di Marco Accorti
Se non sbaglio fui proprio io ad aprire gli argomenti testamento biologico ed eutanasia. Era il 2000, di anni ne sono passati; ne ho scritto ancora ed altri si sono uniti per affrontare ed approfondire il problema, ma siamo sempre davanti ad un tabù praticamente insormontabile.
Visto che nel frattempo casualità o pudore non hanno promosso un’ulteriore riflessione tocca ancora a me, chissà forse all’insegna “vieni avanti cretino”, di anticipare il disagio di trovarsi in conflitto di interessi. Infatti, le ultime diagnosi mi prefigurano il fine corsa, cosa ovviamente di ignota scadenza ma di certo accadimento. Devo dunque morire e mi si offre l’occasione di parlarne in prima persona. Non è che tutto questo sia molto originale – è quanto aspetta anche chi ora mi legge – solo che appare diversa la cadenza dei tempi e, soprattutto, lo stato psicofisico con cui la si affronta. Non sarà una sorpresa, un infarto, un tragico incidente; no, io so che non ci sarà bisogno di girovagare tanto: dietro l’angolo ci sono un cancro aggressivo e un polmone che ha fatto fico ed assieme hanno scritto fine. L’unica cosa che non so è quale sia l’angolo dietro il quale vedrò i titoli di coda.
In questi casi si usa fare dei bilanci ed il mio, almeno fino ai cinquant’anni non può essere che invidiabile: una roccia amata e rispettata. Solo dopo ho avuto qualche ripensamento circa il tempo che ho sottratto agli affetti per investirlo nel lavoro. Ma forse esagero: in fin dei conti anche l’impegno nel quotidiano può rivendicare un suo spazio e una sua dignità.
Poi arrivò il primo cancro. Già: non sarà l’unico. E anche qui non si può dire che sia andata troppo male. Diciamo che è finita 1 a 1: sono sopravvissuto pagando il prezzo dell’autonomia; 14 anni agli arresti domiciliari spesso a rigirarmi fra disagi e dolori, ma almeno libero di pensare. Anni in cui, prima Exit, poi LiberaUscita, infine l’UAAR e L’Ateo hanno convogliato il mio impegno politico ed accompagnato il prosieguo dei miei interessi nel mondo delle api e del libero pensiero.C’è stato anche un secondo cancro, ma si rivelò roba da scherzi a parte: un falso positivo al pancreas. Finito bene, ma per svelarlo ci volle un mese di angoscia che non ho ancora digerito.
Ed ora tombola: cancro al polmone. E questa volta tanto avanzato da essere ad esito certo. Ho voluto percorrere questo itinerario per arrivare allo stato attuale allorché mi trovo nella condizione di passare dalle parole ai fatti, anzi al conflitto di interessi.
Potrà sembrare singolare metterla in questi termini, ma fra scrivere, parlare, discutere di testamento biologico ed eutanasia ed affrontare direttamente questi argomenti è il classico passare dalle parole ai fatti, dalla teoria alla pratica con tutto quanto ne consegue. Un conto è parlarne in uno stato psicofisico più o meno integro o almeno autosufficiente, altra cosa è verificare che ogni giorno il tuo corpo è marchiato da una nuova piega, una grinza che era assente il giorno prima, come tu fossi diventato una crisalide che invece di liberare una farfalla, si fa sfuggire giorno giorno un soffio di vita. Neanche fossero le tacche sul calcio di un fucile a ricordare i duelli vinti: queste tacche sono solo un calendario di sconfitte. Ogni tacca, ogni nuova ruga, sono il presagio di una perdita di vitalità che poi si concretizza nella sempre maggiore difficoltà a trascinare il corpo, addirittura a sostenerlo nei movimenti.
Ma non basta. Cambia anche il contesto in cui agisci, a cui ti rivolgi, che privilegi. Adesso fai parte di quella “processione” di miracolanti che entrano ed escono dai santuari presunti laici dei reparti oncologici e cambia completamente il modo con cui manifestarsi condizionati da un diverso status psico-fisico.
