di Caterina Mognato e Maria Giacometti
La 69aMostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2012) presentava, già dalla lettura del programma, almeno tre titoli interessanti per noi giurati del Premio Brian: Bella Addormentata di Marco Bellocchio sul tema del fine-vita, The Master di Paul Thomas Anderson che si diceva ispirato a Scientology e Paradies: Glaube (Paradiso: Fede) di Ulrich Seidl. In realtà, di film papabili per il nostro premio abbiamo scoperto essercene molti di più e la scelta finale non è stata affatto scontata.
Il 29 agosto, primo giorno di proiezioni, The Reluctant Fundamentalist di Mira Nair si è imposto alla nostra attenzione con un bell’esempio di riflessione sulla libertà di coscienza, tanto più apprezzabile in quanto non diretta a senso unico.
Changez Khan è un giovane pakistano laureatosi negli Stati Uniti. Grazie alla sua intelligenza e alla sua grande voglia di riuscire, diventa uno dei più brillanti analisti finanziari di Wall Street. Ha davanti a sé un futuro di potere e ricchezza, al costo ovviamente di mettere a tacere ogni scrupolo nel liquidare piccole e grandi società e licenziarne i lavoratori. L’attentato dell’11 settembre, però, cambia le carte in tavola, attirando pregiudizi politici ma anche razzisti nei suoi confronti. Dopo una complessa presa di coscienza, Changez rinuncia al suo sogno americano e torna in patria. Qui, divenuto docente universitario, viene avvicinato dal capo di un gruppo estremista. La tentazione di aderire alle posizioni più violente del fondamentalismo islamico è forte, ma lo blocca una frase: “Dobbiamo tornare ai fondamenti del Corano”. Una frase quasi identica era stata pronunciata anni addietro da Jim, il suo capo a Wall Street: “Dobbiamo tornare ai fondamentali dell’economia”. Allora come ora la richiesta che gli viene fatta è la stessa: rinunciare a pensare con la propria testa e a decidere secondo la propria coscienza, in nome di leggi finanziarie o di dogmi religiosi ritenuti inviolabili. Changez rifiuta.
Due belle canzoni pakistane fanno da colonna sonora ai momenti più drammatici di The Reluctant Fundamentalist. Vale la pena citare alcuni versi del testo di “Mori Araj Suno” di Tina Sani cantata da Atif:
… Mio vero Signore, tu hai detto/ Vai, uomo, sei il signore del mondo/ I miei possedimenti sulla Terra sono i tuoi tesori/ Tu sei il viceré del tuo Creatore/ …/ Non voglio la regalità, mio Signore/ Tutto ciò di cui ho bisogno è un po’ di rispetto/…
Sempre il primo giorno è stato proiettato il film di Sarah Polley Stories we tell: 108 minuti di interviste ad amici e parenti, intervallate da spezzoni di finti filmini superotto con compleanni ed altre feste in famiglia. Detto così sembrerebbe un film noiosissimo, invece la regista-attrice riesce a tenere desta l’attenzione del pubblico e rende avvincente quella che all’inizio pare una banale storia di famiglia, dosando sapientemente l’aggiunta di sempre nuovi dettagli. La giuria del Premio Brian, però, non dà certo un riconoscimento alla miglior sceneggiatura, quindi perché citare questa pellicola? Quale interesse può avere per degli atei, agnostici, razionalisti?
Stories we tell è la storia di una figlia che cerca la verità su sua madre, morta quando lei era ancora bambina. Non solo, è anche la ricerca di chi sia il suo vero padre. Un’indagine, dove le interviste si trasformano via via in interrogatori, dove le domande scavano nel profondo di tutti i protagonisti e toccano i nuclei fondanti dell’essere umano: la vita, la morte, i legami familiari, la fiducia, il rancore, l’amore tanto grande da riuscire a sopravvivere anche al tradimento e alla morte. E mai una volta, in questa penetrante analisi dei sentimenti, la regista sente il bisogno di fare cenno alla religione.
The Master di Paul Thomas Anderson è tutto incentrato sull’incontro-scontro di due menti malate, quella violenta di un reduce della Marina e quella esaltata del capo carismatico di una setta, che pare assomigli molto a L. Ron Hubbard, fondatore di Scientology. Altri messaggi, se ce ne sono, il regista li ha tenuti ben nascosti. Manca, in effetti, un’analisi sociologica delle sette e della loro diffusione negli Stati Uniti d’America, il paese più religioso del mondo.
Paradies: Glaube ha ottenuto il Gran premio della giuria. Sullo sfondo di un’Austria attraversata da sentimenti xenofobi, Annamaria trascorre le ferie andando di casa in casa a portare una statua della Madonna e a diffondere il suo credo. Il film si articola secondo due direzioni: da una parte, il pellegrinaggio quotidiano e l’incontro scontro, a tratti esilarante, di Annamaria con balordi e marginali. Dall’altra parte, il trattamento crudele che ella riserva al disprezzato marito musulmano, ridotto su una sedia a rotelle, e a un povero gatto avuto in affidamento. Il film mette in evidenza il nesso tra religiosità e sessualità frustrata, esplicitamente e provocatoriamente, tanto che la scena della masturbazione con il crocifisso ha suscitato qualche ripugnanza in una parte del pubblico. Il film, in realtà, denuncia il fanatismo religioso quale valido contrappunto della mancanza di umanità e di sensibilità verso il prossimo: uomini e animali.
