False opposizioni. Scienze e saperi “umanistici” secondo Stephen J. Gould

di Andrea Cavazzini

Nel ricordare i dieci anni della scomparsa di S.J. Gould, si prova un certo imbarazzo tante e di tale valore sono le ragioni per celebrarne la figura. Vorremmo qui evocare soltanto un tema cui Gould ha dedicato il suo ultimo libro, postumo, The Fox, the Hedgehog and the Magister’s Pox [1]: il tema del conflitto, vero o (come pensa Gould) presunto, tra il sapere scientifico e quei saperi disparati che vanno sotto il nome di “umanità” (humanities in inglese; humanités in francese), o discipline umanistiche. Se questo tema ci sembra importante da riproporre, tra i tanti trattati da Gould nella sua opera sterminata, è innanzitutto a causa di un motivo contingente: non avendo problemi più seri cui dedicarsi, cioè avendone troppi e provandone forse vertigine, numerosi pubblicisti, filosofi e scienziati italiani hanno riattivato una vecchissima disputa sul conflitto e il valore rispettivo delle “due culture”, scientifica e umanistica; come spesso accade, la questione si riduce di frequente ad una disputa di Topi e di Rane, cosicché finisce per venir occultato il problema meno contingente che sta dietro questi discorsi in genere frettolosi: qual è lo statuto delle scienze? Cioè: qual è il loro posto nelle diverse attività umane? Quali il valore e il senso della loro pretesa ad una conoscenza obiettiva della realtà?

Secondo Gould, le scienze e le umanità non sono affatto in se stesse incompatibili e reciprocamente ostili; tuttavia, la comprensione di sé e del proprio statuto che ciascuno di questi saperi ha assunto nel corso della storia ha delineato sovente una dicotomia rigida e un dissidio insolubile. All’inizio dell’Età Moderna, e quindi all’epoca della rivoluzione scientifica, questa comprensione si è tradotta nella “Disputa degli antichi e dei moderni” che ha animato scienziati ed eruditi di tutta Europa. In breve: l’Antichità greco-latina resta un modello immutabile ed inarrivabile di sapienza e di civiltà? Oppure, la conoscenza crescendo con il tempo, si dà un progresso del Moderno rispetto all’Antico? Il che significa anche stabilire se il primato tra i saperi spetti a quelli dediti alla ricostruzione e interpretazione dei monumenti del passato, o a quelli che costruiscono nuove conoscenze per “ragionamenti” ed “esperienze”.

Questa contrapposizione corrispondeva ad una strategia rivolta all’affermazione dei poteri e del valore dell’allora giovane razionalità scientifica, una sorta di promozione sociale volta a metterne in luce il rapporto alla verità e all’oggettività. Il risultato fu però l’affermarsi, in particolare nel XVIII secolo, di un’immagine delle scienze estremamente semplicista, e che si potrebbe ben definire ideologica (Gould parla più volentieri di “mito”). Le scienze finirono per apparire come portatrici di uno sguardo puramente oggettivo, puro di ogni soggettività, in grado di accedere direttamente alla natura come essa è in sé liberandosi dei pregiudizi sociali e culturali. In tal modo, i saperi rivolti alla contingenza storica e alla varietà dei modi della cultura umana non potevano che apparire come saperi di second’ordine, confinati ad enumerare opinioni incerte invece di cogliere il Vero direttamente alla fonte (la Natura come realtà oggettivamente data). Il progresso stesso del sapere appariva come un cammino lineare verso una verità obiettiva sempre meglio conosciuta, o come un’accumulazione di “fatti” in vista della ricostituzione del quadro oggettivo del Mondo – tali saranno i “miti” del positivismo ottocentesco, che persisteranno nel ventesimo secolo (quando C.P. Snow lancerà, nel 1959, la querelle sulle “due culture”), fino all’altroieri, quando dal mondo accademico anglosassone si diffonderà lo scontro, tutt’altro che epico, tra i sostenitori di un oggettivismo semplicistico e i partigiani della riduzione delle scienze a semplici sistemi di credenze privi di universalità e non differenti da qualunque altra forma culturale.

