Animalismo e antispecismo. ATEOgrafia ragionata

di Francesco D’Alpa

 

 

Negli ultimi anni L’Ateo ha concesso ampio spazio alle istanze (anche le più passionali ed estreme) dell’animalismo e dell’antispecismo, senza tuttavia alcuna scelta di schierarsi apertamente in tal senso ed anzi proprio nell’intento di favorire il dibattito su di esse. L’indubbio prevalere di contributi di tipo antispecista non è dipeso quindi da una scelta ideologica dei redattori (che hanno invece mantenuto un approccio critico) quanto ad una carenza di quelli di senso contrario.

 

Ateismo ed animalismo

Comprendendo i comportamenti degli animali, le loro capacità simboliche e la loro ricchezza di linguaggio, la scienza ha dato un colpo decisivo all’antropocentrismo [1], costringendo la vecchia cultura a ripiegare «su una strategia più duttile per continuare comunque a pensare l’uomo come essere speciale» [2].

Il primo contributo animalistapubblicato da L’Ateonon a caso è a firma di Peter Singer (considerato il leader degli animalisti) e di Edgar Dahl: decisamente in difesa dei diritti degli animali in quanto anime tormentatedalla tirannide umana, secondo l’impostazione antropocentrica di Tomaso d’Aquino, in base alla cui autorità «papa Pio IX si rifiutò di consentire la fondazione d’una società per impedire atrocità contro gli animali. Diceva essere un sacrilegio voler ribellarsi contro la macellazione degli animali; il che poteva suggerire che gli uomini possano avere dei doveri riguardo agli animali» [3]. Per Singer l’antispecismo è un valore e come tale richiede la nostra adesione: «Può ben essere, certo, che noi siamo specisti “per natura”, e che concediamo pertanto dei diritti solo agli appartenenti della nostra specie. Ma dal fatto che è così, non consegue però anche che debba esser così![…] è importante riconoscere che, sebbene vi siano animali che potrebbero vivere di cibo vegetariano, ma talvolta uccidono per nutrirsi, questa non sarebbe tuttavia una convalida dell’affermazione che è moralmente accettabile che noi si faccia altrettanto» [4].

Di fatto, le pagine de L’Ateo propongono da sempre una tesi fondamentale: la specie umana non è “speciale” rispetto al restante mondo animale. Come giustamente scrive Valerio Pocar «È importante stabilire che la diversità non legittima gerarchie. […]Il progresso delle conoscenze scientifiche non muta soltanto la nostra visione del mondo, ma pone anche l’obbligo di rivedere le concezioni e i comportamenti che in proposizioni scientificamente superate trovavano fondamento. La rivoluzione darwiniana c’impone non soltanto di considerare con occhi diversi la specie umana, ma di considerare con occhi diversi anche tutte le altre specie viventi e almeno le specie animali, in quanto specie senzienti, e d’interrogarci se a tutte le specie animali, per via di certe comunanze, non debba essere riconosciuto il rispetto e la considerazione che rivolgiamo alla specie umana»[5].

Attenzione però, come giustamente ammonisce Andrea Cavazzini, a non cadere in un antispecismo dogmatico, dal momento che fra uomini ed animali esiste una asimmetria ineliminabile, nel senso che «l’uomo ha, nei confronti dei suoi partner animali un potere unico di iniziativa e decisione». In base a questo potere «possiamo inventare delle modalità di relazione che nulla, “in natura”, legittima o prefigura: possiamo rendere le altre specie oggetto di studi scientifici, di sentimenti e di affetti, di sfruttamento intensivo dei loro organismi, di esperimenti più o meno crudeli»ma possiamo anche«porci domande sul loro diritto a non essere vittime di sevizie». In definitiva, per quanto non possiamo essere specisti tout-court, «resta da chiedersi se una posizione antispecista radicale sia sostenibile […] Non c’è nessuna evidenza relativa su quale sia la giusta linea di condotta nei confronti delle altre specie viventi: nessun dato di natura prescrive cosa dobbiamo fare con la natura» [6].

