di Carlo Bernardini *
Esiste dunque qualche cosa
Di cui non si può pensare nulla
Di maggiore, nell’intelletto e nella realtà. Anselmo d’Aosta, “Proslogium”
Se non facciamo il grande passo di abolire le religioni, il futuro delle società umane è segnato dal trionfo dell’immaginario sul reale. L’umanità ha costruito la cultura lavorando di fantasia sui dati della realtà ma poi, inconsciamente consapevole delle dimensioni che l’impresa stava prendendo e dei limiti delle capacità del cervello, l’ha dotata di un orizzonte trascendente in cui va a finire tutto ciò che non si capisce perché corrisponde a una forzatura del linguaggio con cui si fanno domande solo apparentemente chiare e semplici (i soliti “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo dopo la morte? Ecc.”).
È evidente la doppiezza semantica a cui il pensiero tradotto in formule interrogative si è prestato: posso dire con ugual diritto che non conosciamo la risposta a queste domande, oppure che queste domande sono improprie perché non hanno senso. Nel primo caso, però, si apre un tema di ricerca, sia pure di ricerca qualificata come metafisica perché supera ogni limite naturalistico di analisi del problema posto; nel secondo caso si apre, sì, un tema di ricerca, ma questa volta sul problema del non-senso di ciò che pure soddisfa tutte le regole non semantiche del linguaggio. L’uso del linguaggio si biforca, infatti, con la forzatura degli interrogativi nella sua variante “fenomenologica” e in quella “trascendentalista o teologica”. La difficoltà della variante fenomenologica, che spesso chiamiamo anche “scientifica” sta nel fatto che le affermazioni hanno un banco di prova, che sinteticamente chiamiamo realtà ma che non è la semplice realtà del senso comune bensì un sistema più largo che contiene le interpretazioni dei rapporti di causa ed effetto di un universo denso di eventi (dovrò tornare più avanti su questo); la difficoltà della variante teologica sta invece nella gratuita povertà simbolica di una causa trascendente insindacabile da cui tutto ciò su cui ci possiamo interrogare ottiene un’unica inutile risposta tacitante che però sottintende garanzie e rassicurazioni che riempiono la parte di noi che si adatta volontariamente, suggestionata nell’immaginazione, a quella risposta. Non ci sono modi di rendere compatibili la fenomenologia e la teologia, se non l’accreditamento di parole come “dio” e “fede” che sono state inventate con funzioni analoghe e impieghi assai diversi in condizioni geografiche, temporali e evolutive ben diverse. La ragione evidente di questa apparente universalità è chiaramente una: si tratta di invenzioni banali che hanno o possono avere, però, effetti enormi nella gestione del potere. È per questo che ho esordito auspicando che l’umanità si liberi dalle religioni: liberarsene vuole almeno dire storicizzare l’avvento del pensiero religioso con i suoi esiti socialmente realizzati e consolidati nei secoli: sarebbe un passo evolutivo apportatore di benefici enormi per tutti gli umani.
