di Nicola Fiorita *
Il principio di sussidiarietà è entrato, sulla scorta di un ampio e diffuso consenso dottrinale e popolare, nella Costituzione italiana con la riforma del titolo V. Esso trova oggi espressa menzione nell’art. 118 della Costituzione – quale criterio di riparto delle funzioni amministrative tra le articolazioni dello Stato e quale principio che le istituzioni devono rispettare al fine di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini – e nel successivo art. 120, quale limite al potere sostitutivo che può esercitare il Governo centrale.
Il successo riscosso dalla sussidiarietà ha spinto molti analisti a sostenere che in realtà la Costituzione del 1948 nascondeva già tra le proprie pieghe il principio in oggetto, rinvenuto ora nel riconoscimento delle formazioni sociali, di cui all’art. 2, ora nell’impegno a perseguire il progresso materiale e spirituale della società, introdotto dall’art. 4, ora in altre e magari ancor più sfumate disposizioni. Nel 2001, insomma, non sarebbe stato “inventato” un nuovo principio costituzionale, ma si sarebbe solo reso esplicito ciò che non era stato sufficientemente valorizzato fino a quel momento.
Nella retrodatazione del principio si è inserita prontamente l’intellighenzia cattolica, che ha avuto facile gioco nel rivendicare una primigenia religiosa della sussidiarietà. La sua formulazione, dunque, sarebbe opera della dottrina sociale della Chiesa che ad esso, per l’appunto, affidò il compito enorme di permeare e orientare gli ordinamenti statali sempre più totalizzanti. Già nel lontanissimo 1931, quando la potenza dello Stato si sprigionava apparentemente senza incontrare limiti, Pio XI – riprendendo il magistero di Leone XIII e il contenuto della Rerum Novarum – esplicitava nell’enciclica Quadragesimo anno i postulati fondamentali del principio di cui ci occupiamo (da subito articolato in quella che poi verrà definita come una versione orizzontale e verticale della sussidiarietà) in quanto “siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare”.
Una rivendicazione di paternità a cui tutto il mondo cattolico si è unito e che si è successivamente trasformata nell’apprensione per una corretta e diffusa penetrazione del principio nella società civile, tanto che Giovanni Paolo II giunge, in un discorso del 22 febbraio del 2000, a collegare la tenuta delle società autenticamente democratiche alla capacità di educare l’opinione pubblica in ordine all’importanza del principio di sussidiarietà. Sarebbe agevole completare questo autorevole pronunciamento ricordando che se è stato un Papa a formulare il principio ed un altro Papa a promuoverne la diffusione più vasta possibile, sono tutti indistintamente i Pontefici che si sono succeduti da Leone XIII ad oggi ad aver evitato di applicare il medesimo principio alla vita della Chiesa cattolica, che resta rigidamente ancorata alla sua struttura gerarchica e verticistica senza mai farsi sfiorare dall’idea che quel che vale per gli Stati debba essere buono anche per sé. Ma questa inclinazione del discorso rischia di far scivolare le riflessioni su un piano polemico e poco fecondo. Più interessante, mi pare riflettere sullo stato di salute del principio di sussidiarietà a più di dieci anni dal suo trionfale ingresso nel testo costituzionale.
E tale riflessione può ben muovere a partire dalla versione verticale del principio, rispetto alla quale massima è stata l’adesione dottrinale, per una volta pressoché priva di posizioni critiche. In questa accezione, il principio comporta che le funzioni e i compiti pubblici siano esercitati dall’ente locale più vicino ai cittadini a meno che non sia necessario un loro spostamento verso l’alto. La sussidiarietà verticale, architrave della riforma del titolo V e propulsore del processo di federalizzazione dello Stato, deve oggi fare i conti con la tendenza a riguadagnare terreno da parte del livello centrale. In questo senso spinge una giurisprudenza della Corte Costituzionale sempre più sensibile alle esigenze unitarie e, soprattutto, la crisi economica, che conduce ad una ricentralizzazione della gestione delle risorse economiche, ad un taglio degli enti locali, ad una frenata del federalismo fiscale. La riscrittura in senso federale e sussidiario della Repubblica sembra essere rimandata a tempi più favorevoli, anche perché senza risorse sufficienti l’attribuzione di nuove competenze agli enti locali non può che avere il sapore della presa in giro. Quanto poi al rapporto con la laicità, va aggiunto che la produzione normativa delle Regioni ha subito in questi anni un mutamento quantitativo (più competenze, più leggi) ma non qualitativo, restando estremamente sensibile ai desiderata delle gerarchie ecclesiastiche, collocando generalmente la Chiesa cattolica in una posizione di speciale vantaggio rispetto alle altre confessioni religiose e ad altre organizzazioni sociali e concorrendo a pieno titolo a realizzare quel recupero confessionista che ha caratterizzato negli ultimi anni l’intero ordinamento giuridico italiano.