Dario Martinelli, uno fra i più agguerriti avvocati dell’antispecismo ospitati nelle nostre pagine, dopo avere sottolineato come «storicamente, a pochi esseri umani piace essere accostati ad altri animali, o all’idea di animalità tutta» sostiene che «animalismo e ateismo, pur non sinonimi, sono reciprocamente inclusivi, dovendo lottare per cause di analoghe origini e complementari soluzioni». Infatti «sono centinaia (davvero centinaia) le implicazioni scientifiche e filosofiche di un atteggiamento antropocentrista. Si va dalla legittimazione morale delle discriminazioni alla percezione distorta dei fatti scientifici. Dalla costruzione di una cosmologia fatta di (pochi) centri e (tante) periferie (per dirla con Galtung), alla giustificazione di diverse e sistematiche violenze. Dalla negazione metodologica dei pluralismi all’idea di un mondo “disegnato intelligentemente” (e a favore di un’unica specie). Fino, inevitabilmente, all’uso sistematico del dogma e dell’ignoranza come strumenti di potere e controllo delle idee […] È qui che emerge la necessità di un superamento radicale dell’antropocentrismo come esigenza fortissimamente comune ai movimenti animalista ed ateo. Si tratta della stessa battaglia. Stessi nemici, stessi presupposti, stessi esiti sperati. Atei e animalisti potrebbero e dovrebbero andare assieme a cena e pianificare campagne e strategie comuni» [7].

L’argomento della supremazia umana elevato a dogma specista viene discusso in maniera più ampia da Luca A. Borchi che enfatizza il passaggio dallo sfruttamento istituzionalizzato e dalla uccisione industrializzata degli animali allo sterminio di massa organizzato dalla Germania nazista, riprendendo il monito di Isaac Singer «Nei confronti degli altri esseri viventi, tutti gli uomini sono nazisti»; da cui il proclama: «se non sei consapevolmente e di fatto “animalista e antispecista” non puoi mai essere un autentico rivoluzionario»[8].

 

Dalla parte degli animali

Tre numeri de L’Ateo hanno avuto per argomento monografico temi attinenti l’animalismo: il 2/2009 “Dalla parte degli animali” ha posto in primo piano la critica all’idea di un primato naturale dell’uomo basato su qualche sua peculiarità, ed a quelle di presunti salti ontologici o fratture fra umanità ed animalità [9]. Senza dimenticare, come precisa Maria Turchetto, che certamente «l’uomo è diverso da tutti gli altri animali – ma nell’identica misura in cui la giraffa è diversa da tutti gli altri animali, la lumaca è diversa da tutti gli altri animali e via dicendo», ciò che da noi viene messo in discussione è la comoda «mentalità che divide il mondo dei viventi in due parti radicalmente separate: l’umanità pretesa superiore da una parte, un’animalità indistinta e connotata come inferiore dall’altra». Da qui una domanda chiave nel dibattito sullo specismo: «se non siamo più legittimati a pensare che la specie umana “vale di più”, come cambiano i nostri rapporti etici e giuridici con le altre specie viventi?» [10]. Tutto ciò, si badi bene, senza alcun intento di svilire l’umanità, come sottolinea ancora una volta Andrea Cavazzini; infatti «l’appartenenza dell’uomo al regno animale non costituisce un argomento in sfavore dei suoi caratteri specifici, originali e irriducibili […] l’uomo è una specie vivente singolare, ma non un’eccezione nel mondo della natura» [11].

Il numero 3/2010 “Bau bau, cip cip, ciao ciao” si occupa del mondo animale in una prospettiva soprattutto etica. La redazione ha ben presenti «i problemi etici e pratici che conseguono all’abbattimento delle barriere erette tra umanità e animalità», ma è concorde nel deprecare «l’arroganza che ha condotto l’uomo a porsi al di sopra della natura e degli animali […] matrice ultima delle discriminazioni e delle crudeltà perpetrate in seno alla stessa umanità» [12]; e dunque è favorevole ad ospitare sia punti di vista compatibili con un sistema di valori comunque riferito all’uomo, che interventi che propugnano un antispecismo radicale [13].

Il terzo numero monografico (5/2013 “L’uso della natura”), in un certo senso più sbilanciato in senso antispecista, ha posto invece in rilievo gli errori ed orrori di quella cultura umana maladattativa, come la definisce Danilo Mainardi, che ha concepito sin dal neolitico «l’idea pericolosa della natura al servizio della nostra specie, dell’uomo estraneo alla natura, e così via» [14]. Da qui, essendo evidente che esiste «un terreno comune alle istanze provenienti da femminismo, animalismo e ambientalismo» abbiamo preso in considerazione le critiche «al capitalismo e allo sfruttamento indiscriminato della natura che tale sistema sociale attua» ed all’«apparato filosofico su cui si basa il pensiero maschilista-specista» [15]. Esiste una indubbia relazione fra donne ed ambiente, ovvero tra oppressione delle donne e dominio sulla natura; al punto da poter sostenere con Isaac Singer che «il mondo è una combinazione tra un macello, un bordello e un manicomio» [16]; e comunque «c’è modo e modo di usare la natura e di tentare di piegarla al nostro volere» [17].

