(Sugli ibridi giuridici e il silenzio dei cattolici)
di Sergio D’Afflitto, Circolo UAAR di Roma
Il crocifisso deve restare nelle aule scolastiche non perché sia un «suppellettile» o un «oggetto di culto», ma perché «è un simbolo idoneo a esprimere l’elevato fondamento dei valori civili» (tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti) che hanno un’origine religiosa, ma «che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato».
Questo è il nocciolo della recente sentenza del Consiglio di Stato - l’organo d’appello della giustizia amministrativa - con la quale sembra essere stata apparentemente messa la parola “fine” sul ricorso presentato dalla cittadina Soile Lautsi in merito alla presenza di un crocifisso nell’aula scolastica di un istituto di Abano Terme (PD) frequentato dai suoi figli. Si rimarca il termine “cittadina” perché a leggere la sentenza si ha l’impressione di trovarsi altresì a che fare con un tribunale ecclesiastico abituato a trattare con sudditi o, nella migliore delle ipotesi, con rappresentanti - appena tollerati - di appartenenti a culti diversi dalla Religione di Stato. Se non fosse per il - non - trascurabile particolare che in Italia il cattolicesimo (almeno formalmente) non è più religione di Stato dal 1984 e nessuna legge impone di esibire il crocifisso (simbolo - ricordiamo - solo della religione cattolica apostolica romana) nei luoghi pubblici istituzionali della Repubblica Italiana (scuole, caserme, ospedali, aule di tribunale etc.).
Ma passi - si fa per dire - per questo, perché in fondo un organo giudicante formato da esseri umani - per loro natura imperfetti e fallibili - non può non farsi in qualche maniera influenzare dal clima sociale del Paese nel quale opera; in questa sede, al massimo, si potrà far notare che è desolante dover prendere atto che tale organo, nel tentativo di conciliare il - sacrosanto - principio di laicità dello Stato senza al contempo prendersi delle - inevitabili - accuse di offendere l’identità nazionale, è riuscito a irrogare una sentenza che fa strame della prima senza peraltro difendere la seconda, giacché ha scelto il simbolo sbagliato. Ma questa è una valutazione che già eminenti giuristi e commentatori hanno avuto modo di fare nelle opportune sedi, e ad essi si rimanda per la loro maggiore competenza sugli aspetti puramente tecnici della sentenza.
Si vuole qui rimarcare l’attenzione su un argomento a supporto della sentenza (le cosiddette “motivazioni”): «Il crocifisso» - sottolinea il Consiglio di Stato - «svolgerà una funzione simbolica educativa a prescindere dalla religione professata dagli alunni» e, ancora, «è evidente che in Italia il crocifisso esprime l’origine religiosa dei valori che connotano la civiltà italiana: tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, solidarietà umana, rifiuto di ogni discriminazione. Si tratta di valori» - prosegue la sentenza - «che hanno impregnato di sé tradizioni, modo di vivere, cultura del popolo italiano» e che «soggiacciono ed emergono dalle norme fondamentali della nostra Carta Costituzionale». Per finire, «il crocifisso esposto nelle aule scolastiche non può essere neppure equiparato a un oggetto di culto; si deve pensare piuttosto come a un simbolo idoneo a esprimere l’elevato fondamento dei valori civili che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato».