Pagine chiuse di Gianni Da Campo è un film girato nel 1966 e presentato alla Mostra del 1968. L’ASAC (Archivio Storico delle Arti Contemporanee della Biennale) l’ha restaurato e digitalizzato, presentandolo quest’anno nella sezione RETROSPETTIVA: 80! Il film, ambientato negli anni ’50, racconta l’esperienza di un adolescente strappato alla vita familiare in campagna, per essere istruito in un collegio religioso: nessuna violenza fisica, nessun abuso, solo una raggelante indifferenza verso i sentimenti del ragazzo e una disciplina che diventa persecutoria, a causa dell’ottusità di chi la fa rispettare. Pagine chiuse non ebbe distribuzione nelle sale cinematografiche, nonostante avesse ottenuto il premio della Semaine de la Critique al Festival di Cannes nel 1969. Peccato che all’epoca il Premio Brian non esistesse ancora, perché di certo Gianni Da Campo lo avrebbe meritato!
Interessante, nella stessa sezione, il film di Jean Delannoy, Dieu a besoin des hommes del 1950. Gli abitanti della selvaggia isola di Sein, al largo della Bretagna, assistono alla fuga del curato, esasperato dagli atti di banditismo verso i naufraghi e da quella che gli sembra l’ostinazione nel peccato della popolazione. Il sacrestano Thomas, pescatore analfabeta, cede al desiderio della comunità e, in attesa di un nuovo curato, tenta di svolgere gli uffici sacerdotali, fronteggiando con intelligenza e ironia le difficoltà di un lavoro più mondano che sacro. Il film può essere letto come espressione nostalgica di una religiosità ingenua, non conformista, critica dell’ipocrisia della Chiesa e delle sue maschere. Può anche essere interpretato laicamente come il bisogno di autoorganizzazione della società, che inventa Dio a questo scopo; e che funziona molto meglio senza una Chiesa che controlli i corpi e le anime degli individui.
Altri due film interessanti, specie se considerati in parallelo, sono stati Wadjda di Haifaa Al Mansour e Lemale Et Ha’Chalal (Fill the Void) di Rama Burshtein. Entrambi narrano storie di donne all’interno di comunità teocratiche e patriarcali. Wadjda è una ragazzina araba che vive a Riyadh e desidera una bicicletta per gareggiare con l’amico Abdullah. Ma in Arabia Saudita anche una semplice bicicletta è vista come una minaccia per la virtù di una ragazza. Le donne per strada indossano abito e velo nero. Le giovani a scuola imparano l’ipocrisia e sono istigate a denunciarsi l’un l’altra in nome dell’osservanza religiosa [1]. Eppure le donne arabe covano dentro di sé e all’interno delle loro case il sogno di una vita moderna, indipendente e gioiosa. Wadjda avrà la sua bicicletta, perché la madre, umiliata dal marito che prende una seconda moglie, vuole per la figlia un futuro diverso dal suo.
Non così le donne israeliane di Lemale Et Ha’Chalal, appartenenti a una comunità cassidica ortodossa che pare avulsa dalla realtà contemporanea. La giovane Shira si sta per fidanzare con un coetaneo scelto per lei dal padre. Lo ha visto solo da lontano, ma è trepidante al pensiero del matrimonio. L’improvvisa morte della sorella maggiore durante il parto, però, manda in fumo i suoi sogni. Sua madre vuole che sposi il cognato, rimasto vedovo, poiché in questo modo non rischierà di perdere il nipotino neonato. Shira dapprima resiste, non perché innamorata di un altro, non per affermare la propria libertà di scelta, ma perché teme di essere solo un rimpiazzo della sorella. Shira cederà per amore della famiglia, senza alcuna vera ribellione, lontana anni luce dalla piccola Wadjda e dal suo sogno di una bicicletta.
Ancora donne nel bel film di Rusudan Chkonia Keep smiling: dieci partecipanti ad un concorso televisivo che deve nominare la miglior madre della Georgia. L’ambientazione è contemporanea, ma ricorda da vicino l’Italia del dopoguerra: un paese ferito che desidera rimettersi in piedi, che sogna ed imita come può gli aspetti spesso più volgari e diciamo pure miserabili del ricco Occidente. Famiglie di sfollati abitano da sedici anni nei ricoveri provvisori di un ospedale dismesso. Altre sono ammassate in appartamenti dai muri di cartone che non permettono alcuna privacy. Per questo motivo oneste madri di famiglia (ma non solo) abboccano al miraggio di un vero appartamento, messo in palio da un network televisivo. Le prove iniziano con un’innocente gara di cucina ma, a mano a mano che il pubblico dimostra interesse, le esigenze dei conduttori si fanno più pressanti. Si scava nelle vite private delle donne. Tutte e dieci le concorrenti, anche le meno attraenti e più avanti negli anni, sono costrette a ballare, a cantare, a sfilare in bikini succinti. Un paparazzo s’infila di nascosto nei camerini e le fotografa mentre si spogliano. La foto di una di loro nuda appare sulla copertina di una rivista scandalistica. Un crescendo di cinismo, che le spinge ad aggredirsi vicendevolmente e che termina con un suicidio, mentre il direttore ordina appunto: “Continuate a sorridere! Keep smiling!”. Ci è sembrata una storia emblematica di come la donna venga usata dal medium televisivo, senza alcun rispetto per la sua intelligenza, per il suo corpo e nemmeno per il tanto osannato ruolo di madre.