 

Capacità senziente

Il tema della “senzienza”, il più argomentato dagli animalisti, è stato affrontato nel suo sviluppo storico da Nunzio Allocca [18] ed ha trovato un acceso sostenitore nei contributi di Marco Lorenzi, il quale, del tutto in linea con le argomentazioni animaliste di Peter Singer, ritiene che «secondo una visione razionale, laica e priva di pregiudizi il criterio discriminante che consente di distinguere i soggetti moralmente rilevanti da enti solo strumentalmente rilevanti, ancorché dotati di una vita biologica, non possa che essere la senzienza, o capacità senziente, ovvero la capacità di percepire o provare sensazioni soggettivamente, in maniera cosciente»; nonostante «sia ad oggi impossibile tracciare una linea netta che divida gli animali non-umani dotati di capacità senziente e quali no, non vi sono dubbi che almeno alcune specie siano senzienti» [19].

Ponendo dunque in primo piano proprio il criterio della senzienza, Marco Lorenzi pone una fondamentale questione etica: «Come si può dunque giustificare razionalmente lo specismo se la capacità senziente è stata il primo fondamento della nascita dell’etica e se tale capacità è trasversale a molte specie? Come si può affermare contemporaneamente senza violare il principio di non contraddizione che è male uccidere un uomo perché ciò gli causerà sofferenza e che è giusto uccidere un animale non umano anche se ciò gli causerà sofferenza?». Così la sua scelta è netta: «Una visione antispecista dell’etica comporta numerose conseguenze pratiche. Una di queste, la più importante, è la necessità di seguire un’alimentazione vegetariana o meglio vegana. Da sempre l’olocausto più spaventoso è quello perpetrato ogni secondo in ogni angolo del pianeta nei macelli e negli allevamenti. […] Tutto questo non trova alcuna giustificazione nelle necessità di sopravvivenza dell’uomo dato che è un fatto ormai indiscutibile che l’alimentazione vegetariana e vegana siano perfettamente in grado di soddisfare le esigenze nutrizionali degli esseri umani, addirittura diminuendo mortalità e morbilità per molte patologie degenerative» [25].

Lo sgomento di fronte all’uccisione di esseri che riconosciamo simili a noi nella capacità di sentire e soffrire si unisce, nelle parole di Ruggero Ruggeri, alla condanna della inutilità delle stragi animali «cacciati anche per diletto, uccisi per placare e onorare gli dei, tenuti prigionieri nelle gabbie e negli allevamenti, torturati per i più svariati motivi. Il cammino dell’uomo è stato per gli animali una catastrofe» [20].

 

Critica al cristianesimo

In molti contributi pubblicati su L’Ateo l’antianimalismo e lo specismo vengono associati al cristianesimo. In effetti, l’argomento diritti animali è stato sempre un tabù per una religione secondo la quale, tradizionalmente, «l’animale non è meno intelligente rispetto all’uomo, né meno sofferente, ed in ultima analisi meno destinatario di diritti; l’animale, assai più semplicemente, non è intelligente, non soffre, non ha alcun diritto». Motivo per cui «la vivisezione è lecita qualunque sia la condizione sperimentale, anche quando non serva all’utilità pratica mediata od immediata, ma solo al progresso della conoscenza scientifica. È illecito provocare o tollerare negli animali sofferenze senza scopo, perché ciò ripugna alla retta ragione; l’animale non ha diritti, però la condotta dell’uomo verso di esso non è priva di importanza etica» [21].

In tal senso, la critica allo specismo obbligherebbe ad una critica di quelle religioni che l’hanno spesso assunto per dogma (come il cristianesimo); ma sarebbe d’altra parte ingiusto, come sottolineano Marco Lorenzi ed Elena Venco misconoscere che «con l’età dei lumi e della critica razionale alle religioni è cambiato ben poco, così siamo passati dagli olocausti sugli altari degli dèi all’olocausto della vivisezione sull’altare della scienza e a quello degli allevamenti intensivi sull’altare dell’insaziabile ventre dell’umanità» [22].