La disistima e l’impossibilità di rispettare visioni religiose altrui non vengono meno, anzi mi appaiono ancor più risibili, ma lo stare gomito a gomito con le altrui paure e speranze m’impedisce di forzare la mano nei confronti di questi esseri umani e delle prefigurazioni di questi complici alla ricerca di un percorso “salvifico”: chi affidandosi alle mani di dio, chi, come me, a quelle dei medici. Lo stesso “scrocifiggo” mi risulta difficile da rivendicare visto che per molti pazienti è elemento di sollievo sentirsi “guardato” da un cristo appeso; eppure dover stare ore con un ago in vena sotto gli occhi di cristi, madonnine e padri pii sparsi in ogni dove posso assicurare che è tanto depressivo quanto è difficile da rifiutare per rispetto delle fantasie e delle sicumere dei compagni di camerata.
È come se in quel reparto fossero curati, o meglio curabili solo i cattolici, i tumorati di dio e gli altri accolti solo per grazia ricevuta. Ovviamente, almeno senza palesarsi non credente, il trattamento è ineccepibile e l’accoglienza non riserva né sorprese né privilegi da parte di un personale medico-infermieristico infaticabile e amichevole, ma è l’atmosfera a suonare stonata, direi offensiva con quel marcare il territorio a forza di simboli confessionali.
Ma non basta perché il disagio è ben distribuito nei padiglioni di Careggi. Sette cappelle, una chiesa, cappuccini che svicolano per i corridoi e poi risvegliarsi dall’anestesia costretti come prima cosa a mettere a fuoco un crocefisso. Tutto questo sarà anche di conforto per un cattolico, ma per me fu una violenza che si andava a sommare ai dolori del tornare al mondo.
C’è una volontà, non si sa quanto consapevole, che induce a marcare i muri ospedalieri, patrimonio comune, invece di usufruire della lecita possibilità di addobbare con i simboli della propria superstizione il corpo, la scrivania e quanto di esclusiva proprietà. E nel contempo, in mezzo a questa commistione di simboli e di differenti culture, c’è la difficoltà di trovare un modo “a-teo” per andarsene con dignità. Già, perché sembra che come anni fa ho aperto un tema allora nuovo, oggi mi trovi nuovamente a forzare la mano per passare dalle parole ai fatti. In realtà l’argomento è già stato affrontato – L’Ateo 2/2011 (74) – ma questa volta non so proprio da che parte rigirarmi perché si tratta di uscire dal “teorico” e cercare di descrivere quel che si prova in diretta durante il trapasso. Posso dire che, al momento non c’è un briciolo di paura né soverchi rimpianti su quanto lascio di cose pratiche. C’è una moltitudine di sospesi, questo sì, dovuti alla mia cialtroneria, alla mia curiosità, agli innumerevoli stimoli che in questi decenni mi hanno colpito nonché progetti incompiuti perché vacui o non compresi. Chissà se mai verranno raccolti e avranno un seguito. Ne dubito perché sono cose che vivono soprattutto in me. Il dolore, ecco questo temo e mi fa veramente paura. Mi posso solo augurare che l’Hospice a cui mi sono affidato mantenga la parola e mi accompagni al trapasso in un sonno liberatorio e sereno.
Ma soprattutto sono gli affetti che mi fregano, anche se nel contempo l’idea di non vedere più i miei cari soffrire nel constatare lo stato in cui mi trovo è anche di grande sollievo. Quindi almeno in questo si può andare in pareggio. Può essere più o meno difficile salutare chi muore, ma è un testa a testa e dipende dalla capacità individuale di fare fronte alle sensazioni ed alle emozioni che affiorano. In fin dei conti in questi casi anche l’ipocrisia aiuta.
Quello che invece mi rimane difficile è salutare collettivamente chi rimane e farlo nel rispetto e nella coerenza del mio pensiero. Ogni volto che in questi 65 anni mi ha accompagnato meriterebbe un riscontro da parte mia, dal più sonoro e poco urbano vaffa, da riservare a un inconsistente presidente della Consulta Laica del Comune di Firenze, fino a Baldo e agli amici del Laboratorio della Laicità la cui accoglienza ha infranto muri di pregiudizi e di distinzioni ideologiche.
Ma ci sono anche altri mondi paralleli che mi hanno accolto con rispetto e affetto: la BiblioteCaNova che ha avuto la pazienza di aspettare chi non arriverà mai, o quando avverrà ormai i miei tempi saranno scaduti. Il mondo dell’apicoltura a cui ho dato molto, direi addirittura che sono in credito, e che ancora, forse per garbo, mi considera parte integrante. Gli amici dei miei ragazzi che ho avuto il piacere di conoscere e stimare; altro che bamboccioni: sono persone vere.