di Luigi Garlaschelli
La Sindone di Torino è un telo di lino che misura m 4,40×1,10 circa, tessuto a “spina di pesce”. Reca su di una faccia la tenue doppia impronta, frontale e dorsale, di un uomo rappresentante Gesù e recante i segni della passione: segni di flagello, tracce di sangue alla fronte, alle mani, ai piedi e al costato. Sul telo sono visibili anche aloni dovuti all’azione dell’acqua e varie bruciature, residue dell’incendio subìto a Chambéry nel 1532. Nel 2002 la Sindone è stata sottoposta ad un restauro nel corso del quale sono state tolte le toppe che coprivano i fori delle bruciature e la tela alla quale era cucita, e che ne copriva la parte posteriore. È ora conservata distesa in una speciale teca, in una cappella del Duomo di Torino.
Questa discussa reliquia non è affatto nota dal primo secolo dopo Cristo, ma comparve improvvisamente in Francia, a Lirey, verso il 1355, proprietà dei discendenti di Goffredo di Charny, un piccolo feudatario. Immediatamente Henri de Poitiers, il vescovo della locale diocesi (Troyes) si oppose all’ostensione che veniva fatta del telo, ritenendolo un evidente falso. Infatti, i Vangeli non ne parlano, né egli riteneva verosimile che esso fosse rimasto sconosciuto per 13 secoli.
Le ostensioni ripresero trent’anni dopo; e ancora il nuovo vescovo, Pierre d’Arcis, si oppose. Dopo un lungo braccio di ferro tra lui e il decano della chiesa ove avvenivano le ostensioni, nel 1389 il vescovo si appellò al Papa Clemente VII con un lungo memoriale, nel quale si racconta come il suo predecessore avesse addirittura trovato l’artista che l’aveva “astutamente dipinta”. Il papa permise le ostensioni a patto che si dicesse ogni volta che si trattava di una raffigurazione e non del vero Sudario di Cristo. Le ostensioni cessarono e il Telo passò poi, tramite la nipote di Goffredo, ai Savoia; costoro la trasferirono prima a Chambéry (ove essa subì i danni di un incendio, ancora visibili), e poi a Torino. Dimenticate lentamente le poco nobili origini e le polemiche iniziali, i Savoia ne promossero sempre più il culto, fino ad ottenere l’avallo dichiarato di alcuni papi, come Giulio II.
Tra le mille reliquie medievali, come spine della corona, pezzi di legno e chiodi della croce, sandali e tunica di Gesù, frammenti del suo cordone ombelicale ed altro ancora, le sindoni non erano una novità. Generalmente erano teli bianchi (i Vangeli non citano alcuna impronta su di essi). Esistevano invece dei piccoli asciugamani detti Veroniche o, in oriente, mandylia, su cui, secondo varie leggende, Gesù avrebbe lasciato impresso il suo volto da vivo: con gli occhi aperti, e nessun segno della Passione. Ne erano esempi famosi il mandylion di Edessa e, nel Trecento, il sacro Volto di Roma e quello di Genova (ne parla anche Dante). È forse dall’unione dei due concetti di impronta miracolosa e di sudario che nacque l’idea di una sindone recante l’impronta dell’intero corpo.
Le analisi sul telo
Nel nostro secolo, anche prima delle raffinate analisi spettroscopiche, l’implausibilità della Sindone di Torino fu affermata da molti, per varie ragioni: una tessitura mai usata nel primo secolo; il modo in cui si sarebbe dovuto ricoprire il cadavere, contrario agli usi ebraici del tempo; la resa chiaramente artistica dei capelli, delle colature di sangue, degli arti; e soprattutto la totale mancanza delle deformazioni geometriche che sarebbero da attendersi da un’impronta lasciata, con qualunque mezzo, da un corpo umano su un telo avvolto o appoggiatovi, ecc. Ovviamente, su una Sindone falsa si potrebbero trovare sangue, coloranti, o entrambi; ma una sindone vera, anche se fosse stata ritoccata con colori, deve necessariamente possedere tracce di sangue.