 

Vivisezione

E qui va introdotto un argomento fra i più delicati, che presto riprenderemo su questa rivista. Animalismo fa quasi sempre rima con antivivisezionismo e non a caso L’Ateo ha ospitato (senza per questo sposarle) prese di posizioni anche estreme. Come nel caso di Michela Kuan, che scrive «la nostra specie si comporta come se fosse l’unica veramente degna di vivere [ma] abbiamo il dovere di osservare il principio che ogni azione umana non deve prescindere dalla morale. Sicuramente la vivisezione non ha nulla di etico» [23]; o nel caso di Luca Cartolari che proclama: «Non ci resta che uscire dalla prospettiva utilitarista e riconoscere che ogni essere senziente deve essere rispettato, a prescindere dall’utilità sociale che il suo sacrificio può produrre. È sbagliato ledere la nostra integrità fisica, toglierci la libertà, o porre fine alle nostre vite solo perché gli altri possano trarne dei benefici. Questo vale non solo per noi ma anche per i nostri compagni di viaggio più deboli, ma che comunque possono provare dolore e sono evidentemente soggetti di una vita. Non c’è altro motivo per discriminarli che non la legge del più forte» [24].

Alla domanda «può lo specismo superare il vaglio razionale ed essere quindi parte di un’etica laica sostenibile?» Marco Lorenzi risponde risolutamente: «un’etica scevra da condizionamenti religiosi non [può]che essere anche antispecista» [25]. Ma il tema si presta a polemiche, come dimostrano molte accese reazioni dei lettori. Esistono, infatti, validi argomenti in favore tanto dell’una quanto dell’altra posizione. Dal punto di vista biologico è innegabile che l’uomo sia un onnivoro e che l’evoluzione ha fatto sì che ci nutrissimo anche di carne. Altrettanto innegabile è il fatto che la dieta carnea della maggioranza di noi discrimina fra animali verso i quali nutriamo una certa indifferenza (come il pollame) ed animali da affezione verso i quali abbiamo delle forti remore (come cani e gatti); per non dire delle ulteriori discriminazioni ad esempio anche fra diverse specie di uccelli (da caccia o da compagnia). Un atteggiamento che mette in luce una ulteriore incoerenza di fondo: «Se nel mondo odierno esiste (o dovrebbe esistere) una remora all’infliggere trattamenti dolorosi e la morte alle altre specie viventi, non altrettanto si può dire della disponibilità al cibarsi delle carni di quegli stessi animali che non ci sentiremmo personalmente di uccidere (dunque la nostra etica è assolutamente incoerente)». Ed in effetti, anche secondo un approccio utilitarista, «l’utilizzo alimentare dei viventi, specie contro specie, appare ben lungi dall’essere risolvibile» [26].

 

Specismo ed aggressività intraspecifica

L’associazione fra macelli e campi di sterminio ha irritato non pochi nostri lettori, che non hanno gradito sentenze come questa: «È stato possibile per il popolo tedesco negare e negarsi l’olocausto nazista di fronte alle ciminiere fumanti di Auschwitz. Allo stesso modo miliardi di civilissimi esseri umani negano l’olocausto specista di fronte ai banchi di macelleria stracolmi di pezzi di cadaveri» [22].

Purtroppo è innegabile l’esistenza di un’associazione fra i vari tipi di violenza (contro i diversi, gli animali, le donne, ecc.). Non si tratta certo delle conseguenza dell’improbabile “peccato originario”; ed allora vale chiedersi, con Baldo Conti: «possibile che dopo migliaia d’anni di omicidi e di olocausti di tutti i tipi, il cervello umano non abbia ancora elaborato la possibilità di vivere senza la necessità di dover scannare il proprio prossimo?» [27]. Ciò ripropone l’argomento dei rapporti fra natura e cultura: fra i passi necessari per «divenire una specie finalmente umana» c’è «il rifiuto e l’abolizione dei cosiddetti “valori” dei quali non è possibile trovarne traccia, né in natura, né tanto meno nei comportamenti umani» [28].