Gould dedica lunghe analisi a ciascuna di queste incarnazioni della dicotomia scienze/humanities: in particolare, segnaliamo la sua ricostruzione dei limiti delle tesi di Snow, il quale profetizzava che la povertà nel mondo in via di sviluppo avrebbe potuto essere vinta da un’adeguata formazione tecnologica e dalla capacità innata degli scienziati a cooperare e ad ascoltare il prossimo (p. 101) – difficile non sorridere (amaramente) di fronte a un vaticinio che le vicende della decolonizzazione, e di quelle post-coloniali, hanno brutalmente smentito. Ma Snow non faceva che formulare in modo “puro” e naïf il mito oggettivista di un sapere scevro di legami con la vita sociale e storica (e quindi in grado di calare dall’alto per “riformarle”). In ogni caso, Gould ritiene che “il modo migliore per farla finita con questa fraudolenta opposizione tra la scienza e le umanità consiste nel mostrare che il mito persistente a riguardo del metodo scientifico – voglio dire la leggenda secondo cui la scienza sarebbe un’attività oggettiva, nettamente distinta da ogni tipo di soggettività del tipo che sottende invece la creazione artistica o letteraria – si fonda su di un’idea falsa” (p. 116).

Gould propone di ritornare alle analisi dedicate già all’alba dell’età moderna da Francis Bacon – considerato in genere come il nume tutelare della fede nel Metodo obiettivo – agli “ostacoli mentali e sociali” (p. 118) da cui non possiamo mai liberarci interamente e che rendono impossibile l’accesso ad una obiettività “pura”. Per il paleontologo newyorkese, Bacon è stato “il primo sostenitore di una scienza considerata come un’attività pienamente umana, che emerge in modo del tutto naturale dalle nostre abitudini mentali e dalle nostre pratiche sociali, ed inesorabilmente immersa nelle debolezze della natura umana e nelle contingenze della storia. Un’attività non separata ma integrata, e tuttavia capace di far progredire la nostra conoscenza del mondo esterno e il nostro accesso alle verità di fatto” (p. 118). Gould non nega certamente che la scienza sia in grado di cogliere obiettivamente ciò che perviene all’ambito delle proprie conoscenze; e che questa capacità la distingua da altre forme culturali più contingenti. Al tempo stesso, non bisogna dimenticare che essa è anche una forma culturale, e che l’obiettività non è un dono del cielo, ma occorre che le sue condizioni siano costruite nel mezzo delle contingenze culturali, storiche e ideologiche. La conoscenza obiettiva non è un dato né un miracolo inesplicabile, ma il risultato di un’attività la cui singolarità non può essere compresa senza verificarne i legami con altri modi dell’attività umana.

Ciò significa in primo luogo una cosa: la scienza non può essere compresa se non come storia delle scienze, che è la storia delle condizioni a cui l’oggettività della conoscenza è possibile: “Gli scienziati hanno cercato di ritrarre la loro propria storia come un cammino continuo verso la verità, scandito dalle fruttuose applicazioni di un Metodo universale la cui unica funzione consisterebbe nello spazzar via gli ingombranti miti del passato imposti dalla teologia o da altri ostacoli sociali, e di accumulare i dati empirici necessari” (p. 123). In realtà, se è vero che esistono degli ostacoli sociali e ideologici all’ottenimento della conoscenza oggettiva, è invece falso che quest’ultima non richieda altro se non “guardare i fatti come essi sono veramente”. L’oggettività scientifica è il risultato di un lavoro il cui intreccio con il resto delle pratiche e delle idee di una data epoca rende evidente che anche le condizioni dell’oggettività, e non solo gli ostacoli posti ad essa, sono di origine sociale. Qui non è possibile riprendere le analisi che Gould dedica alle complesse stratificazioni culturali, tecniche, ideologiche, ecc., che convergono nella costruzione di una classificazione zoologica. Diremo quindi che la presa d’atto di queste stratificazioni invalida l’oggettività delle classificazioni? Ma in nome di cosa potremo dirlo, dato che un qualsiasi ordine secondo cui disporre gli esseri e i loro caratteri non è un fatto immediatamente visibile nelle “cose stesse”, ma il risultato complesso di una serie di opzioni inconsce e di “modi di vedere” in cui si intrecciano abitudini culturali, pregiudizi e interessi sociali spesso inconfessabili? In realtà, non esiste un’obiettività assolutamente separata dall’efficacia di condizioni sociali date, ma solo un’obiettività costruita entro queste condizioni che sono anche il campo di battaglia della lotta contro ciò che all’oggettività si oppone.