Una prima commissione d’indagine istituita dal cardinale Pellegrino nel 1973 diede però risultati deludenti. Su dieci fili prelevati da varie macchie di “sangue” il laboratorio di analisi forensi del Prof. Giorgio Frache di Modena ebbe solo risultati negativi. Esami microscopici condotti da Guido Filogamo e Alberto Zina non mostrarono tracce di globuli rossi o altri corpuscoli tipici del sangue. La quantità di materia sui fili nelle zone delle macchie è così grande che difficilmente tali analisi avrebbero potuto produrre dei “falsi negativi”. Si videro invece granuli di una materia colorante che non si dissolveva in glicerina, acqua ossigenata o acido acetico e sulla cui natura non ci si pronunciò. Le analisi per cromatografia su strato sottile eseguite da Frache furono pure negative. Un altro membro della commissione, Silvio Curto, trovò tracce di un colorante rosso. Si deve anche notare che il “sangue” sulla Sindone è ancora molto rosso, mentre è ben noto che normalmente la degradazione dell’emoglobina lo rende scurissimo in breve tempo.
Nel 1978 l’allora vescovo di Torino cardinale Ballestrero (coadiuvato dal professor Gonella del Politecnico di Torino in qualità di consulente scientifico) permise una nuova serie di analisi. La
Sindone fu esaminata per 120 ore da un gruppo di scienziati americani, lo STURP (Shroud of Turin Research Project), che la sottopose a una serie di test chimici, fisici e spettroscopici sui quali ancora oggi si discute. In netto contrasto con i risultati predetti, i chimici dello STURP Heller e Adler (nessuno dei quali è però un esperto di analisi forensi e che furono i soli ad eseguire queste microanalisi) dissero di avere accertato la presenza di sangue perché avevano ottenuto le reazioni tipiche delle porfirine. Nessuna delle loro ulteriori analisi è tuttavia specifica per il sangue. Il test delle porfirine, per esempio, risulterebbe positivo anche su tracce di origine vegetale.
Nel 1980 il notissimo microscopista americano Walter McCrone trovò sui nastri che la commissione dello STURP gli aveva passato tracce di ocra rossa, cinabro (HgS: pigmento rosso molto usato nel Medioevo) e di alizarina (pigmento vegetale rosso-rosa). McCrone riportò inoltre la presenza di un legante per le particelle di pigmento che vide, che potrebbe essere collagene (gelatina) o bianco d’uovo. In pratica si tratterebbe di colori a tempera. Recentemente la presenza di sangue umano (gruppo AB) sarebbe stata ri-dimostrata grazie ad analisi immunologiche: test tanto sensibili da rendere difficile discriminare tra campione e inquinamenti.
Lo STURP (molti componenti del quale erano convinti fautori dell’autenticità della reliquia) raccomandò una nuova serie di analisi; ma una sola di queste fu eseguita nel 1988: la radiodatazione col metodo del Carbonio-14. Ancora il cardinale Ballestrero e Gonella scelsero i tre laboratori, a livello mondiale, con maggior esperienza in questa tecnica: Tucson, Oxford e Zurigo. Coordinatore fu il professor Tite del British Museum, considerata un’istituzione prestigiosa al di sopra delle parti. Il 21 aprile 1988 furono prelevati piccoli campioni da un angolo del telo. I risultati complessivi dei tre laboratori furono resi pubblici dal cardinale Ballestrero in una conferenza stampa indetta a Torino il 13 ottobre 1988.
I test di datazione circoscrissero l’età del telo (con una fiducia del 95%) al periodo compreso fra il 1260 e il 1390. L’età accertata del lino coincide dunque con l’età storica nota. Nel comunicato ufficiale, così come nella conferenza stampa, il prelato dimostrò di accettare e adeguarsi ai risultati del test: “Penso non sia il caso di mettere in dubbio i risultati. E nemmeno è il caso di rivedere le bucce agli scienziati se il loro responso non quadra con le ragioni del cuore”.
