungere il luogo indicato, descrivere con esattezza la distanza e lo sforzo di volo richiesto per raggiungere la fonte di nettare; ed inoltre, l’ape ha la facoltà di riferirsi ad oggetti e concetti immaginari, di misurare il tempo, gli angoli e le distanze su di un piano ideale, di calcolare il moto del sole nel tempo; cioè utilizza quei primi elementi conoscitivi da cui cominciò ad evolversi la scienza umana. Ed ancora, essa traspone queste conoscenze su di un altro piano ideale allineato alla direttrice di gravità e le traduce in linguaggio, è capace cioè di socializzare informazioni cognitive tramite una simbologia di movimenti.
Theodosius Dobzhansky, uno dei fondatori della teoria sintetica, rimarcò l’importanza della scoperta, facendo notare che il linguaggio simbolico si è presentato non una ma almeno due volte nel corso dell’evoluzione, nell’ape e nell’uomo, sebbene queste due specie siano filogeneticamente lontanissime e che quindi esso non era una facoltà esclusivamente umana. Von Frisch e Lindauer compirono un lavoro estremamente meticoloso, durato più di due decenni, e che perciò offrì ben pochi spunti alle obiezioni. Alcuni esperimenti condotti da Gould (vedi in seguito) liquidarono ogni obiezione residua rispetto alla effettiva funzione di comunicazione della “danza”. In seguito Michelsen, “parlando” con le api tramite un minuscolo robot, dimostrò definitivamente la biunivocità del loro linguaggio. Tramite il piccolo automa a sagoma di ape, Michelsen dà delle informazioni tramite una simulazione della danza; queste vengono accettate dalle api che difatti si recano sul posto indicato dalla danza simulata. Per la prima volta nella storia Michelsen è riuscito a comunicare con un insetto.
Fu così che l’antropocentrismo perse il suo principale argomento e anche qualche importante corollario. Ad esempio, la facoltà dell’uomo di esprimere un linguaggio simbolico veniva fatta derivare dalla enorme complessificazione del suo cervello, nel quale lavorano più di 100 miliardi di neuroni; ma lo psichismo dell’ape trova supporto in un cervello con meno di un milione di neuroni cerebrali e ciò lascia pensare che non è nel potenziamento della struttura anatomica che va ricercata l’origine del linguaggio simbolico. Lamarck avrebbe detto “la funzione crea l’organo” e possiamo pensare che, evolutivamente parlando in senso darwiniano, sia stata invece la struttura anatomica ad essere stimolata e “potenziata” per assolvere ad una funzione che diveniva via via più complessa. Questa funzione è proprio la socialità, e l’ape e l’uomo, cioè le due sole specie che possiedono un linguaggio simbolico, sono, al tempo stesso, quelle che hanno sviluppato le due forme più alte di socialità.
(4) L’evoluzione psicosociale dell’uomo è stata possibile grazie al linguaggio simbolico che consente di trasmettere ai nuovi individui le conoscenze acquisite dalle generazioni precedenti, ivi inclusi i modelli di comportamento necessari alla vita sociale. Ciò avviene durante il periodo che va dalla nascita fino all’età riproduttiva e che nell’uomo è di moltissimo più lungo rispetto alle altre specie animali. Questo tempo viene utilizzato per formare il costume sociale nel nuovo individuo e per fargli acquisire quelle abilità con le quali può partecipare al lavoro cooperativo; in tal modo viene costruita l’idoneità sociale.
Diversamente, per le api non possiamo parlare di qualcosa di analogo. L’ape possiede socialità, conoscenze ed abilità tecnica di specie impresse nel suo genoma. Chauvin dice che il modo più esatto di pensare ad una colonia di insetti sociali, è pensarla come una sorta di super-organismo, coordinato e reso coerente da linguaggi chimici, gestuali ed istintivi, e ciò vale anche per le api.
Indubbiamente i comportamenti delle api, le loro abilità, l’ordinata successione dei ruoli a seconda della classe di età, sono catene di atti riflessi che si realizzano uno dopo l’altro, in sequenza generalmente costante per la specie. Si tratta di complicati automatismi ereditari che prendono il nome di istinti, la cui estrinsecazione dai tratti cromosomici che li contengono codificati è, il più delle volte, attivata da feromoni. Nelle api sono state riscontrate solo tracce vaghe di apprendimento. Anche il loro linguaggio simbolico è geneticamente ereditario.
La società delle api è di tipo familiare semplice (genitrice + figli), e non composta da più generazioni conviventi, come nel caso di altri animali, uomo compreso. A differenza dell’uomo attuale, le società degli Insetti non si sono evolute dalla gregarietà e dall’instaurarsi di gerarchie che producono vantaggi diversi (o anche svantaggi) a seconda del ruolo di ciascun individuo, soprattutto per quanto riguarda la divisione del lavoro. Esse si sono formate, nel corso di un milione di secoli di continua evoluzione, a partire dalle cosiddette cure parentali, o rapporti tra genitori e figli, instaurandosi nell’antichissimo ordine degli Isotteri (Térmiti) ed in quello, relativamente più recente, degli Imenotteri (Formiche, Vespe ed Api).