Inoltre, il mito dell’oggettività assoluta del “fatto” riposa sull’idealizzazione delle procedure della fisica matematica (in realtà ben più complesse, ma qui interessa solo il mito della fisica come “scienza ideale”), secondo cui la scienza mirerebbe solo a “riunire dei fatti e proporre ipoteticamente delle teorie”. Gould ricorda che “la natura ha anche dei modi di funzionamento che sfuggono a questo schema (…). La pratica della scienza occidentale ha fortemente incoraggiato le tecniche quantitative e sperimentali ottimamente adatte allo studio di sistemi relativamente semplici, isolando alcune variabili determinate e attenendosi all’invarianza di leggi naturali prive d’ogni riferimento alla storia, ma che funzionano in modo predittibile in circostanze ben definite” (pp. 143-144).

In effetti, sarebbe possibile sostenere che gli approcci della fisica matematica sono più complessi e sottili del modello esposto da Gould, che corrisponde all’ideale deterministico di Newton-Laplace e che è poco coerente con i modelli caotici e quantici, ma in fin dei conti anche con la consapevolezza, risultante soprattutto dalla teoria della relatività, che al concetto di legge potrebbe essere preferito quello, più formale e meno “sostanzialista”, di simmetria. In ogni caso, Gould ha perfettamente ragione quanto al punto cruciale cui vuole arrivare: e cioè che la complessità e la contingenza giocano, nelle scienze del vivente, un ruolo incomparabile a quello che si riscontra in qualunque tipo di teoria fisica: “Numerosi campi fattuali (…) fanno intervenire sistemi complessi e contingenti (…) che non possono essere dedotti da leggi naturali identificate in laboratorio ma dipendono essenzialmente dalle tappe antecedenti del loro sviluppo. La sequenza narrativa di queste tappe può essere ricostruita a posteriori ma resta fondamentalmente imprevedibile” (p. 144). Queste osservazioni coincidono con l’ampio quadro teorico delineato da Francis Bailly e Giuseppe Longo nel loro libro Mathématiques et sciences de la nature (Hermann, Paris 2006), in cui questa divergenza tra teorie fisiche e teorie biologiche è argomentata in modo che qui non possiamo riprendere: basti accennare al fatto che nello studio dell’evoluzione temporale di un sistema vivente è impossibile definire a monte uno “spazio delle fasi” che riunisca tutti i parametri pertinenti per tale evoluzione, cosa che invece avviene in fisica anche laddove il determinismo classico diventa previsione statistica o semplicemente non dà luogo a previsioni a termine del comportamento del sistema. In ogni caso, secondo Gould, le scienze della vita non possono evitare un approccio che implica strumenti e pratiche intellettuali piuttosto simili a quelli degli storici, e che solo un vizioso isolamento delle discipline scientifiche ha potuto far considerare come estranei alla costruzione dell’oggettività. La contingenza propria alle scienze del vivente richiede e legittima degli “stili” conoscitivi che il mito del Metodo e dell’Oggettività non riescono a ricomprendere nei loro schemi.