Caratteristiche dell’immagine
Le caratteristiche intrinseche dell’immagine sono molto interessanti. Essa è paragonata a una specie di negativo fotografico, il cui positivo (quello che spesso vediamo) appare del tutto realistico. Altri fatti indiscussi sono che l’immagine è molto tenue, sfumata, superficiale (non passa dall’altra parte del telo) e che non è prodotta da pigmenti o coloranti (a differenza delle macchie di sangue, che intridono tutto lo spessore della tela con una sostanza che incolla le fibre e in cui sono visibili particelle rosse). Le microtracce di ocra trovate da McCrone, e confermate anche recentemente, non sarebbero responsabili dell’immagine se non in misura trascurabile, ma sono un utile indizio. L’immagine è dovuta ad un ingiallimento delle fibre di cellulosa, in pratica a una degradazione dovuta a disidratazione e ossidazione.
Le analisi spettrali dello STURP indicano che l’immagine del corpo ha proprietà estremamente simili a quelle delle bruciature, ancora ben visibili, che la Sindone subì in un incendio nel 1532. Nel suo rapporto finale lo STURP considera sia l’ipotesi di una strinatura sia quella di una disidratazione chimica come molto verosimili, pur ammettendo che la reale origine dell’immagine non è risolta. La difficoltà nello spiegare queste caratteristiche induce molti a escludere l’opera di un falsario. In realtà sono stati proposti almeno due metodi atti a generare una simile immagine.
Il primo, ideato dal Prof. Vittorio Pesce Delfino nel 1982, prevede l’uso di un bassorilievo di metallo riscaldato. Appoggiandovi sopra un telo, questo si strina, permettendo di ottenere automaticamente un’impronta negativa, indistorta, sfumata, indelebile, non pittorica, ecc. Benché ingegnosa, questa tecnica presenta ovvie difficoltà nel controllo della temperatura dei due bassorilievi necessari (uno per la parte anteriore, e uno per quella posteriore) e del breve tempo per il quale il telo deve essere premuto su di essi. Il rischio è di non ottenere alcuna immagine, o al contrario di bruciare il telo.
Il secondo metodo, proposto da Joe Nickell nel 1983, parte ancora da un bassorilievo (di gesso, o legno, a temperatura ambiente) su cui si dispone un telo. Questo è poi strofinato con un tampone e del colore in polvere, a secco, per esempio ocra rossiccia. Nel corso dei secoli l’ocra si sarebbe persa, ma tracce acide contenute nel pigmento iniziale avrebbero prodotto la debole immagine residua che ammiriamo oggi. A sostegno di questa congettura vi sono anche le microparticelle di ocra ritrovate da McCrone solo nelle aree dell’immagine.
Il nostro studio
Abbiamo provato a seguire il promettente metodo suggerito da Nickell, il quale si era però limitato al solo volto e aveva utilizzato solo normale ocra. Innanzitutto abbiamo fatto tessere un telo di lino a “spina di pesce” esattamente uguale a quello della Sindone, sia come tipo di filato sia come peso. Abbiamo poi verificato se fosse possibile ottenere un’immagine simil-sindonica di un intero corpo.
Il telo è stato disteso sopra un volontario e con un tampone sporcato di ocra rossiccia sono state sfregate solo le parti più in rilievo. L’immagine è stata poi rifinita a mano libera dopo avere steso il telo su una superficie piana. Abbiamo, infatti, constatato che non è possibile applicare il colore col tampone in modo uniforme quando sotto il telo si trova ancora il corpo. Il volto è stato realizzato con un bassorilievo di gesso. Questo è il solo modo di evitare una distorsione completa dei lineamenti e ottenere un risultato simile al volto della Sindone. Con della tempera liquida sono stati poi aggiunti i segni dei colpi di flagello e le macchie di sangue. Il risultato è presumibilmente simile a come la Sindone doveva apparire appena prodotta. Dunque un’immagine molto più visibile per i fedeli di quella estremamente tenue di oggi.
Successivamente, abbiamo aggiunto l’equivalente delle impurità che sarebbero state presenti nell’ocra usata dall’artista medievale. Dopo svariati tentativi con diversi sali e acidi, è stato utilizzato dell’acido solforico all’1,2-1,3% circa in acqua, il quale è stato mescolato con un pigmento inerte in polvere, ottenendo una specie di pappetta semifluida. Non abbiamo trovato alcuna adatta sostanza chimica solida da mescolare al pigmento. Questo è chiaramente una carenza del nostro esperimento, poiché ottenere immagini sfumate applicando una polvere colorata è molto più semplice che applicando una miscela fluida.