Già. Ma come si può fare? L’umanità, nel suo insieme, è succube della banalità in cui si traduce la quasi totalità degli effetti della comunicazione umana. La comunicazione ha come obiettivo dominante diffuso qualche tipo di frode; e la frode teologica è quella più a buon mercato per chiunque. Si tratta solo di suggerire l’illusione del trascendente come fosse un’esperienza e di sostenere di essere nella cerchia di chi già ne gode i favori. La chiave di volta del pensiero teologico è la domanda: “dio esiste?”, che però è quasi sempre affrontata come se la sola risposta dirimente possibile appartenesse al pensiero fenomenologico (cioè, dovrebbe essere una risposta che ha il supporto di prove nei fatti della realtà). La risposta fenomenologica più abusata è quella che qualifica dio come un ingegnere onnipotente che ha fatto le enormità reali che ci circondano e di cui noi stessi facciamo parte: dunque, l’opera ha un creatore. Al contrario, dire che la domanda non ha senso perché non è possibile dimostrare fenomenologicamente la non esistenza di ciò che non esiste, è considerata una risposta che esclude che quel dio onnipotente abbia il potere di confondere la ragione e che possa farlo con uno strumento eccezionale, la fede: dunque, il creatore può superare anche la ragione umana avendola creata come uno degli elementi soggetti ai suoi criteri di onnipotenza. Ma la ragione ha a sua volta poteri sufficienti nel campo della formulazione di concetti e strumenti linguistici: sicché può dire, molto plausibilmente, che la fede è semplicemente gratuita, ossia non “inverabile”, creando una battuta d’arresto nella parte più spinta di queste argomentazioni. E qui nasce un problema di libertà intellettuale che introduce il prezzo di questa scelta: si è liberi di credere oppure di non credere? Nel primo caso, è la stessa ragione che porta per mano verso gli interessi di una “amministrazione della fede” e della relativa organizzazione di potere; nel secondo caso, la ragione invece porta a difendersi dal costo eccessivo (non solo materiale) dell’apparato che gestisce la fantomatica fede (illiberalità legalizzata ricorrendo a un fondamentalismo intollerante, spesa per le manifestazioni mondane rituali a difesa del potere del clero, ingerenze nell’etica degli individui e pretesa di ruoli privilegiati nella società). Solo esseri umani isolati dal resto del mondo possono restare indifferenti alle implicazioni del credere trascendente, che ripiega furbescamente come surrogato verso l’incapacità di controllare razionalmente l’ignoto, il mistero: la paura, il dolore, la morte, ecc.
Naturalmente, queste che qui sto usando sono solo parole; in quanto tali, suscettibili di essere liquidate come “suggestioni illusorie” da chi è già condizionato dalle sue diverse “suggestioni illusorie”. Se si aggiunge che a qualsiasi individuo che abbia a cuore la razionalità valicabile dei propri pensieri la religiosità appare come un difetto di costruzione del cervello o, peggio, un’infezione di origine ambientale, i dubbi sul modo corretto di comportarsi in una società contaminata da alto tasso di trascendenza aumentano e costringono a riflettere su ciò che è lecito e ciò che non lo è. Da qui anche il dubbio circa l’utilità della predicazione laica. Meglio sarebbe concepire un programma di laicizzazione sociale che spingesse alla concretezza dei comportamenti individuali in una collettività densa. In un tale programma, il modo scientifico di pensare, anche in forme non specializzate, cioè la conoscenza della fenomenologia con cui si percepisce l’enorme realtà di cui siamo parte in modo verificabile (e perciò anche la fallacia della gratuità trascendente della metafisica), sarebbe metodologicamente accettabile. Una parola chiave sarebbe “convivenza pacifica”, validabile con un’analisi storica dei vantaggi biologici dell’altruismo dal punto di vista evolutivo. Vantaggi per chi? Ecco, qui c’è del lavoro da fare. C’è poi la classificazione delle tecnologie che aiutano l’evoluzione biologica con il minimo danno agli individui e al sistema: pensate a quanto è stato fatto con la lotta contro il fumo, le droghe e l’alcool. Francamente, la vista di un ubriaco e quella di una persona che invoca la benevolenza della divinità in un tempio producono in me impressioni molto simili: entrambi hanno rinunciato alla loro libertà di osservatori del mondo per divenire “osservati” a causa di un loro particolare stato di ebbrezza, chi con biasimo e chi senza biasimo.