Vi è una differenza importante tra le generiche aggregazioni di insetti e le società. Le aggregazioni sono dovute alla convergenza verso un comune bisogno. Nelle aggregazioni talvolta gli individui cominciano a svelare una certa interattrazione, e pertanto si parla di gregarietà, che può essere semplice oppure di tipo coordinato. Nel primo caso, gli individui, pur mantenendosi in contatto per effetto di interattrazione, manifestano indipendenza di movimenti; nel secondo caso, gli individui compiono azioni coordinate, come accade, ad esempio, nello spostamento in massa di un’orda di cavallette.
Il carattere distintivo determinante tra società ed altre forme di convivenza, è la divisione del lavoro, spesso pervenuta ad un alto grado di raffinatezza funzionale con la comparsa degli sterili o frigidi. Questi sono individui derivanti da entrambi i sessi (nelle Térmiti) o dalle sole femmine (negli Imenotteri sociali) inibiti nella loro attività riproduttiva e divenuti insuperabili lavoratori, e perciò i veri protagonisti della comunità. Un comportamento, divenuto istintivo nel corso dell’evoluzione, la trofallassi, è di fondamentale importanza nelle società più evolute di insetti. Si tratta dello scambio di alimento che è poi una vera e propria redistribuzione del cibo fra tutti gli individui dello stesso nido. L’interazione e la cooperazione tra i membri della colonia fa sì che non accada mai, non può accadere, che un singolo individuo possa patire la fame o morirne. Anche in condizioni di scarsissima disponibilità di cibo, la redistribuzione dell’alimento è sempre egualitaria ed, in ordine di importanza, vengono nutrite prima le larve, senza alcuna restrizione, poi i riproduttori, ed infine ciò che resta viene ripartito tra le operaie.
In effetti, è l’istinto altruistico che garantisce la sopravvivenza della colonia. Le sole eccezioni, nelle api, sono quelle della soppressione delle altre regine da parte della titolare, misura indispensabile per la coesione della colonia, e del comportamento dei fuchi, unità non lavorative ma esclusivamente riproduttive, nutriti dal lavoro delle operaie ed alquanto antisociali, forse proprio perché apolidi, e che perciò vengono espulsi o soppressi una volta che hanno assolto il loro compito.
Il linguaggio simbolico delle api trova la sua origine nell’ambito del lavoro cooperativo delle operaie e trova la sua ragion d’essere nella socializzazione della conoscenza di una fonte di cibo, di acqua o di propoli, come mezzo per ottenere economia di tempo di lavoro, conseguendo la massima efficienza per approvvigionare la colonia (utlizzo questo linguaggio con non poche perplessità, mutuandole dai concetti umani di conoscenza, socialità e cooperazione, ma il solo paragone possibile per le api è proprio quello con l’uomo). Le differenze tra le società di questi due organismi sembrano essere a vantaggio delle api. Ognuna delle loro azioni ha senso solo in quanto è rivolta al benessere della colonia; negli uomini, il più delle volte, accade l’opposto.
(5) Per tutti gli autori, i livelli superiori dello psichismo animale sono caratterizzati dalla comparsa del comportamento simbolico, o, in altre parole, dal riconoscimento delle immagini, o meglio ancora dalla utilizzazione di tali simboli. L’intelligenza viene valutata con la capacità di affrontare e risolvere problemi nuovi. Carel van Schaik ha recentemente dimostrato e documentato il formarsi dell’intelligenza animale e di forme di comunicazione tra i babbuini di Sumatra in relazione allo sviluppo della loro socialità. Dunque è proprio la socialità a produrre forme più elevate di intelligenza e di linguaggio e di ciò, almeno per quanto riguarda il linguaggio, si trova conferma nelle api. Forse una forma di conoscenza trasmessa per via genetica, com’è nelle api, presenta una forte resistenza all’apprendimento individuale ed allo sviluppo di un’intelligenza individuale. Wilson pensa che i messaggi delle api non possono essere manipolati per dare nuove classi d’informazioni; la tesi è fondata, ma discutibile, in quanto ciò escluderebbe a priori la possibilità di ulteriore evoluzione del linguaggio delle api. Non abbiamo elementi sufficienti per abbozzare almeno un’ipotesi sulla storia di questo linguaggio; ciò che sappiamo è che da più di centomila anni le api sono organismi di straordinario successo biologico, anche grazie alla formidabile utilità del loro linguaggio.
(6) Dalla funzionalità di questo linguaggio dipendono anche fatti decisivi per l’esistenza dell’uomo sul nostro pianeta. Ad esempio, il National Research Council (NRC) degli USA ha calcolato che il numero di api domestiche è calato negli ultimi anni almeno del 30%, mettendo in difficoltà le colture che per il 90% sono impollinate dalle api e che producono un giro di affari, nei soli Stati Uniti, tra i 10 e i 20 miliardi di dollari l’anno. Le Grandi Pianure e gli immensi campi di grano e di mais del Midwest, sono a rischio perché le api, ormai troppo poche, non riescono ad impollinare tutte le piante coltivate. La diminuzione della popolazione di api, sottolinea il NRC, è un cambiamento che ha la capacità di alterare radicalmente l’ecosistema terrestre, con tutte le conseguenze che ne derivano per l’alimentazione umana.
Piero Sagnibene, entomologo, idrobiologo, ecotossicologo, ha studiato il fiume Volturno (il secondo fiume studiato in Italia dopo l’Adige) per quattro anni applicando un suo metodo per la determinazione della qualità biologica delle acque; il libro, Progetto Volturno, è del WWF.
Da L’ATEO 3/2010