Veniamo, infine, al film che ha ottenuto il Premio Brian 2012: Bella addormentata di Marco Bellocchio. In Bella addormentata la vicenda degli ultimi giorni di vita di Eluana Englaro rimane sullo sfondo, anzi sugli schermi televisivi presenti in quasi ogni scena, come una sorta di colonna sonora parallela: il brusio incessante e insensato dei politici che si dibattono come mosconi all’interno della realtà virtuale televisiva [2]. La vita vera è altrove. Marco Bellocchio ne dà tre esempi … più uno.
C’è il caso di una tossicodipendente determinata a suicidarsi, che un medico laico si ostina a voler salvare. Il primario giudica uno spreco assistere un “tossico” (che pure è una persona viva!), mentre intorno non si parla che di tenere in vita ad ogni costo Eluana, morta di fatto da diciassette anni. C’è, poi, una madre che assiste nella propria casa la figlia in coma, sacrificando la sua carriera di attrice ed ogni altro affetto. Il suo amore si è come ibernato, incapace di dare vita, senza più alcun calore nemmeno verso il figlio che la adora e che chiede il suo aiuto. Eppure la donna è una fervida credente che passa le sue giornate a pregare. Il terzo esempio riguarda una ragazza cattolica che partecipa al sit-in davanti alla clinica La Quiete, dove viene ricoverata Eluana. La ragazza s’innamora di un giovane schierato nella parte avversa. Un sentimento travolgente, alieno da qualsiasi ideologia politica o religiosa. Questo sì un amore capace di riscaldare il cuore di chi lo prova e di renderlo comprensivo nei confronti degli altri. Infatti, la ragazza ritrova il dialogo interrotto col padre.
Qui s’innesta l’episodio che abbiamo definito più uno, perché quello che porta avanti in modo esplicito la riflessione sulla problematica del fine-vita. Il padre della ragazza cattolica è un ex-socialista divenuto senatore del Pdl. Sia per ragioni ideali che per esperienza personale, egli è contrario alla leggina salva Eluana che il suo partito vuole far passare ad ogni costo. Infatti, sua moglie è morta poco tempo prima, dopo lunga sofferenza, ed è stato proprio lui a fermare la macchina che la teneva in vita. Il senatore, nonostante le forti pressioni dei colleghi, decide di leggere una dichiarazione in aula e poi dimettersi. Nelle parole di tale dichiarazione è racchiuso il senso profondamente umano, e perciò complesso e contraddittorio, di tutta la problematica del fine-vita. Le sue parole sono all’incirca queste: “Io che non sono credente, anzi proprio perché non sono credente, avrei dato qualsiasi cosa purché mia moglie potesse vivere ancora un giorno o una settimana. Mia moglie che era molto credente ha chiesto, invece, a Dio di porre fine alle sue sofferenze e ha chiesto a me di aiutarla. Io ho accettato di farlo”.
Molte critiche negative sono state mosse a questa pellicola e, forse, non poteva essere altrimenti data la scottante attualità del suo contenuto. Da destra, come ci si poteva aspettare, è stato definito un film militante e anticlericale. Per noi del Premio Brian il termine anti-clericale non sarebbe un insulto, al contrario. Ciononostante, ci sembra una definizione assolutamente scorretta per Bella addormentata; a spiegarlo nel modo migliore è stato proprio Marco Bellocchio nella sua risposta di ringraziamento al nostro premio: “… Nel non credente c’è, verso chi crede – almeno come l’intendo io – un sentimento di tolleranza e apertura, non alla sua fede, ma alla sua umanità”. Anticlericale militante? No, non ci sembra proprio!
Note
[1] Quante somiglianze tra il collegio cattolico di “Pagine chiuse” e la scuola coranica di “Wadjda”!
[2] Se pure non ci fossero stati altri motivi, il film avrebbe meritato il Premio Brian anche soltanto per aver immortalato a futura memoria il premier Berlusconi che, riferendosi ad Eluana Englaro, afferma: “Se uno dei miei figli fosse lì, vivo e, mi dicono, anche con un bell’aspetto e con delle funzioni come il ciclo mestruale attivo e con la capacità di potersi risvegliare visto che il cervello trasmette ancora segnali elettrici, io non me la sentirei proprio di staccare la spina”. Sic!
Caterina Mognato e Maria Giacometti hanno fatto parte – insieme a Michele Cangiani, Giuliano Gallini e Chiara Levorato – della giuria incaricata di assegnare il premio Brian alla 69aMostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.