Leggendo il particolare racconto di Kader Abdolah, Il Messaggero (Iperborea, 2008) ho capito la forza di un testo letterario che cerca di trovare le radici umane plausibili dell’affermazione di un “visionario”, Maometto nella fattispecie, che – invidiando la forza pervasiva di ebrei e cristiani – s’immagina che un ente supremo denominato Allah gli invii un angelo che gli rivela l’origine della forza che ebrei e cristiani hanno esercitato anche contro i despoti detentori dei poteri: quell’origine è in un libro di rivelazioni, o la truculenta Bibbia o i miti Vangeli. Ed ecco che Maometto fabbrica un libro di rivelazioni che, essendo dettato da Allah, non può che farsi Legge per tutti i credenti; parola del profeta. Una delle più spericolate rincorse tra monoteismi, ebraismo-cristianesimo-islamismo si svolge sotto gli occhi attoniti delle popolazioni: prendere o lasciare, la benevolenza di Jahvé o il Paradiso di Gesù o le Urì di Muhammad tenutario della ditta Allah acchiappano gonzi a frotte e li rendono felici come sa fare solo la fortuna. E costa poco, solo pratiche di accreditamento e legittimazione; naturalmente, il problema principale è quello di sostenere la credibilità di un impegno – come si suol dire – “a babbo morto”.
Se si confronta lo sforzo fatto per imporre il pensiero religioso e mettere in piedi l’impero ecclesiastico con quello che si fa per risollevare miliardi di disgraziati da fame, sete, malattie, disgrazie e morte precoce, si resta sbalorditi dall’egoismo umano e, in specie, degli uomini di chiesa. Solo i militari eguagliano l’egoismo dei religiosi; e sono al riparo dall’eliminazione sociale perché istituzionalizzati da secoli. La ridestinazione di individui e risorse al salvataggio dei deboli e diseredati, pur immediatamente comprensibile a tutti gli umani evoluti, resta meramente occasionale e “privata”. Se nelle chiese si progettasse un programma di recupero dell’umanità disgraziata senza balzelli trascendenti, il mondo sarebbe ben diverso. Mosé, Gesù, Maometto finirebbero in bella posizione nei libri di storia, da “buoni amici” e forse sgravandosi dal diluvio di lacrime e sangue che hanno involontariamente (?) prodotto. Rileggiamo bene la storia: un grande studioso, Mario Alighiero Manacorda, sta per dare alle stampe un suo scritto, Persecuzioni, che racconta come si può soccombere di credulità. Karlheinz Deschner uscì, nel 2001 in Italia per l’editore Ariele, con i volumi della Storia criminale del Cristianesimo. Il mio amico Roberto Renzetti sta per pubblicare Alla ricerca di un uomo chiamato Gesù. Ecco, se si esce dalle grinfie dei guardiani della dottrina, le idee si fanno subito più chiare, come nelle lotte civili per liberarsi da un’oppressione; anche se le oppressioni tacite e accettate da grandi masse sono le più difficili da debellare. Pensate al baccano che è nato da una sciocchezzuola come l’eliminazione dei crocifissi dai luoghi pubblici; oppure dall’insistenza sul problema delle “radici cristiane” nei documenti europei. Pensate alle ossessioni che accomunano ebrei, cristiani e islamici: la sottomissione delle donne, l’inammissibilità dell’eutanasia, il perdono (la magnanimità che accompagna le accuse), ecc. Ma nessuno osa organizzare una svolta che spazzi via per sempre questi abusi coperti da illusionismo soprannaturale: c’è rischio che la situazione si aggravi. Studiamo un modo per neutralizzare queste truppe d’occupazione e per riappropriarci dell’etica, della libertà e dei limiti che, a fatica, abbiamo già raggiunto.
* Carlo Bernardini, fisico e divulgatore scientifico. Nel ’60 ha collaborato alla realizzazione del primo sincrotrone e con altri fisici dell’INFN di Frascati alla costruzione dell’anello di accumulazione (AdA). È direttore della rivista Sapere. Dal ’69 al ’71 titolare della cattedra di Fisica generale all’Università di Napoli, poi all’Università “La Sapienza” di Roma professore ordinario di Modelli e metodi matematici della fisica, è stato anche preside della Facoltà di Scienze MFN.