Questa denuncia dell’aggressività umana ha guidato anche un paio di recensioni: a Vilma Baricalla, il cui saggio si oppone «all’azione umana che infligge morte e sofferenza a tali esseri, inferiori e creati per lui» e critica «la concezione fideistica che vedeva nella provvidenza, nella bontà e giustizia divina la giustificazione della sofferenza umana» [29]; ed a Massimo Filippi e Filippo Trasatti che descrivono convincentemente il «parallelo tra le catene di montaggio industriali e quelle di “smontaggio-
animale” negli allevamenti seriali» e denunciano lo specismo e l’antropomorfismo «che in genere accomuna indifferentemente sia coloro che credono in Dio sia coloro che possono definirsi atei e simili»; un testo che «ci fa sorgere molti dubbi e ci mette in notevole imbarazzo» [30].

 

Lettere

Un esempio fra le lettere di critica ricevute è quello di Nicola Antonacci, che ci rimprovera di dedicare fin troppi articoli ai temi animalisti, dando così supporto «ai nostri avversari teisti di ogni sfumatura», ed all’integralismo animalista, mentre al contrario occorrerebbe riconoscere «il ruolo positivo del pensiero antropocentrico e delle religioni antropocentriche, cristianesimo in particolare», in quanto «noi siamo umani e quindi, secondo la naturale legge della sopravvivenza, dobbiamo naturalmente mettere avanti le esigenze della nostra specie […] senza per questo sentirci in colpa, ma con il senso di “umanità” e razionalità che appunto ci contraddistingue: usare la natura per i nostri fini biologici, sociali, culturali, estetici, ma in modo razionale, cioè non sfruttandola indiscriminatamente, altrimenti sarebbe la fine anche per noi ed evitando mali inutili. Il che significa, per esempio, mangiare gli animali, ma risparmiando loro sofferenze gratuite e cercando di rendere migliori le loro condizioni di vita […] il criterio della “senzienza” è insostenibile» [31]. Premesso ciò, il nostro lettore sostiene che «il nostro obiettivo deve essere trovare un equilibrio fra uomo e natura, che è il vero umanesimo, superando il senso di colpa inculcatoci dalla morale ebraico-cristiana per la mela mangiata, cioè il peccato di essere umani e di rovinare come tali la verginità del paradiso terrestre, cioè la natura priva dell’umano. La mela va invece mangiata, ma senza distruggere il frutteto, qui deve stare la nostra intelligenza» [32].

In ogni caso, i consensi alla linea editoriale de L’Ateo prevalgono sulle critiche. Come nel caso di Sara Pepi, che ammonisce su come il nostro dovere morale verso gli animali derivi proprio dalla nostra superiorità morale: «dobbiamo evitare sofferenza quanto più possibile agli altri esseri viventi, perché sono simili a noi (allo stesso modo in cui non dobbiamo schiavizzare altre persone, o usarle a nostro piacimento solo perché diverse da noi). Ora, possiamo noi ridurre la sofferenza degli animali, cambiando i nostri comportamenti nei loro confronti? Se questo è possibile, allora abbiamo il dovere morale di adottare tali comportamenti» [33].

 

Conclusione

È nostra convinzione che gli argomenti animalismo e antispecismo vadano affrontati scientificamente e razionalmente, senza preclusioni ideologiche. Indubbiamente abbiamo sempre concordato con le posizioni animaliste moderate, che peraltro stentano anch’esse a trovare un consenso più ampio in quanto, come sostiene ancora una volta Marco Lorenzi, purtroppo «le posizioni “animaliste” tendono ad usare l’emotività condivisa solo da una piccola parte delle persone [e dunque] tale approccio è destinato all’insuccesso perché una significativa empatia interspecifica è prerogativa solo di una minoranza di persone» [19].

Come ha ben sintetizzato Maria Turchetto: «Con alcuni numeri de L’Ateo […] abbiamo voluto mettere in discussione la tradizionale opposizione umanità/animalità, criticandola per l’arroganza dei suoi presupposti metafisici e rivendicando la razionalità e la moralità del nostro punto di vista materialista e naturalista sull’uomo. Ma siamo ben lungi dall’aver esaurito la questione. I contributi che abbiamo ricevuto e le lettere che li commentano evidenziano posizioni diverse – alcune radicalmente antispeciste, altre propense a rivendicare comunque un antropocentrismo per quanto diversamente fondato – e mostrano alcune incertezze sui fondamenti teorici come sulle indicazioni pratiche. Da parte mia, non pretendo certo di dare una risposta: penso invece che l’unica soluzione corretta sia quella di continuare la discussione […] sono molto lusingata di dirigere una rivista che si mostra capace di affrontare, elaborare, approfondire nuove problematiche anziché limitarsi a ribadire, ripetere e parafrasare vecchie certezze» [34].