Ben più problematica, sin da subito, si è rivelata la sorte della declinazione orizzontale del principio, quella che in pratica ridisegna il rapporto tra potere pubblico e forme di manifestazione dell’iniziativa privata, configurando un sistema in cui le attività di interesse generale possono essere svolte anche da soggetti individuali e collettivi non appartenenti alla struttura statale, anzi da essi devono essere preferibilmente e prioritariamente svolti.
Come è stato efficacemente notato, già a ridosso dell’entrata in vigore della riforma, la sussidiarietà orizzontale sembra assumere il significato di autosufficienza della società civile, il che determina un cambiamento radicale delle ragioni costitutive della democrazia, la quale tra i suoi fondamenti annovera il principio della rappresentanza e della determinazione politica degli interessi generali (Luciano Zannotti). Sin da subito, dunque, era chiaro che la potenziale applicazione del principio ad un numero vastissimo di situazioni sociali avrebbe veicolato la richiesta di soggetti privati di assumere un ruolo significativo nell’erogazione del servizio scolastico, del servizio sanitario, del servizio assistenziale e via dicendo. Così come non sfuggiva a nessuno che questo processo avrebbe visto in prima fila gli enti religiosi ed in special modo le articolazioni della Chiesa cattolica desiderose di usare la sussidiarietà come strumento per realizzare una rivincita storica, riportando tra le mani ecclesiali molto, se non tutto, di quello che lo Stato aveva loro sottratto a partire dalla rivoluzione francese.
A stupire, semmai, non era la propensione della Chiesa a riconquistare funzioni e poteri che sembravano perduti per sempre, quanto piuttosto la leggerezza con cui lo Stato si liberava di quelle medesime funzioni, abbagliato dal miraggio di una maggiore efficienza del servizio e stordito dalla promessa di una riduzione della spesa pubblica. Se mai non si fosse compreso, in questi dieci anni che sono trascorsi dalla riforma, lo scarto che divide la marginalità dei risparmi dalla consistenza degli effetti non economici della sussidiarietà orizzontale sarebbe bene volgere lo sguardo alle trasformazioni che investono i Paesi islamici. Ben prima che in Italia, in quegli ordinamenti si era realizzato di fatto un processo molto simile a quello descritto, posto che il potere pubblico aveva sostanzialmente deciso di disinteressarsi di alcuni bisogni sociali (istruzione, ma soprattutto assistenza) consentendo che essi venissero soddisfatti dalle organizzazioni religiose. La nascita di un welfare islamico – finanziato in larga parte dai segmenti più conservatori del mondo musulmano – ha condotto al consolidamento di una egemonia religiosa di larghi settori della società e al rafforzamento di quei partiti islamici che oggi trasformano le preghiere in voti, le opere in candidature, i bisogni in appartenenze, riempiendo rapidamente i vuoti lasciati dallo sgretolamento dei regimi dittatoriali.
In sostanza, è davvero troppo ingenuo ritenere che l’opera dei privati in settori così delicati come quello della salute, dell’istruzione o dell’assistenza possa svolgersi senza un ritorno: economico per alcuni, religioso per altri. Il privato cattolico svolge sempre la propria attività alla luce di quella che è la propria visione del mondo, né sarebbe corretto chiedergli di accantonarla, di dimenticarla, di negarla. Le scuole cattoliche, gli ospedali cattolici, gli oratori e tutti gli enti ecclesiastici sono naturalmente dediti alla trasmissione, all’educazione, alla diffusione dei propri valori di riferimento, sono portatori di una ideologia totalizzante ed irrinunciabile e il loro incremento si traduce nell’incremento delle occasioni di proselitismo e nel consolidamento di una egemonia che passa attraverso la capillare presenza di organizzazioni cattoliche nei gangli vitali di ogni società. Non a caso, la sussidiarietà orizzontale viene utilizzata dagli enti ecclesiastici per erodere la presenza dello Stato in settori chiave della vita comunitaria (l’educazione dei giovani, l’assistenza ai deboli) che concorrono a costruire il sentire profondo dell’intera collettività.