Ma c’è una posta in gioco ulteriore delle posizioni di Gould, che va oltre i dibattiti metodologici volti a dare dell’attività scientifica un’immagine più ricca e complessa: è la sua convinzione che “quali che siano i fatti naturali, i nostri desideri e la nostra ricerca di moralità e di senso appartengono ad ambiti differenti – le umanità, le arti, la filosofia o la teologia – e non possono essere negati o soddisfatti dalle scoperte della scienza” (p. 114). Questa posizione di Gould, in un contesto storico in cui si (stra-)parla di etiche cognitive o darwiniane (cioè strettamente selezioniste …) dovrebbe essere considerata come coraggiosamente razionalista: se la scienza ci fornisce un sapere oggettivo, essa non può dare indicazioni su quali dovrebbero essere i fini del nostro agire, i quali, ovviamente, non possono che implicare un riferimento ineliminabile a colui che agisce. Inoltre, poiché la ricerca della conoscenza è essa stessa un fine possibile delle azioni umane, il problema si pone del perché dovremmo preferirla alla conservazione delle tradizioni o alle credenze nell’astrologia – questa preferenza non può essere argomentata in base a dei dati di fatto: essa dipende da opzioni fondamentali che certamente definiscono le sorti di intere civiltà, ma che ciascuno si trova di fronte sempre di nuovo nell’ambito limitato delle proprie scelte vitali. Nessuno può pretendere di trovare nella struttura della realtà conosciuta o conoscibile la garanzia della giustezza delle proprie decisioni – questo privilegio è caduto con la nascita della scientificità moderna, che riesce ad essere oggettiva proprio perché non parla a nessuno, e certamente non dei problemi vitali che richiedono scelte e preferenze. Queste considerazioni non sono certo nuove: Max Weber aveva già detto cose simili all’inizio del XX secolo, ma niente autorizza a credere che sia superfluo riprendere oggi il discorso.

Quando, come oggi spesso accade, si sente enunciare da etologi e biologi che un’etica altruista e socievole sarebbe, se non fondata, almeno corroborata dal fatto che la “natura” avrebbe fatto omaggio di un’etica del genere ai nostri cugini bonobo, la domanda che dovrebbe sorgere spontanea è: in caso contrario, cosa cambierebbe? Se i bonobo non conoscessero che comportamenti crudeli e sanguinari, questo fatto accertato in cosa legittimerebbe la nostra decisione di adottarne di analoghi? L’impossibilità di dare una risposta sensata a questa domanda suggerisce che il successo mediatico di risultati scientifici presentati sistematicamente come fonti di una nuova consapevolezza etica si fondi su di un errore logico; o, per citare ancora Gould: “Le regole morali non possono provenire dalle leggi empiriche della natura, né contraddirle, poiché il discorso etico riposa su altre fondamenta e fa appello ad altri criteri di validazione” (p. 246). Con “discorso etico” qui non vanno intesi gli insipidi slogan che circolano presso l’opinione contemporanea (“rispettiamo l’altro”, “difendiamo la vita”, “conserviamo il paesaggio”, “rispettiamo la segnaletica stradale”, ecc.): bisogna invece intendere l’ambito mortalmente serio in cui ciascuno è chiamato a rispondere alla domanda “Cosa devo fare?”; o ancora: “Quali fini mi devo prefiggere?”. Chi volesse trovare una risposta nelle conoscenze scientifiche dovrebbe scegliere tra l’assurdità pura e semplice, e l’idea che, in fin dei conti, la realtà che le scienze descrivono contenga in sé stessa un’indicazione etica – il che significa restaurare una forma di pensiero pressoché mitologica. Le discipline che Gould chiama humanities non contengono certo risposte immediate a questi interrogativi: ma la loro pratica può affinare la comprensione di queste domande, la sensibilità alle loro implicazioni. È per questo motivo che esse non vanno contrapposte al sapere scientifico; e che una società (com’è largamente la nostra attuale) che disprezza le “umanità” non potrà comprendere il significato delle scienze. E, simmetricamente, una società che riduca le scienze al loro brutale valore contabile rischierà di perdere le proprie “umanità” – nelle diverse accezioni di questa parola.

Note

  1. Inedito (significativamente) in Italia; non avendo potuto procurarci un esemplare dell’edizione originale, citeremo dalla traduzione francese, Le renard et le hérisson, Seuil, Paris 2005