Ora, è chiaro e lampante che se già sulla definizione di “culto” possono esistere difformi pareri, immaginiamo quanto possa essere ampia la controversia sulla definizione di “simbolo religioso”. Essendo stati recentemente censiti la bellezza di 684 diversi culti o religioni o credi, e sempre nel dubbio che tale cifra sia esaustiva, e considerando che la stragrande maggioranza di tali culti, essendo politeisti, comprendono di per sé una miriade di simboli religiosi, ecco che di fatto praticamente qualsiasi oggetto che a molti di noi potrebbe sembrare assolutamente neutro diventerebbe ipso facto un simbolo religioso per qualcun altro: in fondo, lo stesso crocifisso per quattro quinti della popolazione mondiale è un oggetto come un altro. Si può obiettare che nella specifica situazione italiana il crocifisso ha una posizione peculiare per via dei trascorsi che tutti conosciamo. Verissimo ma, proprio perché non esiste più una religione di Stato e il principio di laicità è “supremo” come la Corte Costituzionale sentenziò qualche anno fa, non dovrebbe esistere differenza di dignità tra simboli religiosi e, di converso, nell’impossibilità pratica di dare una definizione ultima di “simbolo religioso” univoca o, quantomeno, non equivoca, lo Stato dovrebbe mantenersi neutrale nei confronti di qualsivoglia religione e non ammettere i simboli di nessuna nei propri locali. Ma il Consiglio di Stato va ben oltre e, nel tentativo di salvare capra (la laicità dello Stato) e cavoli (il crocifisso come baluardo dell’italianità), finisce - come detto - per rendere un pessimo servigio a entrambi. Il primo aspetto riguarda tutti noi, cittadini della Repubblica e non, in quanto la laicità è il codice grammaticale comune alla base del linguaggio di tutti i cittadini; il secondo punto è un po’ più imbarazzante e riguarda in particolare i cattolici che, con questa sentenza, vedono sminuito il valore del proprio oggetto di culto.
Si rimarca a scanso di equivoci: «il crocifisso esposto nelle aule scolastiche non può essere neppure equiparato a un oggetto di culto; si deve pensare piuttosto come a un simbolo idoneo a esprimere l’elevato fondamento dei valori civili che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato». Quindi, il Consiglio di Stato ha deciso che il crocifisso non è un oggetto di culto pur di non dover affrontare la stridente contraddizione della sua presenza nei luoghi pubblici di uno Stato laico, che non ha più nemmeno una religione ufficiale. Di più: ha deciso sponte sua che il crocifisso (simbolo di una religione ben definita) è espressione dei valori alla base della laicità delle leggi dello Stato. Che molti giudici siano digiuni di storia sacra è comprensibile, essi possono provenire da diverse sensibilità e culture. Ma un cattolico mediamente istruito - non v’è neppur bisogno di aver frequentato l’università, il successo del cattolicesimo è consistito storicamente nel rivolgersi anche a target scarsamente scolarizzati - che frequenti abitualmente la Messa dovrebbe sapere benissimo che al fatidico quesito evangelico posto dai farisei a Gesù se fosse giusto o meno pagare le tasse a Cesare, questi avrebbe risposto: «Di chi è la faccia su questa moneta?» e, alla risposta: «di Cesare», avrebbe proseguito: «E allora, date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». Quindi, non solo cattiva giurisprudenza, ma anche cattiva teologia, visto che - a legger gli scritti che ne narrano le presunte gesta - nemmeno a colui che viene ritenuto l’ispiratore del cristianesimo sarebbe mai passato per la testa di permettere commistioni tra la sfera privata del religioso e quella pubblica del civile.
Che molti laici, a prescindere dalla loro fede o non fede, rimangano perplessi di fronte al bizantinismo di un pronunciamento che pretende di sommare le mele alle pere (e sappiamo tutti dalle elementari che non si può) è normale. Che moltissimi - a sentir la Chiesa - cattolici non abbiano, invece, alcunché da obiettare a una sentenza che priva di qualsiasi valore religioso il loro simbolo fondamentale pur di continuare a giustificarne la presenza in luogo indebito, è preoccupante. Si poteva pensare che chi difende la presenza di un crocifisso in un luogo pubblico poteva essere considerato, ancorché un cattivo cittadino, quantomeno un buon cattolico (sebbene le esperienze di cattolicesimo democratico nel Paese hanno dimostrato che si può essere cattolici e avere al contempo senso dello Stato e rispetto della laicità); ma cosa pensare di quei cattolici che, oltre a dimostrare scarso senso civico, dimostrano pure indifferenza di fronte allo svilimento ex lege del loro simbolo più importante?