La sussidiarietà orizzontale, se si realizza senza controlli e limiti, non può che alterare i tratti della modernità anche sotto un secondo ed ulteriore profilo. Non solo, infatti, desta perplessità l’apertura ai privati di competenze che investono i diritti fondamentali dei cittadini, ma preoccupa anche la forma che tale apertura ha assunto nel nostro Paese, con la pronta costruzione di una corsia preferenziale riservata ad alcuni specifici soggetti privati.
Per comprendere appieno il senso di questo timore, basterà guardare alla legislazione regionale in favore degli oratori che si è sviluppata negli ultimi anni praticamente in tutto il territorio nazionale. Tratto caratteristico della normativa è quello di giustificare i contributi pubblici che vengono erogati in favore di alcuni soggetti privati in ragione della loro capacità di realizzare alcuni obiettivi tipici di quell’assistenza sociale che dopo la riforma del titolo V rappresenta, per l’appunto, materia di esclusiva competenza regionale. Ma il sostegno pubblico, invece di indirizzarsi in favore di tutti quei soggetti che svolgano attività di prevenzione del disagio giovanile, socializzazione, recupero della dispersione scolastica o della devianza minorile, educazione alle attività sportive e via dicendo, si concentra esclusivamente – e salvo qualche marginale eccezione – sulla particolarissima categoria degli oratori, enti appartenenti alla Chiesa cattolica ed esplicitamente destinati dal codice di diritto canonico all’educazione dei giovani nella fede (ovviamente cattolica).
Se parte della dottrina ha cercato, in questi anni, di restringere l’operatività del principio di sussidiarietà orizzontale fissando nella maniera più rigorosa i requisiti che rendono possibile il coinvolgimento dei privati nella realizzazione degli interessi pubblici, specie qualora esso riguardi i diritti fondamentali dei cittadini, altra parte della dottrina – proprio facendo riferimento alla legislazione in materia di oratori – ha elevato il principio di eguaglianza a difesa del sistema democratico contro le derive privilegiarie. Proprio tale principio, infatti, consentirebbe di garantire una ragionevole attuazione del principio di sussidiarietà, impedendo che l’individuazione dei soggetti destinatari si trasformi in un’operazione ricca di discriminazioni e foriera di nuovi monopoli. D’altra parte, la sussidiarietà orizzontale imporrebbe una sostanziale indifferenza dello Stato nei confronti della natura dei privati (religiosi o non religiosi, cattolici o musulmani, for profit o no profit) chiamati a realizzare l’interesse pubblico, essendo piuttosto rilevante solo la loro idoneità a raggiungere il risultato nelle forme richieste dal rispetto dei diritti fondamentali. E casomai, con l’ulteriore postilla di delimitare il campo di azione degli stessi privati, escludendo che essi possano sostituirsi allo Stato in alcuni delicatissimi settori, come quello dell’istruzione, dove non è affatto indifferente che il servizio sia erogato dall’uno o dall’altro soggetto (Francesco Onida).
Eguaglianza, dunque, ma anche pluralismo e neutralità – in una sola parola: laicità – concorrono a restringere l’operatività del principio di sussidiarietà e ad impedire che esso si trasformi in un’arma di distruzione della modernità. Verticale o orizzontale, ancora una volta, quel che più occorre al nostro ordinamento è solo un po’ di laicità.
* Nicola Fiorita (Catanzaro, 1969) è professore associato di Diritto Canonico presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università della Calabria (Arcavacata di Rende, Cosenza). Tra le sue pubblicazioni: Remunerazione e previdenza dei ministri di culto, Giuffrè, 2003; L’Islam spiegato ai miei studenti, Firenze University Press, 2006; Separatismo e laicità. Testo e materiali per un confronto tra Stati Uniti e Italia in tema di rapporti stato/chiese, Giappichelli, 2008 (con V. Barsotti). Nel 2009 ha curato (con D. Loprieno) il volume La Libertà di manifestazione del pensiero e la libertà religiosa nelle società multiculturali (Firenze University Press).