di Marco Accorti
Quando si pensa a film con-dannati, a seconda delle proprie inclinazioni c’è da scegliere. Fra i tanti mi tornano alla mente … e l’uomo creò Satana (1960, Stanley Kramer), L’ape regina (1963, Marco Ferreri) e, perché no, anche La cena delle beffe (1941, Alessandro Blasetti), il primo seno nudo del cinema sonoro italiano, tuttavia ce n’è uno fra i possibili reprobi dello schermo che per me rappresenta meglio degli altri lo scandalo estetico, formale e ideologico che sconsacrò la mistica magia del buio in sala. Si era agli albori del post del ’68, per l’esattezza era il ’72, più o meno l’epoca additata ancora oggi dal bigottismo da ascensore come la china da cui è tracimata l’immoralità della libertà sessuale. Io c’ero e come molti altri posso garantire che nel quotidiano, quanto a sesso, “chiacchiere tante, ma pinoli su migliaccio pochi” e che al cinema bastava poco per incorrere nelle mire censorie di qualche scaccino più o meno togato.
Ricordo ancora If (1968, Lindsay Anderson, Grand Prix a Cannes 1969), grande film profetico che fece vibrare le vene degli omofobi e anticipava sia i Piccoli omicidi (1971, Alan Arkin), sia quelli “grandi” che negli ultimi anni hanno listato a lutto molte scuole per mano di alunni “insoddisfatti”, nonché il classico Arancia meccanica (1971, Stanley Kubrick) che si è più volte materializzato anche nelle nostre famiglie apparentemente più irreprensibili. Non erano film anticlericali né antireligiosi, né ricordo profferte ateistiche e forse furono ancor più dirompenti proprio per lo scardinare l’ordinario moralismo quotidiano. Ma più di ogni altro, il film con-dannato per eccellenza fu per me Fritz il gatto (1972).
Fumettofilo fin dai primi rudimenti, alfabetizzato sulle letture disneyane, svezzato grazie al disegno conturbante di Jacovitti e al suo Cocco Bill, per me gradita dissacrazione del macho Tex, ho ancora la collezione di «Off-side» con le prime strisce delle Sturmtruppen di Bonvi e quella dal ’69 al ’70 dell’insolente «Hara-Kiri Hebdo», quando cesserà le pubblicazioni colpito dalla censura. Ma anche al cinema mi ero liberato da qualche ragnatela, soprattutto con quella chicca di genialità di Vip – Mio fratello superuomo (1968, Bruno Bozzetto). Questo per dire che mi pareva di essere in sintonia con l’aria nuova che si respirava, tuttavia quando Fitz piombò come un meteorite nel quieto paradiso terrestre dei cartoni animati, facendo vacillare i dinosauri del puritano pedagogismo disneyano, rimasi sconvolto e affascinato dal tratto greve vieppiù marcato da un doppiaggio “trucido”.
Più che un cartone era un fumetto, anzi il fumetto di Robert Crumb, che Ralph Bakshi, regista e sceneggiatore, aveva riversato su pellicola e della striscia aveva mantenuto tutte le caratteristiche: il tratto crudo, la cupezza dei colori, l’asprezza visionaria della matita, anzi dell’LSD che l’autore dice l’avesse ispirato. E la grossolana trivialità.
Era il secolo scorso e fu un trauma passare dagli Aristogatti (1970) – elegante, curato nei più minimi particolari, romantico, garbato, puritano, tipicamente disneyano – a Fritz che impreca, tromba, stupra, solleva rivolte in un’atmosfera di gratuità sanguinarie, il tutto con l’inconsapevole amoralità del “grezzo”. Siamo all’antidisney per eccellenza con il doppiaggio che dà un solido contributo dialettal-pecoreccio e al «Lasciateme passa’ io so’ Romeo … er mejo der Colosseo» del randagio degli Aristogatti, risponde Fritz cantando «Lasciateme passa’ io so’ un Romeo, sto qua perché me stava per crollar sopra il Colosseo». Insomma, non fosse bastata l’insolenza formale, c’era anche il disprezzo per la tradizione.
Non era il primo cartone per adulti, ma fu il primo ed è rimasto l’unico per soli adulti. Un vero porno della più bieca trivialità. Era vietato ai minori di 18 anni e rimase poco nelle nostre sale, precluso agli adolescenti e sgradito agli adulti ancora sussiegosi e sdegnosi nei confronti dell’animazione. In compenso, costato un milione di dollari, ne incassò trenta solo nel Nord America dove non ci si poteva non riconoscere nelle violenze delle rivolte sociali che là dilagavano (università, Vietnam, disordini razziali, ecc.). Film simbolo là, cult da noi. In realtà fu duro da digerire, più sardonico che ironico, sessista, anarcoide, disseminato di droga e di degrado, quasi una rivisitazione degli squallori di Trash – I rifiuti di New York (1970, Paul Morrissey), film che era riuscito a schifare intere platee.
Fritz il gatto oggi, a quarant’anni di distanza, si direbbe con un eufemismo un film politicamente scorretto; allora su «Segnalazioni Cinematografiche» (vol. LXXIV, 1973), periodico della Commissione Nazionale Valutazione Film della Conferenza Episcopale Italiana, la recensione si concludeva così: «È tutta una dissacrazione, tutto uno sberleffo, la negazione di ogni e qualsiasi valore sul putrido altare di una frenesia erotico-pornografica della più infima qualità». Be’, se questa fu la “dannazione”, la condanna venne proprio dall’autore che lo fece morire nella storia “Fritz il gatto superstar” pugnalandolo a Hollywood con un punteruolo da ghiaccio. Di Fritz, oggi che i gatti vengono castrati per diventare pet, rimane ben poco, ma a lui almeno l’onore di aver affrancato i graphic novel da un “comune senso del pudore” che si basava solo su pruderie parrocchiali e perché no, anche di aver concimato la matita che ha creato i Simpson.
Robert Crumb non ha però smesso di essere scorretto. Oggi lo è in un modo filologicamente e ambiguamente inappuntabile con Il libro della Genesi illustrato (Mondadori, 2011), una Bibbia tanto “testuale” per crudezza e violenza da sembrare il testo di riferimento del nostro caro vice presidente del CNR Roberto de Mattei. Solo che lo stesso Crumb in un’intervista ha precisato «è davvero pazzesco che ancora oggi ci siano persone che prendono la Genesi come fonte di guida spirituale e morale». Chissà, forse de Mattei ha letto il libro senza rispettare l’avvertenza ben stampata in copertina: «Si raccomanda ai minori la lettura accompagnati da un adulto» dimenticando che i minori più a rischio sono proprio i minus habens.