 

Riferimenti

[1] Vincenzo Caputo, Parla e ti battezzo: il linguaggio negli animali e nell’uomo, 3/2010 (69), pp. 10-12.

[2] Piero Sagnibene, Lingua cheta, e fatti parlanti,3/2010 (69), pp. 7-9.

[3] Peter Singer e Edgar Dahl, L’animale crocifisso (parte prima),3/1998 (7), pp. 16-17.

[4] Peter Singer e Edgar Dahl, L’animale crocifisso (parte seconda),4/1998 (8), pp. 16-17.

[5] Valerio Pocar, Dopo Darwin. Le ragioni dell’antispecismo,3/2006 (44), pp. 16-19.

[6] Andrea Cavazzini, Ancora su uomo e animale. Biologia, antropologia e “specismo”, 5/2010 (71), pp. 39-40.

[7] Dario Martinelli, L’importanza di essere scimmiette: perché atei e animalisti sono amici per la pelle, 3/2010 (69), pp. 13-15.

[8] Luca Alessandro Borchi, Le mille e una faccia del nemico,3/2010 (69), pp. 15-17.

[9] Federica Turriziani Colonna, Questione di fratture,2/2009 (62), pp. 10-11.

[10] Maria Turchetto, Editoriale, 2/2009 (62), p. 3.

[11] Andrea Cavazzini,Uomini e animali, tra natura e cultura. Su alcuni problemi contemporanei dell’etologia,2/2009 (62), pp. 5-8.

[12] Maria Turchetto, Editoriale, 3/2010 (69), p. 4.

[13] Marco Lorenzi, Discriminanti morali,4/2010 (70) p. 45.

[14] Armando Adolgiso, Intervista a Danilo Mainardi,1/2011 (73), pp. 35-37.

[15] Maria Turchetto, Le donne, gli animali, la natura e i loro nemici. Tre letture ecofemministe,5/2013 (90), pp. 12-14.

[16] Luca A. Borchi, Macello e bordello,5/2013 (90), pp. 17-19.

[17] Enrica Rota, Dèi capricciosi e sacrifici cruenti: l’uso e l’abuso della natura,5/2013 (90), pp. 10-12.

[18] Nunzio Allocca, Menti animali e macchine parlanti. Eredità cartesiane,2/2009 (62), pp. 11-13.

[19] Marco Lorenzi, Senzienza, antispecismo e aborto,3/2010 (69), pp. 18-20.

[20] Ruggero Ruggeri, L’animalità e l’umanità,2/2009 (62), pp. 20-21.

[21] Francesco D’Alpa, Naturalmente simili, teologicamente diversi,2/2009 (62), pp. 3-4.

[22] Elena Venco e Marco Lorenzi, Gli olocausti oltre il confine della specie umana,5/2013 (90), pp. 25-27.

[23] Michela Kuan, Sperimentazione animale: un business mortale, 2/2011 (74), pp. 31-32.

[24] Luca Cartolari, Alcune ragioni per sostenere la campagna NO RBM, NO VIVISEZIONE, 6/2013 (91), pp. 13-14.

[25] Marco Lorenzi, Per un’etica atea e antispecista,2/2009 (62), pp. 17-19.

[26] Francesco D’Alpa, Aggiungi il gatto in tavola?,3/2010 (69), pp. 22-23.

[27] Baldo Conti, Evoluzione umana e guerra intraspecifica,3/2003 (27), pp. 19-20.

[28] Baldo Conti, Smammiferizziamoci,1/2011 (73), pp. 42-43.

[29] Rosalba Sgroia, Recensionea: Vilma Baricalla, L’uomo la bestia i cieli, 2/2004 (31), pp. 34-35.

[30] Baldo Conti: Recensionea: Massimo Filippi e Filippo Trasatti, Crimini in tempo di pace: la questione animale e l’ideologia del dominio, 5/2013 (90), p. 11.

[31] Nicola Antonacci, Animalismo,4/2010 (70), pp. 45-46.

[32] Nicola Antonacci, Ateismo-animalismo,3/2011 (75), p. 45.

[33] Sara Pepi, Risposta al Sig. Antonacci,6/2010 (72), pp. 44-45.

[34] Maria Turchetto, Risposta a tre lettere, 4/2010 (70) p. 45.