Il pigmento utilizzato con l’acido è stato il Blu di cobalto (chimicamente: alluminato di cobalto). Abbiamo deciso di utilizzare un pigmento blu poiché, una volta rimosso, le sue eventuali tracce residue non si potessero confondere con il colore delle fibre ingiallite del lino che sono quelle responsabili dell’immagine. Il procedimento descritto prima è stato ripetuto utilizzando una seconda tela di lino preventivamente invecchiata per riscaldamento in una stufa a 215 °C per 3 ore e poi lavata. Misure di riflettanza nel visibile ci hanno assicurato che il colore ottenuto è simile a quello misurato sulla Sindone.
Per i primi esperimenti ci siamo limitati al volto, ottenuto sfregando il telo adagiato sul bassorilievo con un tampone, utilizzando la pappetta di pigmento blu e acido. Il tutto è stato sottoposto a un invecchiamento artificiale accelerato di 3 ore a 140 °C. Il processo di distacco del pigmento è stato simulato per lavaggio del telo. Il risultato è, come sperato, un’immagine tenue, sfumata, dovuta solo a un ingiallimento delle fibre superficiali del lino, e non è fluorescente all’UV. Il negativo è somigliante a quello del volto sindonico e se elaborato al computer mostra analoghe proprietà tridimensionali.
Desiderando ripetere il processo a grandezza naturale, la tela è stata stesa sul corpo del volontario, strofinata col pigmento acido, poi rifinita a mano libera. Per il volto è stato utilizzato ancora il bassorilievo. Sullo stesso telo, lungo circa 4,40 metri, è stata impressa l’impronta frontale e quella dorsale del corpo. Il riscaldamento (prima parte dell’invecchiamento artificiale) è stato effettuato in un apposito forno (detto “La Machina della Sindone”). La tela è stata infine lavata per eliminare il pigmento. Sono stati aggiunti infine gli aloni dovuti all’acqua che in passato aveva intriso la Sindone, le macchie di sangue (con una miscela di ocra rossa, cinabro e alizarina) e simulate le vistose bruciature visibili sulla Sindone, risalenti all’incendio di Chambery del 1532.
Conclusioni
Con questi esperimenti non si è voluto dimostrare che la Sindone è un falso (poiché sulla base di quanto detto all’inizio dell’articolo, lo si poteva già affermare) quanto piuttosto tentare di capire quale metodo fosse stato utilizzato nella sua produzione verso il 1300. Doveva essere una tecnica piuttosto semplice, anche se ingegnosa, che però rendesse conto, in un colpo solo, delle caratteristiche dell’immagine che si dicono inspiegabili e irriproducibili. È anche ovvio che le proprietà microscopiche delle nostre riproduzioni non potranno mai essere esattamente uguali a quelle dell’originale, poiché un invecchiamento accelerato e artificiale di 4 ore non potrà mai essere equivalente a uno naturale che ha richiesto decenni o secoli per imprimere l’immagine sul telo. Appaiono dunque pretestuose le critiche di coloro che pretendono un’identità assoluta e impossibile. I nostri risultati sembrano tuttavia incoraggianti e dovrebbero essere accolti come un interessante contributo alla risoluzione dei dubbi su quello che è l’oggetto misterioso per antonomasia.
Ringraziamenti
Questo lavoro, dedicato alla memoria di Gualtiero Massa, è stato possibile grazie ai contributi di: UAAR e CICAP (aiuto economico); Silvano Vergoli, Lorenzo Montali, Andrea Ferrero e Marino Franzosi (contributi personali); Simone Angioni, Massimo Albertin e Pietro Gorrini (modelli); Cesare Agliati (Tessile Officina, Giussano) (tela); Prof. Maurizio Licchelli e Dott.ssa Patrizia Carra (analisi spettroscopiche); Claudio Marciano (costruzione della “Machina”); Andrea Albini (assistenza tecnica); G. Marco Rinaldi, Antonio Lombatti, Gaetano Ciccone (assistenza intellettuale). Riferimenti: http://sindone.weebly.com
Luigi Garlaschelli, chimico all’Università di Pavia, è Responsabile delle Sperimentazioni del CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale).
Da L’ATEO 4/2010